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La pandemia e “le verità della televisione”
In un bell’articolo di qualche giorno fa, Gabriele Guzzi descriveva il modo in cui le giovani generazioni sono state coinvolte (e ancor più rappresentate) nel quadro dell’attuale campagna vaccinale, analizzandone in particolare i riti sanitari: dagli open day alla condivisione di foto sui social network, passando per le interviste entusiaste sui tg. La trasformazione di un momento così delicato a livello individuale e collettivo in un grande happy hour è il sintomo di un approccio consumista e scanzonato a qualsiasi cosa, anche alla cura di una pandemia. La narrazione escatologico-religiosa avvilisce una generazione già maltrattata nei mesi scorsi a suon di reprimende, sensi di colpa, stigmatizzazioni.
L’analisi di Guzzi è totalmente condivisibile. Cerco qui di inserirla dentro alcuni processi più ampi, che ne costituiscono l’orizzonte di possibilità: si tratta infatti di elementi che avrebbero potuto fungere da argine e invece hanno agito da amplificatori. Il primo, quello fondamentale, è legato alla pressoché totale scomparsa di un elemento che storicamente ha caratterizzato, seppur in modi diversi, il vasto campo definibile come “area progressista”: mi riferisco a quella cosa variamente chiamata controinformazione, scetticismo verso l’informazione mainstream, decostruzione delle rappresentazioni mediatiche dominanti. Questa posizione nei mesi scorsi è stata quasi unilateralmente derubricata a complottismo, ascritta a posizioni destrorse o eventualmente apolitiche, qualunquiste. Il fenomeno è interessante, perché in passato questo assunto non era affatto scontato, e anzi la critica al potere si giocava (anche e soprattutto) a un livello per così dire precedente rispetto a quello del dibattito pubblico. È stato così ai tempi della beatificazione a reti unificate della globalizzazione a inizio anni 2000, ai tempi delle “guerre giuste” (la cosiddetta esportazione della democrazia) e anche ai tempi della crisi finanziaria del 2008. L’idea che la rappresentazione dei fenomeni e la legittimità conferita alle posizioni dominanti – i cosiddetti frame – fossero essi stessi parte del problema e che fossero, semplificando, espressione di chi detiene il potere, era un’opzione ben considerata.
La crisi pandemica ha comportato un notevole cambio di rotta. Nella complessa trama di politiche pubbliche, scontri dialettici, opinioni di esperti e soprattutto nella indiscutibile tragedia rappresentata dalla Covid-19, uno dei dati politici principali (se non proprio il principale) è l’enorme arretramento rispetto alla critica del sistema di informazione ufficiale. Un fenomeno trasversale, e che rimette al centro la televisione, ben affiancata dai siti web dei principali quotidiani nazionali italiani e da alcune piattaforme di informazione online (i vari Fanpage, Linkiesta, etc). Questi canali informativi sono sostanzialmente un coro, e quindi – in quanto coro – costituiscono una costruzione egemonica. In questa cornice, la stragrande maggioranza delle critiche al “governo dei migliori” e all’apparato mediatico che lo sostiene si concentra sui contenuti espressi dalla politica e dagli esperti del Cts (o da altre figure istituzionali e governative), ma non ne mette quasi mai in discussione lo statuto di veridicità. Eventualmente se ne denuncia la scarsa trasparenza, ma quel che viene notiziato è insindacabilmente assunto come “vero”: da quella verità si parte per giocare la partita e popolare il campo di battaglia. Richiamando un noto verso di Fabrizio De Andrè, si potrebbe dire che abbiamo “preso per buone le verità della televisione” (Canzone del Maggio, 1973).
Si badi bene: non si tratta di essere paranoici, complottisti, agambeniani o quant’altro, ma semplicemente di aver seguito la prima lezione di un qualsiasi corso di sociologia della comunicazione all’università. Che esistano l’agenda setting, l’effetto di priming, e più in generale che la scelta delle notizie e il modo in cui vengono presentate sia strumentale alla definizione della realtà, al mantenimento dell’ordine sociale costituito (o, eventualmente, in alcuni casi, alla volontà di modificarlo), è scritto su qualsiasi manuale. Ma è anche stato un tema classico degli “intellettuali di sinistra”. Si pensi, ad esempio, alla memorabile scena finale di un capolavoro del cinema italiano, “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio, in cui l’editore/imprenditore del giornale così si rivolgeva al caporedattore interpretato da Gian Maria Volontè: “bisogna che ciascuno faccia il suo lavoro e abbia la sua parte di responsabilità…la polizia a reprimere, la magistratura a condannare, la stampa a persuadere la gente a pensarla come vogliamo noi”.
Se quello brevemente descritto è il fatto centrale, ne implica e/o produce diversi altri. Ne menziono tre. Il primo, altrettanto fondamentale, è l’etnocentrismo interiorizzato che traspare da questo approccio all’informazione e al potere. In sostanza, si esclude a priori che alcune decisioni reazionarie e distopiche possano essere prese da governi occidentali; se pertanto qualche fonte non mainstream ipotizza scenari più o meno “complottisti”, il rifiuto della fonte prescinde da un’analisi del contenuto. Si ridicolizza la posizione all’insegna dei “non cielo dicono”, assumendo per implicito che in una rispettabile democrazia occidentale, se proprio succede qualcosa di brutto, lo si venga a sapere, a differenza di ciò che accade in altri contesti geografici e regimi dittatoriali caratterizzati da censura. Questo presupposto si relaziona in due modi con le decisioni politiche. Il primo, più comprensibile, consiste nell’essere consapevoli che certe misure siano gravi, in alcuni casi lesive di libertà e dignità individuali e collettive, persino antidemocratiche, ma si respinge questa evidenza (o eventualmente si attenua il giudizio negativo sulla base di uno stato di emergenza) in quanto ammettere che la governance occidentale possa effettivamente adottare misure “pre-moderne” (o post-moderne nel senso peggiorativo del termine) comporterebbe una revisione molto onerosa delle proprie convinzioni di fondo. Il secondo approccio, decisamente meno tollerabile, è rendersi conto di questi processi, ma giustificarli proprio in nome di una qualche superiorità (morale, etnica, democratica) dell’occidente neoliberale. Questo approccio assume a volte i tratti del filo-atlantismo, ma sempre più soprattutto quelli del filo-europeismo acritico.
Un altro side effect di questa visione disincantata dell’informazione e dell’agenda setting consiste nella rappresentazione della Scienza e nella definizione della stessa come un monolite da evocare in funzione anti-scettica. Non solo chi esprime critiche sull’efficacia della gestione pandemica o sulla sicurezza dei vaccini, ma soprattutto chi chiede un dibattito aperto su alcuni temi di interesse collettivo, adottando un atteggiamento dubitativo (teoricamente alla base di qualsiasi scoperta e avanzamento scientifico), viene quasi immediatamente etichettato come “nemico della scienza”. Anche questo fenomeno è interessante, perchè segna una drastica inversione dei poli rispetto a posizioni consolidate: il fideista storicamente è connotato come individuo di bassa cultura e avvezzo ad accettare posizioni veicolate dal custode di una qualche tradizione e/o verità che va accettata senza sindacare. Questo è esattamente ciò che si chiede di fare oggi con la scienza, rifuggendo il dibattito sui contenuti e non dando spazio a pareri esperti quando contrapposti o semplicemente integrativi rispetto alla “scienza ufficiale”. È proprio l’individuo di buona cultura quello che deve accettare l’atto di fede: quando Andrea Crisanti (di cui tutto si può dire, tranne che non sia stato uno dei più convinti sostenitori di una gestione dura dell’emergenza pandemica) disse che prima di vaccinarsi avrebbe voluto vedere i dati, le prime reazioni di molti suoi colleghi e dell’opinione pubblica furono di sdegno per questo atto di lesa maestà verso la scienza, cui bisogna(va) credere senza se e senza ma. Simili reazioni sono emerse rispetto alla sua recente perplessità nei confronti della vaccinazione eterologa. Ciò, è bene puntualizzarlo anche se pare scontato, non significa porsi contro la ricerca scientifica. Al contrario, questa andrebbe maggiormente finanziata dal pubblico, tolta dalle mani degli interessi privati, rimessa al centro dello sviluppo del paese. Dipingere però l’”impresa scientifica” come avulsa dai rapporti di forza, non influenzata dai portatori d’interesse, aperta a uno spirito democratico senza distinzioni di classe, genere, provenienza e gerarchia accademica, sarebbe così ingenuo da risultare naif.
Ultimo cortocircuito legato a doppio filo all’accettazione unilaterale dell’informazione mainstream riguarda il modo di intendere l’intervento statale nella vita collettiva. Un argomento così importante necessiterebbe di maggior spazio per essere trattato in modo esaustivo. Una sola considerazione generale: il fatto di bandire dal dibattito pubblico alcune critiche alla gestione della pandemia rivela probabilmente una “perversione” di fondo che alberga da tempo in gran parte dell’area progressista. La pandemia da questo punto di vista ha rappresentato una grande opportunità per l’espressione di queste posizioni. A tal riguardo dev’esserci stato un misunderstanding sul ruolo dello Stato, almeno per come alcune/i della stessa area (fra cui chi scrive) lo avevano inteso: quando chiedevamo “più Stato” intendevamo più aiuti economici alle classi svantaggiate, più servizi nei territori, un intervento in economia che garantisse giustizia sociale e ambientale. Non ci riferivamo, come a quanto pare facevano altre/i, anche a un intervento sul bios, sulle pratiche, sulle relazioni. Magari pure noi eravamo, e siamo, convinte/i che il contesto patinato, quello degli aperitivi e degli altri simboli del neoliberismo, non sia il migliore dei mondi possibili; ma non intendevamo certo che andasse cambiato tramite interventi di natura politica. Non lo intendevamo per due ragioni: la prima è che auspichiamo a un cambiamento culturale dal basso e diffuso, la seconda è che (misunderstanding nel misunderstanding) un tale freno ai simboli che avversiamo non corrisponderebbe certo allo sdoganamento del mondo che vorremmo, il quale – con molta probabilità – verrà ancor più represso e fustigato grazie ai postumi della pandemia.
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