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Dall’immaginario della violenza alla violenza del potere


16 Mag , 2021|
| 2021 | Terza Pagina

È la violenza a mettere in rapporto la produzione audiovisiva contemporanea, la comunicazione web e le armi: in che modo questa costellazione di termini entra in relazione col nucleo originario del potere costituito? Un percorso scandito da tre «passi» fra cultural studies, filosofia, antropologia e sociologia, che attraversa l’immaginario e i nuovi media per approdare a una visione analitica e realista della sovranità, fondata sempre, più o meno esplicitamente, sulla detenzione di arsenali ed eserciti. E questo perché «dietro tutti i surrogati c’è il potere costituito, il re nudo che poi però tanto nudo non è ad eccezione di determinati casi: il re potrà essere anche nudo, ma sicuramente è ben armato delle armi del suo fedele seguito».

A seguire un estratto di VIDEO WEB ARMI di Alessandro Alfieri

Le istituzioni politiche e i simboli di riferimento che sostengono una determinata comunità, sotto i colpi del cinismo del web e della dissoluzione dei valori di riferimento che in epoche passate non erano negoziabili o dubitabili, si ritrovano sospese nel vuoto. In realtà quella del “vuoto” è un’immagine fuorviante: spalancandosi lo spazio celato sotto l’immaginario, ecco che a emergere è il fondamento che da sempre regola e sostiene il potere, ma che era sempre stato latente, nascosto, celato dall’immaginario, e che aveva iniziato a palesarsi drammaticamente proprio con il terrorismo. Si tratta del sostegno armato del potere, ovvero il principio ultimo che garantisce l’autorità. Ovviamente, le potenza armata del potere emerge in diversi casi anche in “tempi di pace”: ma […] si tratta di puntare in profondità verso l’essenza del potere, spoglio di ogni sovrastruttura immaginifica che per quanto vitale assume un valore solo in rapporto al sostegno fondativo di chi detiene le armi. Per questo chi detiene le armi, anche attraverso l’immaginario e il potere simbolico, deve essere sempre gestito dall’alto; e non sono rari i casi in cui, una volta ceduto l’immaginario, si mostra un reale vuoto espresso dall’inefficacia degli organi militari, che apparentemente vigilavano solo per mediazione del proprio “involucro simbolico”. Si tratta della domanda che si pone sempre Diamond in riferimento alle tribù primitive: “Perché nelle società divise in classi il popolo tollera che il frutto del suo duro lavoro sia trasferito alle élite? […] Cosa deve fare un’élite per avete il consenso popolare e allo stesso tempo mantenere il suo stile di vita?”[1].

[…]

Dai tempi del “diritto di spada” da parte del sovrano, ovvero del cosiddetto ius gladii che esprimeva proprio il connubio indissolubile tra lex e imposizione armata – il diritto da parte del signore o governante di punire anche con la morte il proprio suddito – in realtà la violenza si è rinnovata nel profondo. Certo, qui ci riferiamo a come il principio della sovranità (anche popolare e democratica) derivi sempre da uno strappo violento e porti con sé le cicatrici di tale strappo: la pace proviene dalla guerra, la democrazia proviene dalla tirannide e dalla violenza. Ma in realtà, come evidenziato da Luciano Canfora, è connaturata alla controversa storia dell’idea stessa di democrazia il legame con la violenza, e ancora più esplicitamente con le armi; la tendenza di esaltare ingenuamente la “democrazia ateniese” spesso trascura la “radice stessa dell’antica nozione di cittadinanza e di democrazia in quanto comunità di uomini in armi[2]. Il cittadino che detiene il diritto di voto, nella “libera Atene”, è solo il maschio che esercita la sua funzione essenziale, ovvero la “guerra”, e dal momento che essere guerriero per molto tempo implicava avere la disponibilità economica per possedere la strumentazione adeguata – tanto a Sparta quanto ad Atene –, il profilo del cittadino/guerriero si identificò con quello di possidente.

Quando si strappa il velo dell’immaginario, il sostegno ideologico che regola i rapporti di potere viene meno e si riconfigura secondo le rinnovate esigenze; se a venire meno è la fiducia nei confronti delle istituzioni – movimento di sfiducia giustificato dalla compromissione delle proprie condizioni di vita, ma anche sostenuto dal libertismo indiscriminato del cinismo del web – allora ciò che viene alla superficie è quel fondo abissale tenuto celato e latente – e perciò stesso più efficace per quanto inattivo e in “stato di riposo” – che sosteneva indirettamente il potere garantendo ad esso la sussistenza, dal momento che “nessuna società sarà mai totalmente trasparente”[3].

[…]

Pierre Bourdieu definisce “occulto” il principio che fonda lo Stato, e propone […] una de-trascendentalizzazione del principio della sovranità. Il principio occulto emerge dall’invisibilità e si mostra in superficie nelle manifestazioni dell’ordine pubblico intese come regolazione pacificante che impone ordine al caos dell’anarchia, al disordine o alla sovversione armata. L’altro registro, forse anche più efficace e determinante per il mantenimento dell’idea di Stato, non è la manifestazione palesata delle forze dell’ordine, ma un piano simbolico sotterraneo e implicito: “occulto” per l’appunto. Se Max Weber intendeva lo Stato come l’istituto che possiede il monopolio della violenza, Bourdieu intende la violenza in maniera più articolata […] : “Per ordine pubblico non si deve intendere solamente la polizia e l’esercito, come lascia pensare la definizione weberiana incentrata sul ‘monopolio della violenza fisica’. L’ordine pubblico si fonda sul consenso: il fatto che ci si alzi a una determinata ora presuppone l’accettazione dell’ora”.[4]

[…]

L’analisi di Bourdieu è volta a proporre una de-trascendentalizzazione dell’autorità statale, un approccio molto “realista” e tagliente; dice infatti il sociologo: “Lo Stato può essere considerato un’illusione solidamente fondata, un luogo che esiste essenzialmente per il fatto che si crede alla sua esistenza”[5]. Entità che esiste in forza della credenza, che non si può toccare con mano[6], dietro alla quale impera il caos per dirla con Castoriadis. In questa prospettiva, gli stessi atti di Stato hanno valore solo in base alla fede nell’esistenza del principio che li fonda. Se Bourdieu invita a “uscire dalla teologia” per indagare l’autorità simbolica risalendo passo passo all’origine in una sorta di epochè, la sua analisi arriva al valore della violenza simbolica nella sua funzione fondante. Ebbene, la dimensione trascendentale dell’immaginario, per quanto essenziale e imprescindibile per comprendere il funzionamento delle comunità moderne, esce dalla porta e rientra dalla finestra: Bourdieu evidenzia la possibilità dello strappo dell’immaginario, quando una visione cinica è disposta a guardare con occhi diversi la forza mitico-simbolica. Se è vero che “quando si è giovani, e si ama fare i cinici, soprattutto, sentirsi cinici, è incredibilmente piacevole demistificare le apparenze”[7], d’altronde è altrettanto vero che “Sarebbe ingenuo […] non prendere sul serio questi atti di teatralizzazione dell’ufficialità, la cui efficacia è reale, anche se l’ufficialità non è mai altro che l’ufficialità, qualcosa che in tutte le società esiste solo per essere trasgredito”[8].

Qui sono comprese le simbologie militari e i cerimoniali delle forze dell’ordine, che rimettono in connessione i due piani: certo la violenza in quanto comunicazione simbolica, ma con la consapevolezza che l’immaginario stesso lascia trapelare l’ultimo baluardo dello Stato prima che si precipiti nel caos, ovvero il mantenimento dell’ordine grazie alla detenzione della forza armata. La teatralizzazione delle autorità e dello Stato garantisce la valenza degli atti giuridici e istituzionali: “una finzione collettiva riconosciuta come reale tramite la fiducia e che, per questo, diventa reale”[9]. Il “risalimento” che propone Bourdieu invita i sociologi ad andare al di là dell’apparenza teatralizzata che si affida a principi di ordine trascendentale, ma la regressione può e deve andare oltre il velo della teatralizzazione simbolica: questo deve fare la sociologia per Bourdieu, scienza che egli stesso definisce “meta-meta”, perché se le masse sono iscritte spesso in maniera irriflessiva nell’orizzonte del potere, mentre lo Stato essendo al vertice della costruzione immaginaria è autocosciente delle pratiche di controllo e dominio, il sociologo decostruisce l’ordine e “rovina il gioco”, perché esplicita le regole irriflesse, le smonta, le mette in evidenza in maniera anche spietata. Esplorare lo Stato significa esplorare l’inconscio collettivo e le strutture mentali di una collettività: “L’originario è il luogo dell’essenziale, in cui i conflitti sono evidenti, in quanto i fenomeni di resistenza nei confronti della costituzione dello Stato sono stati notevoli”[10]. Bourdieu fa riferimento a una “sociologia genetica” dello Stato, che riflette le tendenze essenziali del realismo sociologico che riconosce il valore di fatti ed eventi non ontologicamente commensurabili ai dati di fatto. Certo, nell’ambito del potere simbolico il linguaggio ricopre una funzione essenziale, perché nel potere di nominazione si esprime il monopolio della violenza, e i funzionari dello Stato sono autentici “ventriloqui” o “rappresentanti dell’universale” – senza l’esigenza, almeno dalla prospettiva teorica, che ci sia autentica parresìa, ovvero piena adesione dei funzionari con ciò che essi rappresentano esteriormente. Ma ciò che sembra sfuggire alla teoria della violenza simbolica di Bourdieu però è che le cerimonie in divisa acquisiscono la loro funzione immaginaria perché il riferimento ultimo, più o meno esibito, restano le armi, ovvero il principio regolatore che carica di senso le forze armate che detengono, dietro il teatro delle apparenze e il velo dell’immaginario, il sostegno delle istituzioni e dello Stato. Come afferma lo stesso sociologo francese: “Il colpo di Stato da cui è nato lo Stato (anche se attraverso un processo non tangibile) rimanda a un formidabile colpo di mano simbolico che consiste nel fare accettare universalmente, nei limiti di un certo ambito territoriale che si costruisce attraverso la strutturazione di tale punto di vista dominante, l’idea secondo cui non tutti i punti di vista si equivalgono, ma ne esiste uno, dominante e legittimo, che è la misura di tutti gli altri. Questo arbitro terzo costituisce un limite al libero arbitrio”.[11]


[1] J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi, Torino 2005p. 219.

[2] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 32.

[3] C. Castoriadis, L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, Dedalo, Bari 2011, p. 176.

[4] P. Bourdieu, Sullo Stato, Feltrinelli, Milano 2013, p. 21.

[5] Ivi, p. 24

[6] “Tornando indietro, si arriva a un luogo fondativo, a una realtà misteriosa che esiste in forza dei suoi effetti e per la credenza collettiva nella sua esistenza, che costituisce il principio di quegli stessi effetti” (Ivi, p. 24).

[7] Ivi, p. 48.

[8] Ivi, p. 52.

[9] Ivi, p. 65.

[10] Ivi, p. 148.

[11] Ivi, p. 116.

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