Del ddl Zan non intendo occuparmi; e dunque non lo elogerò né lo criticherò. Ha un merito indubbio, però: come di aver stanato il Vaticano, il Papa e la sua curia. E di aver offerto un’occasione privilegiata per discutere di una questione fondante e fondamentale della Repubblica italiana, un nodo irrisolto che nessuno, o quasi, ha mai pensato veramente di sciogliere. Mi riferisco a partiti e movimenti, presenti e passati, spero, tuttavia, non futuri: l’ansia da consenso ha impedito loro (e pure a molti cosiddetti intellettuali) di affrontare senza ambiguità la questione dei rapporti tra Repubblica italiana e Santa Sede, finendo nei fatti con il subire – e il far subire agli italiani – la primazia di quest’ultima in svariati settori della vita civile e politica.
È un campo, quello delle relazioni con il Vaticano e le sue articolazioni nel territorio italiano, dove tutti ci stanno molto attenti a non urtare il potere cattolico: un potere che a tratti, specie in questi ultimi tempi, piace per il suo naturale universalismo (che ben si coniuga con le battaglie per l’inclusione e i diritti), un potere che, per questo, può divenire un potente alleato, ma che poi irrita quando afferma e sostiene altre idee della tradizione e del magistero cattolico, salvo, pare, non avere poi il coraggio di portare avanti il dissenso per ragioni, al solito, di opportunismo. Anche una come Monica Cirinnà, a fronte della nota, ha preferito assumere una posizione di cautela, evitando di affermare quel che probabilmente pensa in merito alla questione prima indicata.
Politicamente capisco poco, o per nulla, questa cautela che giunge, paradossalmente, quasi a non criticare nemmeno Mussolini che volle quel Concordato ora legittimante la curia romana a consegnare allo Stato italiano una nota che vale come avvertimento e, nei fatti, limita il Parlamento, cioè il popolo italiano, nella sua capacità decisionale. Non capisco, dicevo, perché ho l’impressione che i tempi siano profondamente cambiati da quel lontano 1929: e, poi, oggi i cattolici rigorosi non sono più tanti come allora e, comunque, parrebbero più liberi – essi – di esprimere le loro convinzioni a prescindere dai consigli provenienti dalle gerarchie ecclesiastiche a tutti i livelli.
Ma nemmeno il calcolo politico qui interessa; e non dovrebbe interessare neanche ai dirigenti politici, specie di sinistra, in quanto a me pare abbastanza oggettivo che la situazione in cui versa la Repubblica italiana a fronte del Vaticano sia essa connotata da ambiguità che poi determina, a cascata, le ambiguità a cui abbiamo prima accennato.
Ora, la nota vaticana offre un’occasione magnifica per riflettere liberamente su questa situazione e avviare una riflessione al termine della quale la conquista dovrebbe essere la piena indipendenza della Repubblica: perché la nostra democrazia, in conseguenza della presenza vaticana, è un po’, diciamo così, sotto tutela e questo è incongruo, molto, in una res publica che voglia essere res populi (e non potrebbe, in quanto repubblica, essere altrimenti).
C’è confusione e non so se questa confusione sia reale o fittizia, dunque strumentale a celare i soliti, timori, le congenite ansie, gli ancestrali timori riverenziali verso un potere spirituale che è, però, e lo è sempre stato, molto inserito nelle strutture di governo e nel governo di mezzo mondo, dove la missione è stata l’evangelizzazione talora a tutti costi, talora in alleanza stretta con potenze statuali biecamente colonialiste. Certo, se consideriamo le cose per quel che sono, dovremmo dire che in Italia l’unico governante di rilevanza internazionale, anzi globale, resta più che mai il Papa di Roma. E i governanti degli altri Paesi lo sanno bene. E lo sanno anche i nostri che cercano comunque di accreditarsi presso la Santa Sede per ragioni, ancora, di opportunismo.
Machiavelli, un grande italiano che voleva una repubblica autentica e, dunque, indipendente, ci aveva avvertito circa la necessità di emanciparci dal papato: le sue parole sono alquanto caustiche, irriverenti non solo per il Papa ma soprattutto per gli italiani, e varrebbe la pena di rileggerle perché son come una frusta e conservano tutta la loro freschezza.
Sono certo che l’occasione della nota vaticana non verrà nemmeno considerata; e non cambierà nulla, come nulla veramente cambia nel nostro Paese.
Chiudo, a mia volta, con due note di rilevanza costituzionale perché chiose sui testi di due costituzioni italiane.
Prima nota. Parecchi tra i sostenitori del ddl Zan, vista la nota vaticana, si sono appellati all’art 21 della Costituzione: la nota come un attacco alla libera manifestazione del pensiero. Ma l’art. 21 c’entra fino a un certo punto. Il magistero può opinare quel crede e varrà anche per i suoi ministri l’usbergo dell’art. 21. Piuttosto la nota potrebbe configurarsi come indebita ingerenza; e però ha un gancio legale, anzi costituzionale, pesante nell’art. 7 che ha costituzionalizzato il Concordato. Ad avviso di chi scrive questo articolo andrebbe riformato: è esso in contrasto sia con l’essenza della forma res publica sia con il successivo art. 8 sull’eguale libertà di culto. Ecco che l’ambiguità è dentro la nostra Costituzione e genera ambiguità. Ma non se ne farà proprio nulla per i soliti opportunismi. Volendo assumere atteggiamento profetico vi è da aggiungere soltanto che, prima o poi, la forza delle cose si farà presente e alla fine si imporrà. Ma la Costituzione del ’48 è da rivedere in più passaggi per rendere finalmente operativa quella sovranità popolare di cui all’art. 1. Se non si accetta la prospettiva di una riforma costituzionale, e si continua a mantenere un atteggiamento religioso verso il totem Costituzione, si dovrà attendere ancora l’operatività della forza delle cose. Ma rischiamo di pagar care inerzia e ritardo; e consideriamo che, nonostante quel che parecchi divulgano, il diritto non è affatto un optional.
Seconda nota. Che postuli una res publica, in particolare la nostra in confronto del papato, era perfettamente chiaro ai costituenti romani del 1849. All’art. 7 era disposto che «la manifestazione del pensiero è libera». Ma nel decreto istitutivo della Repubblica del 1849 e nei principi fondamentali della Costituzione si dichiarava il Papa destituito di ogni potere temporale pur garantendogli «tutte le guarentigie necessarie per la indipendenza nell’esercizio della sua libertà spirituale». Punto. Repubblica, laicità, libertà religiosa erano così correttamente composte. Una prospettiva molto lontana da quella abbracciata con la Costituzione del 1948, grazie ai voti anche del P.C.I. (ma con talune, importanti, defezioni come quella di Concetto Marchesi). Nel 1849 era lo Stato che si faceva garante dell’indipendenza della Chiesa; con il Concordato del 1929 l’indipendenza dello Stato era, in certa misura, rimessa anche alla Santa Sede. La nota dei giorni scorsi ne offre una significativa conferma.
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