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Rage Against The Machine: il Nu Metal tra impulso rivoluzionario e vitalismo consumista
La tensione del rock è il paradosso del rock, alla luce del fatto che la sua nascita e la sua esistenza sono inscritte all’interno della cultura di massa e dell’industria culturale. Da un lato il rock è una forma di liberazione e uno strumento funzionale all’affermazione del sé autentico – attraverso la messa in discussione dei vincoli istituzionali dei valori tradizionali – e perciò anche settore di sperimentazione espressiva; dall’altro lato, il rock è il più potente ed efficace motore dell’immaginario contemporaneo, che anche quando appare in opposizione all’ordine costituito e al predominio della logica commerciale, in realtà ne attiva la spirale dialettica, una spirale dalla quale il pensiero filosofico non deve uscire rinunciando alla difficoltà imposta da tale sfida.
A seguire un estratto di ROCKSOFIA. FILOSOFIA DELL’HARD ROCK NEL PASSAGGIO DI MILLENNIO (Il melangolo, 2019) di Alessandro Alfieri
L’anno in cui venne pubblicato Rage Against the Machine, album d’esordio dell’omonima band californiana, è lo stesso anno della pubblicazione di Incesticide dei Nirvana; nel 1992 i Nirvana erano ormai un fenomeno di successo planetario, un successo che avrebbe contribuito all’epilogo tragico dopo l’uscita dell’ultimo album In utero. E tuttavia, come una sorta di necessaria compensazione, proprio alle origini degli anni Novanta altre tendenze musicali si ponevano come il grunge in opposizione all’immaginario degli 80es, ma differentemente dal grunge in chiave propriamente più progressista e rivoluzionaria. Il primo disco della band di Zack de la Rocha anticipa le prime uscite di band come Korn, Deftones, Limp Bizkit, Incubus e Tool, ovvero i maggiori rappresentanti dell’ondata nu metal, stile musicale ed estetico crossover di generi come rap, metal e funk, che band come Living Colour e downset. avevano contribuito a fondare, azzerando «le distanze tra i compartimenti non più stagni della musica giovanile»[1]. Pensiamo a tal proposito al caso dei Faith No More di Mike Patton che, dal canto loro, si sono concentrati sulla pratica del pastiche di generi: in Album of the year (1997) il metal si coniuga al soul, al country, persino allo swing, generando una tensione vibrante tra eleganza e dinamica rabbiosa.
Il rap metal dei Rage Against the Machine segna una traiettoria decisiva per le altre band nu metal dal punto di vista dell’inedita riconfigurazione dei generi. Dalla prospettiva formale e tecnica tutte queste band sono accomunate da «chitarre [che] hanno un ruolo prevalentemente ritmico e percussivo, macinando strutture laconiche spinte talvolta al limite del singulto atonale, ripetute come fossero dei mezzi campionamenti. […] La semplicità dei loro riff è il preludio alla potenza ottenuta con la distorsione e le accordature che abbassano i suoni, nei casi più estremi, sino alle profondità abissali del death»[2]. Con i Korn la dimensione iconica e la presentazione scenica sono molto diverse, come diverso è lo stile musicale, soprattutto perché la soppressione radicale della melodia apportata dai Rage Against the Machine si confronta con le linee vocali di Jonathan Davis: il fulcro dei Rage Against the Machine, ovvero l’impulso rivoluzionario e l’ideologia della liberazione (nonché l’anti-imperialismo e l’anti-americanismo) necessitano di un approccio vocale più didascalico. Il cantato rappato infatti, per quanto fulmineo e rapido, nella formula del recital pretende che lo si ascolti, mentre le linee vocali melodiche (questo fin alla tradizione operistica) sacrificano spesso e volentieri l’immediata comprensione delle parole. I Korn d’altronde sarebbero efficaci rappresentanti della linea anti-vitalistica dell’hard rock tra gli anni Novanta e gli anni Duemila, ma non a caso anche efficace ed esaustivo esempio della dinamica che il mercato ha compiuto proprio in rapporto alla dimensione distruttiva e depressiva del metal: divenuti un fenomeno globale di tendenza, i Korn conciliarono mirabilmente le esigenze del mercato discografico internazionale, dei brand di moda (indimenticabili i completi Adidas e Puma della band) e della promozione di un nuovo stile che fece scuola e che annunciò, seppur lontanamente, parte dell’ondata neo-emo della metà degli anni Dieci. Un episodio come quello dei Linkin Park è l’attuazione radicale della formula che portò i Korn inaspettatamente al trionfo commerciale, dal momento che dialetticamente il mercato ha messo in scena la sua strategia paradossale in grado di assorbire e fagocitare la sua stessa negazione: con i Korn prima, e con l’emo e i Linkin Park dopo, il disagio gridato e urlato, la segregazione sociale subita fin da età giovanile come isolamento dal gruppo perché “diversi” rispetto al modello medio-borghese occidentale, insomma i fattori che sembrerebbero smarcarsi dal principio di livellamento per affermare l’importanza delle identità individuali – incapaci oggi però di rivendicare con orgoglio la loro specificità e distinzione dalla mediocrità –, sono stati sagacemente recepiti dai Korn, dai Linkin Park e da molte altre band gestite dal mercato che ha investito su questa dimensione per fondare ad hoc una nuova specifica fetta di pubblico, paradossalmente rivelatasi nel tempo quasi maggioritaria (sorta come richiesta di ascolto e megafono della sofferenza degli esclusi e degli outsider, perciò in seno alla minoranza). In questo Korn e Rage Against the Machine sono agli antipodi: tramontata la stagione del trionfalismo edonistico postmoderno, i Korn coniugano da un lato elementi contenuti nella teatralizzazione dei Cure e dei Killing Joke (che gli Slipknot avrebbero portato all’eccesso) costruita sulla dinamica perturbante della distorsione dell’universo infantile, ma inverano l’universo stregato e mostruoso di quelle band sostituendo ai mostri astratti degli incubi infantili i mostri reali dell’esperienza inconciliata e solitaria del vuoto dei 90es, in questo collegandosi alla psicologia del grunge dei Nirvana; i Rage Against the Machine invece recuperano la tradizione funk rock, attingono agli anni Sessanta per l’attivismo politico e ai Settanta per l’indole violenta e irruente della loro musica, per ristabilire la dimensione politica come predominante nell’immaginario hard rock.
Il comunismo e il pauperismo anticolonialista dei Rage Against the Machine sono un caso quasi isolato, un ultimo ed estremo tentativo all’alba del nuovo decennio di recuperare un impulso rivoluzionario che in passato era riuscito a compattare gruppi sociali e soprattutto a dare senso e direzione all’azione e all’esperienza: non è un caso che il fenomeno europeo e ancor più globale dei centri sociali rafforzatosi nei Novanta è profondamente debitore a questa tendenza istituita in maniera sovversiva proprio dalla band di de la Rocha. Una sfida ardua che poteva suonare già all’epoca estremamente demodé e da un certo punto di vista persino patetica a pochi anni dal tramonto dell’Unione Sovietica, una sfida vinta dalla band che sul piano della promozione e della distribuzione è stata in grado (come accaduto in passato per la scena hardcore e per i Fugazi) di tutelarsi rispetto all’assorbimento commerciale del capitalismo globale: per non cedere al rischio di uno svilimento dettato dall’inattualità della narrazione hippie della fine degli anni Sessanta, sono l’energia e la radicalità verbale e musicale dei Rage Against the Machine a concedere alla band un’efficacia e una forza profonde nell’immaginario. All’inno all’amore fraterno e all’utopismo comunitarista si sostituisce la concretezza di una musica da guerrilla, violenta, che alla guerra risponde con la guerra; il rap contribuisce a svecchiare la narrazione rivoluzionaria facendola diventare attuale in maniera muscolare, senza malinconia ma con la convinzione della necessità nelle condizioni geopolitiche dei 90es di proseguire la tradizione del rock politico. Non c’è spazio in questo universo simbolico per la melodia come abbiamo detto, ma d’altronde è anche sul piano dell’arrangiamento dei brani che la svolta è decisiva: l’efficacia della proposta dei Rage Against the Machine passa per lo svecchiamento e l’originalità dello stile, che si catalizza in particolar modo nelle partiture per chitarra di Tom Morello. Solo in questo senso Korn e Rage Against the Machine si riavvicinano: la chitarra di Morello alterna a riff ritmici di accordi strofe costruite su suoni, rumori, arpeggi che ricordano i beat delle basi dei DJ della scena hip hop, esattamente come faranno le due chitarre dei Korn. Si tratta di un ripensamento rivoluzionario del ruolo della chitarra nell’arrangiamento, che sulla sessione ritmica introduce spesso fulminei frammenti di note, intensificazioni degli accenti, suoni che fanno da atmosfera quasi fossero sample digitali. A questo Morello aggiunge anche alcuni assoli radicalmente nuovi rispetto alla tradizione hard rock e metal precedente: la chitarra diventa una “sirena d’allarme”, emettendo suoni imprevedibili per mezzo degli effetti wah wah e whammy. Tutto questo al servizio del messaggio di decostruzione e frammentazione tanto della tradizione rock (responsabile del passivismo che ha abbandonato l’interesse per la causa politica) quanto della tradizione hip hop (anch’essa colpevole dello smarrimento dello slancio rivoluzionario originario, sostituito dall’ostentazione della ricchezza da parte della West Coast): lo stile della band americana distrugge per ricostruire, polemicamente si avventa sulla scena musicale per riappropriarsi di quello che è uno dei principi vitalistici che il rock ha posseduto fin dalle origini, ovvero la politica come tentativo di ristabilire un principio comunitario. L’impulso politico-vitalistico però è in qualche maniera inconciliato e contraddittorio: la violenza – dei testi e della musica – è impregnata dall’ideologia socialista rivoluzionaria, e tuttavia rispetto agli anni di Woodstock è quella stessa violenza che attesta come il vitalismo politico oggi sia condannato al fallimento, perché incapace di istituire un nuovo principio di comunità e condivisione.
Se per dirla con Frith «Nel linguaggio della critica rock, ciò che […] è in gioco è la verità della musica – delle persone che l’hanno creata e della nostra esperienza. Ciò che è negativo dell’industria musicale è lo stato di frode, inganno e sfruttamento che pone fra noi e la nostra creatività»[3], i fan dei Rage Against the Machine, gli ascoltatori trascinati dalla loro energia vitalistica, gli stessi frequentatori dei centri sociali occupati, si presentano non già e non più come una collettività coordinata, quanto come un assembramento di destini individuali, di monadi isolate per quanto vicine; come sostiene sempre Frith facendo riferimento ad Adorno: «La cultura di massa produce, nello stesso tempo, pseudo-individualismo e pseudo-collettivismo»[4]. Lo stesso sarà per altre band nu metal che seguiranno la lezione dei Rage Against the Machine, come gli Incubus – che rispetto ai Korn prenderanno una posizione chiara contro l’establishment americano della politica di Bush nello stesso momento in cui vireranno verso una dimensione melodica ben più conciliante e leggera – e soprattutto i System of A Down, dove un vortice di ispirazioni e principi stilistici rende tutto ancora più confuso: l’impegno politico contraddittorio che mette insieme le origini armene all’anti-americanismo, l’ispirazione orientale e la critica al capitalismo occidentale, musica popolare costruita su motivi folk che rimandano alle danze esotiche traslati nel linguaggio del metal, persino teatralità lirica baritonale in rapporto al rap. Rispetto ai Rage Against the Machine, i System of A Down dedicano particolare attenzione alle melodie, scrivendo brani che sono autentiche ballads costruite su linee vocali audaci e avvolgenti: i System of A Down sono perciò uno dei pochi esperimenti di catalizzazione di tutte le dimensioni del nu metal, ma proprio in questo il progetto resta come irrisolto e confuso, perché il barlume di proponimento e attivismo politico si infrange nel pastiche senza offrire gli estremi utili alla costruzione di un futuro diverso.
Nella scena nu metal quindi, i Rage Against the Machine sono un caso particolare che ha pochi eredi: coi Limp Bizkit si condivide lo stile del cantato rap, ma la band di Fred Durst il vuoto intende colmarlo non già con l’attivismo politico quanto con l’intensificazione dell’isolamento dettato dal capitalismo globale e multinazionale. È come se paradossalmente la proposta dei Limp Bizkit fosse meno ingenua: i Rage Against the Machine rischiano nel corso della loro breve carriera di fare la parte degli “useful idiots”, perché come abbiamo visto la grinta e l’energia del loro progetto diventa (contro il loro volere, ammettendogli la buona fede) uno specifico prodotto per uno specifico pubblico, ovvero quelli che rifiutano di venire inquadrati come semplici consumatori. E tuttavia il mercato ha già pensato anche a loro prima che se ne rendessero conto, tanto che il progressismo di questo progetto non ha portato ad alcuna autentica compattazione sociale e rifondazione di una comunità costruita sulla condivisione delle medesime idee. Tutti restano soli con la loro rabbia, per quanto questa venga raccontata in termini collettivi, storici, sociali e culturali. Ebbene, i Limp Bizkit tagliano corto e puntano direttamente alla medesima conclusione strappando il velo dell’apparenza: in un mondo svuotato di senso un progetto musicale sconclusionato e senza senso rivolto ai singoli “io” più che a una generazione. Una generazione, che come viene cantato in Break Stuff (1999) conosce solo l’elemento della necessità di scaricare il rancore e il furor represso “spaccando tutto”, senza che questa violenza assuma (come pretendevano e speravano i Rage Against the Machine) una connotazione chiara e comprensibile. I Limp Bizkit perciò risalgono all’autentica origine della violenza, che è muscolare, immediata, spontanea, e perciò stesso senza ragione: declinare questa rabbia e questa violenza in termini politici non è che un tentativo di incardinarla e spiegarla, paradossalmente potremmo dire per tenerla maggiormente a bada rispetto ai rischi che il furore possa scatenarsi in arene pubbliche e occasioni spontanee. Se il rock “classico” fino agli anni Settanta conciliava la dimensione di sfogo con l’attitudine politica, dagli anni Ottanta – in linea con la dimensione postmoderna – la musica rock ha gradualmente smarrito la verve polemico-critica nei confronti delle autorità costituite. Tale trasfigurazione dell’ira nell’universo del rock si è espresso nel significato simbolico che Woodstock assunse nel ‘69: un concerto che fu un esperimento di aggregazione dove il furor giovanilistico venne magicamente tradotto nel messaggio di fraternità e pace in maniera utopistica e malinconica, perché come abbiamo detto nell’introduzione evidenziò da subito il principio stesso della sua irrealizzabilità. A 30 anni di distanza, in onore del concerto del 1969, fu organizzato Woodstock 1999,un nuovo concerto con protagoniste alcune band della scena contemporanea: la cronaca ci racconta come fu necessario sospendere l’evento al momento dell’esibizione dei Limp Bizkit a causa degli incidenti e dei disordini. Sulle note del brano Break Stuff gli spettatori presero alla lettera le parole del cantante Fred Durst “Dammi solo qualcosa da rompere!”: non rompere qualcosa in direzione di un fine, nessuno specifico obiettivo determinato per la propria rabbia repressa, ma l’incentivo alla manifestazione pura della rabbia tradotta in un odio rapsodico e indeterminato e in una violenza brutale e fine a se stessa – senza quella facoltà di “immagazzinamento” e investimento dell’ira teorizzata da Peter Sloterdijk, che sembrerebbe appropriata proprio alla comprensione della traduzione dell’impulso timotico spontaneo in chiave politico-rivoluzionaria dei Rage Against the Machine[5]. Il vitalismo dei Limp Bizkit è elementare, estremamente banale come banale è il male e le regole che ordinano l’immaginario mercantile. Questa la loro forza, la rinuncia di qualsiasi elucubrazione di tipo politico.
[1] T. Iannini, Nu Metal, Giunti, Firenze 2003, p. 6.
[2] Ivi, p. 13.
[3] S. Frith, Il rock è finito. Miti giovanili e seduzioni commerciali nella musica pop, EDT, Torino 1990, p. 14.
[4] S. Frith, Sociologia del rock, Feltrinelli, Milano 1982, p. 189.
[5] Cfr. P. Sloterdijk, Ira e tempo. Saggio politico-sociologico, Meltemi, Milano 2007.
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