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Lavoro o fascismo?


2 Ago , 2021|
| 2021 | Visioni

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.

Sblocco dei licenziamenti, precarizzazione del lavoro in nome della flessibilità ‘attira imprese’, dumping salariale imposto da una concorrenza al ribasso internazionale ed interna all’UE, tasso di disoccupazione giovanile altissimo (al 33,7 %) ed aumento generale del tasso di disoccupazione (al 10,7 %) sono solo alcuni dei dati che rendono manifesta, non solo l’inefficacia delle disposizioni costituzionali su riportate, ma anche il fallimento di quel progetto politico emancipativo custodito nella Carta Repubblicana.

Se si intende, come è giusto intendere, la nostra Costituzione come quella decisione politica fondamentale di cui, nel lontano 1948, si resero espressione le diverse forze politiche egemoni che conferirono allo Stato democratico-costituzionale la sua particolare identità, è d’altra parte doveroso constatare che tutte le attuali forze politiche operanti nel nostro Paese, salvo alcune limitate e limitanti eccezioni – la cui limitatezza deriva dall’impossibilità di suscitare qualsiasi appeal nel ‘popolo dei votanti’ – stiano concretamente contribuendo alla disattivazione della Carta costituzionale ed in particolare alla privazione di efficacia di quelle norme che hanno reso evidente come il modello di Stato che i Costituenti hanno immaginato fosse incardinato sul ‘Lavoro’. Lavoro che infatti non veniva concepito solo come un diritto, ma anche come un dovere, perché pensato in funzione del progresso materiale e spirituale della società tutta – volendo citare il secondo comma dell’art. 4 – oltre che per il pieno sviluppo della persona umana.

Non a caso, come ricorda uno dei più autorevoli Costituenti e costituzionalisti del XX secolo, Costantino Mortati[1], l’essere un soggetto lavoratore doveva essere, nelle intenzioni di alcuni Costituenti, precondizione per il godimento dei diritti politici, così che l’inoccupazione volontaria, l’inoccupazione cioè di chi volontariamente e non involontariamente per ragioni di menomazione fisica, psichica o infortunio ad esempio, non avesse prestato attività lavorativa, avrebbe determinato l’impossibilità di godere di alcuni diritti garantiti costituzionalmente. In questo modo, si sarebbe potuta far rientrare l’inoperosità volontaria fra le condizioni di indegnità morale, che l’art. 48 della Costituzione prevede come casi di legittima limitazione del diritto al voto.

Il rigetto di tale proposta derivò, poi, dalla difficoltà di delineare giuridicamente la categoria degli ‘oziosi’, più che dall’impossibilità giuridico-formale di sanzionare l’inadempimento del dovere di lavoro attraverso la privazione del godimento del diritto di voto, posto che l’art. 48 espressamente prevedeva la possibilità di una sua limitazione.

Sempre da questo punto di vista, dal punto di vista, cioè, della stretta connessione fra l’intera normazione costituzionale ed il concetto di ‘lavoro’, non c’è da stupirsi come l’art. 3.2 della Costituzione, nell’obbligare la Repubblica alla rimozione di tutti quegli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscano il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, si riferisca proprio al ‘lavoratore’ come al soggetto partecipante all’organizzazione politica, economica e sociale dello Stato, quanto non alla ‘persona’ o all’’individuo’ genericamente intesi.

L’ideale dal quale muovevano i Costituenti era appunto che il lavoro fosse lo strumento attraverso il quale potesse essere garantito il pieno sviluppo del singolo, senza che ciò pregiudicasse il progresso materiale e spirituale della società.

Insomma, il lavoro doveva essere il principale strumento per la garanzia di quel fine politico che la Costituzione voleva affermare e rendere effettivo: l’emancipazione sociale diffusa. Questo nella consapevolezza che il fine politico anti-fascista potesse essere letto solo in connessione con la promessa emancipatoria; con quella promessa che, negando definitivamente la riproduzione di tutte quelle condizioni economico-materiali che avevano permesso la produzione del momento Polanyi[2] – prima fra tutte proprio la disoccupazione galoppante – rendeva il lavoro, congiuntamente ad una retribuzione idonea garantitasi attraverso l’attività lavorativa, lo strumento per la produzione di quella sicurezza sociale ed economica che avrebbe funto da argine rispetto alla riemersione dei regimi totalitari.

Così mi sembra giustificabile l’alternativa, da cui il titolo del presente articolo: lavoro o fascismo?

La Seconda guerra mondiale e l’ascesa del regime nazista e fascista avevano messo bene in luce quanto non fosse bastevole la predisposizione di norme generiche a tutela del lavoro, ma quanto invece tali norme dovessero essere accompagnate da congegni idonei a renderle operanti. Ci si rese conto della necessità di un intervento più pervasivo nella vita economica da parte dello Stato, tale da assicurare il benessere e l’elevamento sociale del maggior numero di persone possibile. Benessere e elevamento sociale che infatti si produssero almeno in quel ‘trentennio glorioso’ durante il quale un compromesso effettivo fra interessi del capitale ed interessi del lavoro fu raggiunto, a garanzia di quel disegno costituzionale che assicurava centralità al lavoro ed ai lavoratori. La Costituzione in sostanza si rese espressione di quel disagio sociale dilagante ed inascoltato, che aveva precedentemente funto da catalizzatore per il processo di ascesa dei regimi totalitari, ed aveva risposto alle istanze sociali, fino ad allora disattese, attraverso lo scardinamento giuridico-formale di quell’assetto di potere precedentemente esistente, oramai avvertito dai ‘più’ come ingiustificabile.

È proprio in tale ottica, a mio avviso, che i Costituenti hanno ritenuto il fine politico anti-fascista, il fine politico dell’emancipazione sociale ed il lavoro alla stregua di elementi non slegati fra loro, perché compartecipi di quel disegno unico e perfettamente sistemico che la Costituzione rappresentava e rappresenta – checché ne dica, oggi, quella classe politica che, assolutamente a torto, la scredita, additandola come ‘vecchia’, o, il che è ancora peggio, quella classe politica che, avvertendone la portata rivoluzionaria rispetto agli attuali assetti di potere economico e politico di cui è essa stessa rappresentante, falsamente proclama l’utopia del progetto politico costituzionale, quando poi, se l’attuazione del progetto costituzionale è diventata un’utopia, lo si deve proprio a lei.

Ebbene, proprio sotto questo ultimo punto di vista, qualcuno ogni tanto ricorda che la nostra Costituzione è una costituzione antifascista, incentrata, cioè, sull’espulsione e sulla neutralizzazione attiva di un nemico ben preciso: il fascismo ovviamente. Lo ricorda magari il 25 aprile, o quando c’è da schiamazzare per qualche proposta di legge xenofoba proveniente dai bassifondi di quella destra falsamente sovranista, perché tutta interna in realtà alle logiche globaliste neoliberali, o, ancora, quando c’è da confrontarsi con la questione dei diritti civili, i cui oppositori vengono additati spesso come ‘fascisti conservatori’ – il che, sia ben chiaro, va ampiamente condiviso e rispettato, a dispetto di coloro che, anche ‘a sinistra’, stillano la classifica dei diritti, subordinando i civili ai sociali -. Ma mai che si affrontasse la questione del lavoro e delle politiche sociali con serietà, magari rappresentandosi un’immagine meno illusoria della realtà sociale che a me pare confliggere, oggi, non solo su questioni massimamente irrilevanti come i nomi da attribuire alle ‘bambole gender neutral’, ma soprattutto su questioni sociali di fondo, che hanno ad oggetto la condizione di sfruttamento, di precarietà e di instabilità esistenziale e psichica a cui sono soggette migliaia di persone. Proprio, appunto, come se la questione del diritto al lavoro, del diritto ad un lavoro ben retribuito, del diritto ad un lavoro che si svolga in sicurezza, non possano divenire questioni di dibattito pubblico e politico serio, ma che siano relegabili in secondo piano come questioni di poco conto. Quando poi a me sembra che l’efficacia della nostra democrazia costituzionale si giochi proprio sul campo del rispetto di quella promessa emancipatoria che fa del lavoro lo strumento fondamentale di valorizzazione sociale della persona.

Ogni discussione sulla Costituzione infatti si rivela sterile e fuorviante se non riesce a problematizzare la questione dello svuotamento del suo nucleo attivo. Ed è proprio in questo senso che il recupero di effettività del dettato costituzionale complessivo non può non passare attraverso la riscoperta della centralità attribuita in origine al lavoro, nel segno di una necessaria ricomposizione della scissione, oggi quantomai avvertita, fra la questione relativa all’implementazione dei diritti civili e quella relativa all’implementazione dei diritti sociali.

Questo perché, se non si pensa alla Costituzione come un ‘tutto unitario’ ma come un insieme di compartimenti stagni scissi fra loro, il rischio è appunto quello di non comprenderne più il senso di fondo, il fine politico che la anima, trascurando la co-implicazione fra i diversi elementi che la compongono. Così, pensare che alcune battaglie possano essere combattute e che per altre, invece, l’incondizionata cessazione di qualsiasi resistenza sia l’unica soluzione, vuol dire semplicemente non prendere sul serio la Costituzione ed il suo portato.

Perciò c’è da arrabbiarsi non solo quando forze, peraltro apertamente tradizionaliste, ostano alla promulgazione di una legge che fa un primo passo verso il riconoscimento delle ‘diversità’ – il riferimento è chiaramente al ddl Zan -, ma anche quando le politiche di piena occupazione vengono sostituite dal fantomatico ‘tasso di disoccupazione naturale’, quando l’art. 18, già martoriato dalla riforma Fornero, viene formalmente abrogato dal Jobs Act, quando, alla salvaguardia di migliaia di posti di lavoro, si preferisce il profitto di pochi. E soprattutto quando ciò avviene con la complicità di tutte le forze politiche maggiormente rappresentative.

C’è da arrabbiarsi, perché in tutto questo risiede, innanzitutto, il tradimento di una promessa.

Mortati nel lontano 1954 scriveva che la crisi dello Stato contemporaneo discendesse dalla consapevolezza diffusa nei ceti più estesi della popolazione di una fondamentale posizione di subordinazione rispetto ad altri ceti; subordinazione che, avvertita ad un certo punto come intollerabile, doveva essere superata attraverso la costituzionalizzazione del diritto ad un lavoro ben retribuito.

Ebbene, a me pare proprio che oggi, in assenza di una effettualizzazione di tali disposizioni, quella frattura sociale, di cui Mortati ci parlava, si stia ripresentando. E mi sembra, peraltro, che proprio su tale frattura della compagine sociale si giochi la tenuta della nostra democrazia costituzionale. Se nessuna forza politica dell’arco costituzionale sarà in grado di rappresentare le istanze sociali, a cui in origine aveva dato una risposta la positivizzazione e la garanzia dei diritti sociali, primo fra tutti il diritto al lavoro, quale sarà il destino del nostro assetto costituzionale?

È chiaro che, se all’imminente e prevedibile imposizione di una nuova Troika da parte delle istituzioni europee, alla quale conseguirà una nuova ondata di austerity, non si contrapporrà la determinatezza di forze politiche che sapranno scongiurare il pericolo di una chiusura del rubinetto finanziario della BCE, evitare la riproduzione di quelle condizioni che hanno scompaginato l’ordine sociale già più di una volta diverrà davvero difficile. Ma, d’altra parte, considerando l’andazzo, per nulla tranquillizzante, dell’attuale assetto politico-istituzionale, che ha rivelato e rivela tutt’oggi una subalternità disarmante, non solo delle forze politiche della sedicente sinistra ai ‘meccanismi di auto-regolazione del mercato’, ma anche dei Sindacati alle richieste delle loro controparti, non si può essere fiduciosi circa gli esiti della crisi economica cui la Pandemia inevitabilmente ci sta costringendo e ci costringerà nel medio e lungo termine.

Per ora, a farne le spese, come da circa trent’anni a questa parte, sono i lavoratori, come testimoniano i recenti licenziamenti delle 57 operaie e dei 270 operai della Whirlpool e dei 422 lavoratori e lavoratrici della GKN, resi possibili dal recentissimo decreto legge su lavoro e fisco, attraverso il quale, come ben noto, è stato disposto lo sblocco dei licenziamenti. Da questo punto di vista, un certo conforto deriva dalla mobilitazione sociale che il sentimento di ingiustizia provocato da questi licenziamenti ha destato in un vasto gruppo di lavoratori (si veda la manifestazione a sostegno dei lavoratori GKN del 24 luglio scorso alla quale hanno partecipato migliaia di lavoratori e lavoratrici).

Siamo sicuri, però, che la rabbia sociale derivante dal progressivo sgretolamento di qualsiasi tutela a favore di lavoratrici e lavoratori rimarrà tollerabile ancora per molto? O, in assenza di una sicurezza in questo senso, sarebbe auspicabile che questa rabbia fosse organizzata politicamente, in modo tale da canalizzarla all’interno dell’attuale assetto istituzionale democratico, evitando che essa irrompa con forza deistituzionalizzante?

Fino ad ora il popolo ha risposto al disagio politico-sociale nelle urne, investendo del mandato legislativo forze che si sono presentate come anti-sistema e dirompenti rispetto a quell’assetto partitico stagnante che le aveva precedute, salvo poi rivelarsi perfettamente interne alle logiche del ‘sistema’. Il M5S aveva dato infatti una speranza a quei milioni di elettori di sinistra traditi dalle politiche neoliberali sostenute ed incentivate dalle loro forze di riferimento. Ma pian piano, anche le promesse semi-rivoluzionarie di cui tale forza si è resa espressione, sono state tradite.

Sarà, a breve, dopo l’immancabile ondata di populismo tecnocratico che ci ha investiti, la volta della destra conservatrice, visti i sondaggi che danno la formazione della Meloni e quella di Salvini rispettivamente come prima e seconda forza politica italiana. Una volta cavalcato il malcontento diffuso, con politiche declinate, come prevedibile, in chiave securitaria, xenofoba e razziale, senza dare, come altrettanto prevedibile, una risposta seria alle questioni sociali, la rabbia sociale però monterà nuovamente.

Ebbene, in quel momento, le risposte istituzionali da poter dare saranno poche, con la conseguenza che quel misto di disillusione, impotenza e rabbia non più mediabile, che già oggi peraltro si respira, potrebbe essere destinato a tradursi in forme di ordine autoritarie che sederanno il dissenso, sfruttando proprio la rabbia per istituzionalizzarsi o, forse ancora peggio, in forme di disordine non controllabili. Sarà, insomma, in ogni caso la volta della definitiva disattivazione della Costituzione, o attraverso l’affioramento di poteri neo-autoritari, che già esistono ma che per ora si muovono ancora nel retroscena politico, operando da poteri indiretti, o dello sgretolamento dell’unità politica costituzionale.

Del resto è proprio la storia ad insegnarci che tertium non datur.


[1] Cfr. C. Mortati, Il lavoro nella costituzione,in Dir. lav., 1954, I, 149 sgg., ora in Raccolta di scritti, Milano, Giuffrè 1972, III, ma anche in L. Gaeta (cur.), Costantino Mortati e “Il lavoro nella Costituzione”: una rilettura, Atti della giornata di studio, Siena, 31 Gennaio 2003, Giuffrè, Milano 2005, pp. 18-22.

[2] Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, R. Vigevano (trad. it.), Einaudi, Torino, 2010.

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