Il gusto della vittoria non ossessionante, la gioia degli italiani (brava gente… e non), la spocchia inglese (brava gente… e non). Il modo rinascimentale con il quale ci siamo raccontati questo europeo trionfante per i nostri colori, parlando di rivoluzione, di gioco, di qualità, di gruppo, di collettivo, sembrano concetti usciti dal bollettino sovietico delle olimpiadi di Mosca; e invece no.
L’Italia per 4 anni sarà campione d’Europa di calcio, dopo Facchetti nel 1968 ha alzato la coppa Henry Delauney anche Giorgione Chiellini, una coppa a forma di anfora greca, di quelle dentro le quali sidro, vino e affini galleggiavano e venivano versati, presso l’Olimpo, zone limitrofe o tra i comuni mortali.
E di bevande ne sono state consumate tante la notte di questo 11 luglio, 39 anni dopo Rossi Tardelli Altobelli, con i maxischermi e la variante a registrare sviluppi presenti e futuri della nostra specie così unita quando ci sta un pallone di mezzo (e si vince), così faticosamente incongruente quando…. Vabbè, per tutto il resto in pratica.
L’Italia di un Roberto Mancini chiamato visionario perché ha provato a giocare a calcio giocando a calcio, eretico perché costruiva dal basso (e adesso… come la mettiamo risultatisti?), ma che semplicemente si è ripreso tutto quello che la nazionale, da giocatore, non è riuscito a dargli. Un gruppo di lavoro sampdoriano con i Vialli, i Lombardo, i Salsano, gli Evani e lo spirito di Boskov che sussurrava “rigore c’è quando arbitro fischia”, e di rigori ne abbiamo battuti in effetti un bel po’.
Dopo un girone oggettivamente non impossibile ma giocato con il piede sull’acceleratore premuto, in cui Turchia, Svizzera e Galles (in maniera diversa) sono state accompagnate all’uscita senza garantire loro goal né fortuna, l’Italia dello jesino Mancini (ormai uomo ovunque delle nostre pubblicità quotidiane) ha cominciato a faticare contro una solida Austria, ha meritatamente battuto un Belgio con i giusti rischi, e poi ha sofferto le pene dell’inferno contro una Spagna rinnovata nei giocatori, ma non nella voglia di dominare le partite. Poi Wembley, che sembrava dover essere il luogo dove gli inglesi, con la Francia favoritissima fuori, la Germania a fine ciclo, il Belgio battuto e azzoppato e la Spagna uscita nel suo momento migliore, dovessero celebrare la Regina, i Principi e tutto il parterre reale con un ritorno alla vittoria che manca dal mondiale del 1966 (in quel caso però la regina d’Inghilterra era Pelè). E invece gli inglesi sanno navigare, colonizzare (brutalmente), parlano la lingua mondiale, sono leader di un Regno davvero poco unito, si garantiscono la palma della peggiore gastronomia mondiale, ma quando si tratta di vincere una partita di calcio decisiva…
E così l’anfora l’ha sollevata Chiellini, il miglior marcatore del campionato europeo, italiano e oltre, un sorriso fisso di quelli che sa che il gioco sta finendo ma che se lo vuole godere fino in fondo; intorno a lui Gigio Donnarumma, una macchina ribatti palloni senza data di scadenza; Jorginho, brasiliano perfetto nell’intonare ( A TEMPO!) l’inno di Mameli e nel gestire pressing, impostazione e tempi di gioco; Chiesa, che come Bruno Conti nel 1982 ha fatto solchi sulla fascia dribblando, pressando e risultando l’uomo in più; e poi tantissimi altri come Bonucci (dalla faccia simpatica come un pitbull ma con piedi delicati e vizio del gol), Verratti (non il migliore visto, ma sempre una delizia per gli occhi), e poi ancora Lorenzino Insigne che ha segnato bene, sbagliato pure tanto, ma che ha regalato a a tutti i piccoletti il sogno di crederci nonostante i “troppo piccolo” tanto cari ai nostri allenatori; Immobile e Belotti, non due bomber indimenticabili, ma figure dall’impegno e applicazione straordinaria, e poi Berardi, Di Lorenzo, Barella, Emerson, Locatelli, Florenzi, Cristante e tutti quelli che hanno giocato meno, ma che hanno dato la sensazione di esserci sempre, e con la testa giusta. E poi Spina. Il migliore giocatore del torneo fino all’ennesimo, gravissimo infortunio; una macchina di km e qualità sulla fascia sinistra che – Cabrini e Maldini ce lo insegnano – mancava tanto all’Italia calcistica. Tornerà, e sarà da rincorrere.
L’Italia di un calcio palleggiato, organizzato ma estroso, aggressivo e offensivo ha vinto; alcune delle nazionali favorite non la vedevano come una potenziale vincitrice, forse per la mancanza di fuoriclasse assoluti (anche se Donnarumma, onestamente, vorrei sapere come chiamarlo), forse per pretattica. Oggi siamo una squadra difficilissima da battere perché forte in difesa ma propositiva, con idee chiare e la volontà di non subire l’avversario.
La rivoluzione di Mancini, jesino come la Vezzali presente alla stadio come delegato allo sport per il governo, ha qualcosa della stoccata dello schermidore. Paziente, certosina, dettagliata…. E pericolosa.
Pericolosa come tutte le cose belle che hanno un effetto a cascata nella società; il calcio italiano è sul tetto d’Europa e contemporaneamente galleggia sulle macerie di una sempre maggiore quantità di squadre di serie minori che spariscono, devastate dai debiti. Il rischio, grosso, di sorvolare in maniera superficiale su questi dati esiste, perché se gli italiani sono bravi a trovare il modo per galleggiare con il naso fuori dall’acqua, di certo non eccelliamo in programmazione nel mondo dello sport. Le infrastrutture, soprattutto al sud, non si costruiranno con la vittoria degli europei, molti allenatori dei settori giovanili imiteranno Mancini e il 4-3-3 invece di aggiornarsi, formare i giovani allo sport ed insegnare il calcio seguendo linee didattiche serie. Pericolosa e meravigliosa questa vittoria, come tutte le occasioni che la vita – in questo caso sportiva – ci pone di fronte. Questa generazione di calciatori è stata forgiata da una struttura seria e rinnovata come il settore tecnico di Coverciano; la prossima, chissà. Se questa gioia azzurra riuscirà anche a dare una spinta ai tremendi baratri esistenti nel nostro calcio, allora sarà un trionfo, non solo una bevuta dall’anfora del vecchio continente.
Salutiamo questo europeo ringraziando Simon Kjaer per aver salvato una vita senza post su instagram, ma con la semplice serietà dello straordinario uomo che è, accogliendo l’inizio dell’evento sportivo per eccellenza, le Olimpiadi di Tokyo, lontane e mattutine per noi italiani, ma sempre l’emozione sportiva più grande per cui rimanere svegli.
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