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Tempo di vita e orario di lavoro


11 Giu , 2021|
| 2021 | Visioni

Il problema dell’orario di lavoro e, più in generale, della gestione del tempo nella società capitalistica ha da sempre rappresentato una questione centrale per il movimento operaio: il tempo, l’unica risorsa veramente scarsa, è venduto dal lavoratore insieme alla propria forza-lavoro in cambio di un mero salario monetario, il quale mai potrà sostituire quelle ore passate in fabbrica o in ufficio. In questo senso, la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro significava riconquistare, minuto per minuto, la possibilità di una vita più libera e dignitosa, non compressa esclusivamente sulle tempistiche lavorative. Con la scomparsa della classe operaia quale soggetto attivo e cosciente della lotta di classe, è venuto meno l’intero dibattito relativo alla questione in esame. Sulla scia dell’ottimo articolo di Giuseppe d’Elia, sarebbe auspicabile riaccendere i riflettori su un tema cruciale e oggi dimenticato.

Plusvalore e orario di lavoro nell’esperienza italiana

Il rapporto di lavoro capitalistico presuppone, com’è noto, un scambio ineguale tra proprietario dei mezzi di produzione e lavoratore: il primo compra la prestazione del secondo attraverso un salario monetario; il dipendente riceve per la propria fatica un compenso parametrato sulle ore di lavoro effettive svolte. Ovviamente, è il padrone a determinare a priori il valore dell’ora-lavoro, escludendo dalla retribuzione quella quota di pluslavoro prodotta dal lavoratore e incamerata come plusvalore dalla parte datoriale. Fatto 100 il prodotto di un’ora, al dipendente non potrà mai spettare l’intero prodotto della propria opera. Su questo primo punto è bene avere un’idea chiara: in qualsiasi campo dello sfruttamento borghese, anche e soprattutto nel terziario dei servizi che costituisce oggi la parte prevalente dell’economia occidentale, il meccanismo predatorio del capitale funziona indefessamente. A un maggior numero di ore-lavoro si accompagna un aumento esponenziale del plusvalore “rubato” dal padrone. Inoltre, schiacciando verso il basso il resto del prodotto destinato al lavoratore, il capitale tende “naturalmente” a portare la giornata lavorativa verso un numero forzato di ore, tante quanto siano necessarie almeno alla sopravvivenza materiale dello sfruttato. La conquista delle mitiche 8 ore, risale ormai a una lotta operaia di quasi cento anni fa, nonostante il progresso tecnico abbia permesso forme e tassi di produttività incomparabili. A mero titolo esemplificativo, tra il 1970 e il 2000 la produttività del lavoro in Italia è raddoppiata a tempo di lavoro costante. Perché non è stato possibile ridurre la giornata lavorativa? Anzi, perchè in presenza di un innegabile miglioramento della tecnica esistono ancora fenomeni infami come la disoccupazione e lo sfruttamento inumano dei lavoratori? La risposta è presto data. Senza una opposizione organica e strutturata dei lavoratori, il capitale non conosce alcun freno al proprio dominio. Nell’immagine 1, si nota come nel periodo 1970-1985 in Italia le ore lavorate siano leggermente diminuite nonostante un aumento generale del PIL e della produttività. Nel momento di maggior organizzazione del movimento operaio, assistiamo a un faticoso sforzo di riequilibrio dei rapporti di forza: il padronato deve guadagnare quel tanto di plusvalore perso tra aumenti salariali e diminuzione delle ore-lavoro attraverso la ricerca e l’innovazione tecnologica. Non appena il capitale riconquista il proprio dominio- con la riconversione ideologica degli anni Ottanta e l’ingresso in Europa- non abbisogna più di investimenti perché il fattore lavoro è abbondante e costa poco: aumentano le ore lavorate e cala, non paradossalmente, la produttività. Infatti, senza più il “problema” degli aumenti salariali e delle rivendicazioni operaie, il padronato italiano può recuperare la propria veste originaria di straccione sfruttatore, capace di “fare impresa” come nel Terzo Mondo: pagando poco e male. Nel calcolo idiota, alle classi dominanti nazionali non importa aumentare il prodotto complessivo. Non dovendo più ampliare la “fetta” della quota salari, è anzi opportuno rimanere nella stagnazione deflazionistica per lucrare sui mercati finanziari, schiacciando sempre più le retribuzioni verso il basso. Con lo spettro onnipresente della disoccupazione strutturale, senza alcuna capacità di difesa di classe, il lavoratore italiano si trova oggi nell’impossibilità di poter rivendicare il diritto a lavorare meno: al padronato basta attingere all’esercito industriale di riserva o, all’occorrenza, delocalizzare per chiudere sul nascere la questione.

Figura 1. Confronto tra crescita del PIL, prod. del lavoro e prod. totale dei fattori, ore lavorate (dati AMECO)[1]

Tempo di vita e orario di lavoro

Dominio e servitù volontaria

Il problema fondamentale attiene così al rapporto di dominio che lo scambio ineguale tra lavoro e salario produce nella società capitalistica. Il proprietario dei mezzi di produzione, infatti, diviene il dominus dell’intera esistenza del dipendente: com’è noto, la struttura capitalista determina la configurazione borghese delle istituzioni politiche e sociali, le quali riproducono a ogni livello la condizione di subalternità delle classi lavoratrici. Pertanto aumentare il più possibile le ore di lavoro permette di mantenere sotto un ferreo controllo i moderni schiavi salariati, indegni di disporre liberamente del proprio tempo: il terrore padronale dell’ozio significa infatti la paura di vedere i propri servi conquistare pian piano la dignità di uomini liberi- tali perché finalmente privi della catena che li lega alla macchina e alla scrivania-, come tali capaci di realizzare una società diversa, non fondata sull’ingiustizia di classe e lo sfruttamento. A tal fine serve costruire un’ideologia, una rappresentazione della realtà che, come nel mito di Platone, induca i prigionieri a desiderare i ceppi e la subalternità assoluta. La controrivoluzione liberale degli ultimi cinquant’anni ben testimonia quanti sforzi- e quanti successi!- si siano raccolti attorno al ribaltamento costante del meccanismo di sfruttamento borghese in “soddisfazione personale”, al punto che ormai le masse amorfe hanno introiettato nel profondo della psiche le logiche competitive e alienanti, date per naturali in una plastica e assurda dimostrazione del feticismo ideologico. La guerra di posizione contro l’egemonia culturale liberale diviene così una necessità esiziale e primaria per instradare qualsiasi rivendicazione sul tema dell’orario di lavoro, poiché quello che va sottoposto a critica radicale è l’intera struttura della realtà borghese.

La patologia di fondo dell’umanità contemporanea, almeno di quella più esposta al capitalismo contemporaneo caratterizzato da accumulazione flessibile, appare quella di essere stata assoggettata alla razionalità produttiva e ai processi accumulativi della ricchezza tanto da essere stata costretta a divenir capitale in sé medesima. Ossia, in una condizione esasperata di precarizzazione del mercato del lavoro, di essere stata ridotta tanto a veicolo del capitale, in ogni aspetto della sua vita produttiva, percettiva, discorsiva e affettiva, da essere progressivamente giunta a un’identità basata sul fare impresa di se stessa. Di essere cioè vita ridotta a essere funzione integrale del capitale ma con la coscienza opposta di essere invece soggettività presuntivamente libera e intraprendente, soggettività imprenditrice di se stessa. Insomma, forza-lavoro inclusa in una subordinazione reale al capitale ma con la falsa coscienza di essere invece soggetto autonomo di lavoro. Qualcosa di una tipologia antropologica e storico-sociale che rimanda alla «servitù volontaria» teorizzata da La Boétie nel Seicento e da Gramsci con il suo concetto di «rivoluzione passiva».[2]

In questo senso, lavorare meno per vivere di più e meglio richiede, in partenza, quello “spirito di scissione” gramsciano in grado di presupporre- per poi compiutamente sviluppare in itinere– la propria individualità autonoma e libera, completamente immune da tutte le scorie dell’ideologia borghese. Uno sforzo cosciente, di grande valenza e di notevole difficoltà, che tuttavia appare necessario per avviare una nuova stagione di lotta.

Alcune proposte pratiche

Sul terreno pratico, la linea da seguire in merito alla battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro deve seguire il vecchio adagio del “lavorare meno, lavorare tutti”. Infatti, la piena occupazione rappresenta una condizione di grande riequilibrio nei rapporti di forza con il padronato: priva il capitale della possibilità di ricorrere alla minaccia mafiosa del licenziamento, forza verso l’alto le rivendicazioni salariali e permette guadagni materiali e morali di grande rilevanza per il movimento dei lavoratori. Un Piano per il pieno impiego con valore legale dovrebbe perciò garantire il diritto fondamentale del lavoro, architrave dell’impianto costituzionale, al fine di risolvere il problema a un tempo della disoccupazione e del ricambio generazionale. Infatti, accanto al Piano si dovrebbe riformare il sistema pensionistico reintroducendo un meccanismo retributivo agganciato a un’età pensionabile umana di 62-60 anni, con la possibilità per tutti di accedere al riposo dopo 35 anni di lavoro. I posti liberati andrebbero a completare il quadro del Piano garantendo ai giovani l’accesso a condizioni di impiego degne e stabili. Una volta garantito questo aspetto, si potrà concentrare l’offensiva sul tema dell’orario: indagini conoscitive sullo stato della tecnica e delle capacità produttive per settore garantiranno una conoscenza ampia di ogni aspetto professionale, al fine di avvicinare alle esigenze dei lavoratori ogni ambiente di lavoro. Non pare assurdo stimare nella riduzione a 35-32 ore settimanali un traguardo intermedio, già oggi alla portata senza grandi stravolgimenti: ove possibile, sarebbe opportuno guadagnare un ulteriore giorno libero nella settimana. La legge dovrebbe tassativamente normare il tema delle turnazioni, garantendo agevolazioni ai lavori usuranti e notturni. Particolare attenzione merita poi il problema del tempo di “para-lavoro”: una normativa stringente sui trasferimenti e sul pendolarismo deve garantire a ognuno la possibilità di scelta della sede di impiego, o quantomeno provvedere con ristori adeguati ai danni e ai costi del trasporto giornaliero. L’obiettivo di medio periodo diviene così la riduzione della giornata lavorativa a 5-6 ore per 4-5 giorni settimanali a retribuzione costante e invariata: le possibilità di una società così organizzata divengono molteplici ampliando notevolmente il tempo di vita e le condizioni di “pieno sviluppo della persona umana”, per citare l’art. 3 della Costituzione repubblicana.

Conclusioni

Alle proposte di massima sopra enumerate devono chiaramente accompagnarsi delle riforme di struttura: sovranità monetaria, repressione finanziaria, nazionalizzazione del credito e del debito pubblico, controllo governativo della Banca d’Italia, un vero sistema di programmazione economica. Tutto consiste così nel problema del potere: con l’attuale configurazione dei rapporti di proprietà, nulla potrà mai realizzarsi poiché il dominio capitalistico non può concepire una realtà libera dallo sfruttamento, ove la società sia dell’uomo per l’uomo. Solo la socializzazione dei mezzi di produzione, cancellando la rendita parassitaria e aprendo ai lavoratori la via della partecipazione cosciente al potere economico e politico, può aprire la via a forme nuove e più alte di Civiltà. Senza Socialismo, in conclusione, il tempo di vita sarà sempre costretto a scampoli alienati e deprimenti, fagocitato dal ticchettio perenne della macchina a cui lo sfruttato n’échappe pas.

Post scriptum

La consapevolezza che solo il Socialismo possa radicalmente e strutturalmente modificare la realtà non deve però impedire forme di azione contingenti al momento in cui siamo: la strategia comprende la tattica, ma l’una non esclude certo l’altra. Se v’è una lezione fondamentale nell’elaborazione marxiana, essa consiste nell’unire alla teoria la praxis: ad oggi, sarebbe necessario perciò diffondere consapevolezza circa la possibilità tecnica di una riduzione generale dell’orario di lavoro a parità di salario, con l’obiettivo di creare una contronarrazione rispetto all’egemonia corrente. Tra le macerie del degrado liberale occorre di nuovo introdurre elementi di contropotere operaio. Come poté affermare Marx dopo l’approvazione della legge sulle 10 (!) ore in Inghilterra

tale lotta contro la restrizione legale della giornata lavorativa fu furiosa poiché, oltre a limitar l’avarizia, toccava la disputa fra la cieca legge dell’offerta e della domanda (cioè l’economia politica della borghesia) e la produzione sociale regolata dalla società (cioè l’economia politica della classe operaia). Indi la legge delle dieci ore fu un grande successo pratico nonché la vittoria di un principio: per la prima volta pubblicamente l’economia politica della borghesia soggiacque all’economia politica della classe operaia.

Occorre cioè che la vecchia talpa ricominci a scavare, con pazienza e volontà, conquistando giorno per giorno il diritto a vivere.


[1] Disponibile da https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-governatore/integov2020/Visco-04.09.2020.pdf

[2] Roberto Finelli, La soggettività complicata di Karl Marx, disponibile in https://books.openedition.org/res/5922?lang=it

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