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Traditori! Il decreto della dignità persa
Era luglio 2018 quando Luigi Di Maio, mentendo come in tante altre circostanze ha saputo fare, affermava di aver «licenziato il Jobs Act».
In effetti non aveva licenziato un bel niente: restava e resta in piedi la normativa in materia di controllo a distanza, quella in materia di mansioni e soprattutto la disciplina dei licenziamenti illegittimi. I danni peggiori prodotti dai governi Monti e Renzi restavano al riparo dall’intervento voluto dai grillini, tuttavia era un inizio.
Il decreto dignità (d.l. 87/2018), infatti interveniva sui contratti a termine: ne riduceva la durata massima, ad esempio, ma soprattutto reintroduceva il meccanismo delle causali. Inoltre fece buone cose in materia di somministrazione, ma è un’altra storia.
Le causali hanno due funzioni essenziali: la prima, ovviamente, consiste nel fatto che un datore di lavoro non debba essere assolutamente libero di ricorrere a contratti precari. Per farvi ricorso, infatti, deve esserci una ragione fondata, una giusta causa (appunto), espressamente individuata dalla legge.
La seconda funzione, collegata evidentemente alla prima, ha natura più politica e simbolica: si, insomma, è bene che l’ordinamento sposi una forma “tipica” di lavoro: il contratto di lavoro a tempo indeterminato. Esso è l’unico a rispondere pienamente ai principi costituzionali in materia di lavoro e, pertanto, l’atipicità dei contratti a termine e precari in generale deve essere sottesa da una consistente ragione, specifica, contingente, limitata nel tempo.
Le causali sono state da sempre nel mirino (e questo la dice lunga) di Confindustria, di alcuni sindacati che probabilmente hanno smarrito la via, e delle forze politiche neoliberiste (praticamente tutte) e difatti già il governo Monti aveva dato un bel colpo con la poco rimpianta Elsa Fornero (l. 92/2012). Fu però Renzi, col decreto dedicato al suo indimenticabile Ministro Poletti (d.l. 34/2014), a liberalizzare (appunto, ancora) ogni cosa.
Ecco, il decreto dignità non avrà licenziato il Jobs Act, a differenza di quanto cianciava l’allora Ministro del lavoro, ma va riconosciuto che costituiva un ottimo primo passo e, soprattutto, una importante inversione di tendenza anche sul piano politico e simbolico.
È arrivato Draghi, colui il quale afferma di non voler togliere, quello che vuole dare: peccato che forse abbia intenzione di dare ad altri, non di certo ai lavoratori. Oppure è più probabile che l’intento sia quello di dare altro ai più fragili: non di certo diritti e risorse.
Dopo aver affossato il cashback, è stato approvato un emendamento al decreto legge Sostegni bis (d.l. 73/2021) che incide sul paradigma in materia di contratti a tempo determinato, introducendo la norma per cui la rigidità delle causali vada superata, in favore di decisioni assumibili in sede di contrattazione collettiva. In poche parole, con un accordo sindacale (che possa essere nazionale, certo, ma anche territoriale o semplicemente aziendale) si può andare in deroga al meccanismo della causale.
Le considerazioni a questo punto potrebbero davvero essere molte, nella mestizia più profonda proviamo ad avanzarne qualcuna in ordine sparso.
Prima di tutto si ripropone la solita squallida ricetta: si prova a far credere alle persone che con la riduzione dei diritti si possano attrarre capitali e creare occupazione. In tantissime circostanze abbiamo riflettuto di ciò e non vale la pena dilungarsi. Basti qui semplicemente sottolineare come si tratti di una grande truffa e di come trent’anni di precarizzazione (a partire dal pacchetto pensato da chi oggi guida il CNEL) non abbiano portato nulla di buono ai lavoratori e al Paese. Era un sistema per arricchire i grandi gruppi dominanti e per spuntare gli artigli ai lavoratori: ha funzionato benissimo e continua a farlo.
Il meccanismo pensato nell’emendamento peraltro richiama in linea di principio quello del meno noto decreto Sacconi (il famoso decreto legge 138 del 2011, varato da un disperato Berlusconi che si prostrava dinanzi alle pretese della BCE, la quale le avanzava guarda caso proprio con la firma del nostro eroe nazionale Mario Draghi): con quel decreto si consentiva alla contrattazione di prossimità (tendenzialmente più debole di quella nazionale) di andare in deroga (anche in peggio!) a disposizioni dei contratti collettivi nazionali e persino a previsioni di legge.
Le dichiarazioni della politica poi risultano vomitevoli a chiunque abbia un minimo di cognizione di causa in questa materia: esulta ovviamente la Bernini di Forza Italia e le fa eco quell’altra statista della Serracchiani, che peraltro fa parte del partito che ha firmato l’emendamento, il PD. Entusiasmo ancora dalla Lega, con le auguste ed euforiche dichiarazioni dal Sottosegretario Tiziana Nisini.
C’è poco da dire, ha vinto Confindustra (che già portava a casa lo sblocco dei licenziamenti), che in questa battaglia poteva contare sull’appoggio di CISL e UIL, oltre che di un silenzio tombale da parte di Maurizio Landini della CGIL. Vi racconto questo aneddoto divertente: ho cercato una sua dichiarazione sul punto e ho trovato un pezzo de Il Fatto che mi ha fatto strabuzzare gli occhi. Pensate che Landini parlava della necessità di reintrodurre persino l’art.18: «è tornato!» – ho esultato per un attimo – e invece no. Era un pezzo del 2018.
Due note conclusive.
La prima riguarda chi avrebbe dovuto o voluto opporsi. Pare che Stefano Fassina abbia votato per sbaglio l’emendamento e che vorrebbe provare a correggere la cosa alla prima occasione disponibile. Io ho trovato questa circostanza ancora più disarmante dell’entusiasmo di PD, FI e Lega: mi domando come sia possibile appoggiare una misura che lede di fatto la sfera di diritti di milioni di persone, senza rendersene conto, per sbaglio, per una svista. Mi domando insomma con quale coscienza si possa fare politica in questo modo, come si possa reggere lo sguardo dei pochissimi elettori rimasti, dei simpatizzanti, dei sostenitori e dei cittadini in generale. Insomma, se non dopo errori di questo tipo, quando sarebbe opportuno dimettersi e sparire?
E poi, più che col dolce concludiamo con l’amaro: il silenzio del Movimento 5 Stelle. E questo non lo commento: la nausea mi soffoca ogni parola.
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