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Paolo Borsellino, un eroe normale
Paolo Borsellino faceva parte, insieme a Giovanni Falcone ed altri valorosi magistrati, del pool di giudici istruttori del Tribunale di Palermo incaricato di contrastare Cosa nostra, la più pericolosa e feroce organizzazione criminale allora operante in Italia.
Il pool era stato creato da Rocco Chinnici, poi trucidato dalla mafia con un’autobomba. Nino Caponnetto, che prese il suo posto, sviluppò e perfezionò l’iniziativa del pool, il cui merito storico fu il “maxi processo”: un autentico capolavoro investigativo-giudiziario, che nel rispetto assoluto delle regole demolì il falso mito dell’invulnerabilità di Cosa nostra.
Poco dopo la conclusione del primo grado di giudizio del “maxi” (con pesanti condanne mai prima registrate), Borsellino fece domanda per essere nominato procuratore capo di Marsala, avamposto antimafia. Analoga domanda presentò un magistrato (Alcamo) molto più anziano di Borsellino, ma assai meno esperto di mafia. Il Csm del quadriennio 1886-90, di cui anch’io facevo parte, si spaccò fra chi era a favore dell’anzianità e chi invece della professionalità (per altro indicata da una direttiva del 15 maggio 1986 come criterio da valutare per la nomina dei dirigenti di uffici di “frontiera” antimafia). Prevalse, giustamente, questo secondo criterio e la maggioranza nominò Borsellino.
Sembrava tutto finito. Invece scese in campo Leonardo Sciascia con un editoriale che il “Corriere della sera” intitolò “Professionisti dell’antimafia”. Esso conteneva l’accusa, prendendo spunto proprio dal caso Borsellino-Marsala, che vi fosse il malvezzo di strumentalizzare l’impegno contro la criminalità mafiosa per acquisire personali vantaggi di carriera, scavalcando colleghi altrettanto se non più meritevoli. Sciascia era stato male informato sulla nomina di Borsellino e certamente non immaginava che il suo editoriale sarebbe stato usato come una specie di cavallo di Troja per sabotare Giovanni Falcone.
Ciò che per contro accadde quando – dovendosi nominare dopo Caponnetto il nuovo capo dell’ufficio istruzione – la maggioranza del CSM operò un’incredibile, inaspettata e vergognosa inversione di marcia, buttando alle ortiche il criterio della professionalità e riesumando quello dell’anzianità: riuscendo a nominare non il qualificatissimo Giovanni Falcone, ma l’anzianissimo Antonino Meli, ancorché tutt’affatto digiuno di mafia. La gerontocrazia contro la spietatezza di Cosa nostra… E ciò sbandierando come argomento insormontabile l’editoriale di Sciascia contro i professionisti dell’antimafia.
Il risultato – al di là delle intenzioni di qualcuno, ma ben presente nel disegno di altri – fu di fatto la cancellazione del metodo di lavoro del pool (vincente!) e l’arretramento della lotta antimafia a livelli di sostanziale, suicida inefficienza. Fu proprio Borsellino a lanciare pubblicamente l’allarme nel luglio 1988. Lo fece con generosità, andando allo scontro, rischiando come sempre di persona. In un convegno ad Agrigento e in due interviste (a Bolzoni di Repubblica e a Lodato dell’Unità), denunziò come Meli -insediatosi al posto di Caponnetto- stesse scientemente ed irreversibilmente smantellando il pool e i suoi metodi di indagine, tornando là dove si era partiti mezzo secolo prima, quando i mafiosi la facevano sempre franca e la magistratura appariva impotente.
La maggioranza del CSM, invece di intervenire con atteggiamento responsabile nel merito del problema, non trovò di meglio che inventarsi un procedimento para-disciplinare. Contro chi? Incredibile ma vero, contro Borsellino, reo di aver praticato per le sue denunzie vie non istituzionali! Una sublime ipocrisia! Un colpo di coda di quelle anime belle che Borsellino definirà “giuda” commemorando Falcone subito dopo la strage di Capaci.
La strage di Capaci segue di poco la conferma, nel gennaio 1992, delle condanne del maxi da parte della Cassazione: forse anche per la sostituzione del giudice che una certa pubblicistica usava definire “ammazza-sentenze”, per la prima volta nella storia d’Italia, mafiosi d’ogni ordine e grado vengono condannati in via definitiva ed irrevocabile a pesanti pene, oltretutto con la prospettiva di una carcerazione -cui Falcone stava lavorando con la collaborazione di Borsellino- finalmente seria e rigorosa, non come quando l’Ucciardone era di fatto un grand hotel.
Alla strage di Capaci seguì, dopo neanche due mesi, quella di via d’Amelio. E dopo Falcone, Cosa Nostra uccise anche Borsellino. In un caso come nell’altro una vendetta postuma contro i principali artefici del maxi e nello steso tempo il tentativo disperato di cancellare definitivamente con la violenza stragista il loro metodo di lavoro, che aveva costituito un vero siluro sotto la linea di galleggiamento della corazzata mafiosa.
Se oltre a questi indubitabili fattori ve ne siano stati altri a determinare le stragi (quelle del 1992 come quelle del 1993 a Firenze, Roma e Milano), è il problema difficile ed inquietante affrontato con lealtà e coraggio da vari processi sulla “trattativa” stato-mafia, alcuni dei quali ancora in corso.
Gian Carlo Caselli
PS: posso rivendicare – con orgoglio – di aver sempre votato, come componente del CSM, in favore prima di Borsellino per Marsala e poi di Falcone per Palermo.
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