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La Costituzione nella fine dei tempi. Quale bilanciamento fra diritti e strategia sanitaria?
L’introduzione del Green Pass per l’accesso a certi spazi pubblici, servizi e lavoro sta sollevando un grande dibattito che arriva ai fondamentali del nostro stesso ordinamento costituzionale, sia in senso strettamente giuridico, sia più in generale come principi che reggono il nostro ordine politico. Ultimamente il dibattito nel mondo intellettuale si è concentrato su una lettera di due filosofi italiani Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, i quali sostengono che il Green Pass sia fondamentalmente una misura che discrimina una categoria – i non vaccinati – e quindi che si colloca al di fuori della garanzia dei diritti fondamentali. La lettera di per sé non meriterebbe tutta questa attenzione – se non fosse che riguarda questioni importanti – soprattutto per lo stile di pensiero (ed espressione) che in effetti è molto in continuità con il profilo dei nostri filosofi – almeno quando si occupano di cose politiche. Troviamo infatti il solito pathos messianico, che ad ogni curva scorge una fine del mondo; poi lo stile oracolare: il filosofo coglie dei segni, li sa interpretare e li rimanda alla gente incolta, sempre senza argomentare; con i soliti corollari di questo pensiero: la apoditticità delle affermazioni e l’elitismo intellettuale, i quali del resto sono solo normali conseguenze del logos proposto dai filosofi. Tutto condito dal piacere della provocazione: rifugio di chi non ha forse tempo per argomentare (perché ha scadenze più importanti), che arriva (altrove, nel caso di Agamben) fino al paragone con il nazismo e le leggi razziali: capolavoro di chi aveva tuonato contro l’uso di analogie con il negazionismo storico in riferimento a chi critica la narrazione dominante sul Covid.
Si perdoni questa digressione sui due filosofi, che rimangono, con i loro difetti, tra i più interessanti del nostro tempo, ma che dimostrano anche gli scarsi strumenti che la filosofia sta mostrando per leggere la realtà. Ma il nostro giudizio non vuole essere la partenza per argomentare a favore dell’introduzione del Green Pass, che ha mille problemi. In primo luogo il fatto che arrivi all’improvviso, con chiaro intento propagandistico, ma agendo sulle scelte di tante persone fatte precedentemente (mostrando così l’arroganza di un potere arbitrario), in secondo luogo perché introduce surrettiziamente quasi un obbligo senza assumersi le responsabilità di quello che l’obbligo di un trattamento sanitario porterebbe con sé e infine perché lo fa senza essere chiaro su due punti: 1) la sicurezza di vaccini che sono in fase di sperimentazione 2) che cosa si vuole ottenere con questi vaccini, quale è cioè la strategia per la quale impone l’obbligo.
A rendere bizzarro il tutto è il fatto che non è per nulla necessario imporre questo obbligo, dato che la popolazione che non intende vaccinarsi va, secondo dei sondaggi, dal 5 a 15 %, numeri che francamente non sembrano giustificare l’introduzione di questi obblighi.
Ma qui il punto vero è capire cosa si vuole raggiungere con questa vaccinazione di massa, quale sono i presupposti scientifici e quale la strategia. Come ha fatto notare il Prof. Umberto Vincenti (giurista e storico del diritto romano dell’Università di Padova), introdurre un trattamento sanitario obbligatorio in caso di necessità per la salvaguardia del principio della salute è costituzionalmente sostenibile, e anzi di difficile messa in discussione. Questo significa però che ci deve essere una chiara strategia di sanità pubblica che ci mostri la necessità di quel trattamento (con la possibilità di sbagliare, ovviamente, ma assumendosi la responsabilità rispetto a questa eventualità). Ciò sembra non essere una preoccupazione per i nostri governanti, forse perché la scienza non riesce a dare risposte chiare su questo. Sembra fuori di discussione l’efficacia dei vaccini nella prevenzione della malattia in forma grave, e quindi della riduzione della mortalità, discutibile è invece l’ipotesi che si possa arrivare all’immunità di gregge, dato soprattutto il fatto che in molti paesi non si sta vaccinando.
Ma questo significa però che il problema non è di diritti costituzionali, ma di evidenze scientifiche e di strategie sanitarie. In questo senso l’invocazione da parte dei critici del Green Pass della libertà della persona sembra più che sproporzionata, fuori mira, e anche poco sincera. Si dovrebbe piuttosto chiarire fin da subito – come fa il Prof. Vincenti nell’articolo citato –, prima di ogni discussione, quali sono le proprie convinzioni rispetto alla natura della pandemia e alle possibili strategie di risoluzione. È chiaro, ad esempio, che se si crede che anche senza vaccini si sarebbe potuti arrivare ad una convivenza con il virus, solo con cure e potenziamento della sanità e altri servizi, allora l’obbligo vaccinale è conseguentemente considerato come una imposizione innecessaria. Ancor di più se si hanno dubbi sull’efficacia del vaccino, e se si crede che i suoi effetti negativi vadano oltre quello che è stato accertato. Opinioni, interpretazioni legittime se fondate su basi scientifiche (e su questo non entriamo ora). Ma questo significa minare alla base la lettura della situazione che propone chi queste misure sta imponendo. E lo si faccia allora, fino in fondo, con numeri, dati interpretati con metodologia scientifica, con argomenti. È molto probabile che esista una verità diversa, ma va dimostrata, non può essere intuita o colta nei segni.
Ciò significa quindi che non possiamo dare del nemico della libertà a chi pensa che un numero di vaccinati molto alto sia l’unico strumento che può portare alla fine della pandemia, con una notevole riduzione dei morti, e un miglioramento delle condizioni di tutti, al netto di effetti indesiderati (con benefici di gran lunga superiori ai costi).
Personalmente sono moderatamente scettico e fiducioso, non nella bontà dei nostri governi o delle case farmaceutiche, ma sul fatto che nessuno abbia come interesse prioritario quello di ammazzare il più alto numero possibile di persone, né di rinchiuderle in casa. Questo per due ragioni, in primo luogo perché tanto il governo quanto i grandi capitali che ne sono i più accorto consiglieri non vogliono creare il caos sociale: sarebbe insostenibile e controproducente un disastro sanitario di grandi proporzioni, è più redditizio lucrare sulle necessità che la pandemia impone che farlo sull’innecessario e a danno delle persone. In secondo luogo per quanto alcuni si siano avvantaggiati del lockdown (i grandi della tecnologia) nel complesso tutti vogliono che si torni a lavorare, a produrre a vendere, comprare, viaggiare ecc… Certo, in una nuova normalità – e la pandemia ha sicuramente accelerato certi processi che sono da combattere – ma l’idea che sia sostenibile un’economia pienamente digitalizzata in cui tutti gli altri settori che sul movimento delle persone basano il proprio business possano cedere, sembra abbastanza irrealistico.
Credo insomma che senza lockdown e senza vaccini ora la nostra lotta al virus sarebbe più difficile, nonostante si sarebbe potuto fare molto in termini di potenziamento della sanità, del tracciamento, servizi ecc… Se si parte invece dalla convinzione che la gestione sia stata puramente arbitraria, che la scienza ci dice tutt’altro, è normale allora interrogarsi sul perché, e infine pensare come inconcepibile un trattamento sanitario (praticamente) obbligatorio.
È solo da qui che possiamo partire, dalla resa esplicita di queste premesse, per capire poi quali sono i limiti giuridici e politici delle nostre scelte, che – si badi bene – possono anche arrivare a dichiarare il principio della libertà di scelta come superiore a quello della salute pubblica (del resto non manca chi lo ha detto) ma poi su queste basi deve confrontarsi con i principi costituzionali che reggono la nostra democrazia.
Prendere per il verso giusto il problema permette anche di evitare il ragionamento circolare, che legge la dimensione politica della pandemia come precedente a quella immediatamente naturale. È innegabile che la pandemia non sia, fin dall’inizio, pura natura (niente lo è), ma arrivi già mediata dall’attività umana sia nella sua propagazione (forse addirittura nell’origine, si sta indagando), che nella sua gestione e comunicazione. Tuttavia forse è uno dei casi in cui il nucleo naturale (non nel senso di privo di cause antropiche, ma inteso come una esternalità fuori dal controllo umano, ancora da metabolizzare) è indiscutibilmente primario rispetto alla sua mediazione tecnica e spirituale (usando un termine desueto). In questo senso il virus detta legge, impone risposte di fronte a qualcosa di non pienamente controllabile. Se quindi l’uso politico (attraverso la paura ad esempio) della pandemia è possibile – e si è verificato – questo non può essere concepito come precedente all’emergenza stessa dettata dalla diffusione del virus.
Se infatti – per fare un esempio – ci siamo esercitati per lungo tempo in un’opera di demistificazione della naturalizzazione dell’ordine economico del capitalismo finanziario, dicendo, fra le altre cose che lo spread non era una minaccia incontrollabile come un terremoto, lo abbiamo fatto proprio sottraendo l’economico, come un luogo puramente artificiale, alla rappresentazione della calamità naturale. Dello spread si poteva dire che non fosse un virus. Ma del virus? In questo caso forse nonostante i tanti livelli di mediazione, dobbiamo riconoscere una base di esteriorità (forse quella che ci terrorizza e che quindi tendiamo a negare nelle narrazioni sull’invenzione della pandemia), di naturalità, in questo senso, irriducibile. Di fronte a questo, per quanto ci piacerebbe il contrario, l’attività umana arriva solo dopo e può fare tanti errori e compiere tante mistificazioni per diversi interessi, ma c’è un fondo irriducibile col quale dobbiamo fare i conti. Domandiamo fino in fondo cosa è questa pandemia e come vogliamo affrontarla e solo allora potremo capire quale bilanciamento mettere in atto fra diversi principi costituzionali. Forse non abbiamo tempo: ma quali alternative abbiamo?
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