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Tre ostacoli a una politica efficace per contrastare la crisi climatica
L’ondata di caldo che sta arroventando l’Europa (in senso letterale, visti gli incendi che stanno infiammando l’Europa mediterranea) e l’ultimo rapporto dell’IPCC (che riporta inequivocabilmente a cause umane l’effetto serra) ripropongono all’attenzione dei media una questione la cui risonanza è inversamente proporzionale all’impegno profuso dai governi per affrontare il problema. In attesa di un ulteriore summit che si avrà sulla materia in ottobre, la COP 26, si può riflettere sulla inconsistenza decisionale delle precedenti 25 COP. Dal protocollo di Kyoto, sono passati quasi 25 anni senza che si sia migliorato alcunché. Nonostante gli indubbi progressi ottenuti negli ultimi anni in materia di sviluppo delle energie rinnovabili, la presenza di gas serra in atmosfera è sensibilmente aumentata. E ciò grazie anche ai numerosi incendi che, negli ultimi anni, stanno funestando il globo, dall’America all’Australia, dall’Asia alla Russia. Ettari di foreste in fiamme significano il rilascio di CO2 in atmosfera e la distruzione dello strumento più utile per catturare i gas serra.
Nel 2019, si legge nel rapporto dell’IPCC, la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera ha raggiunto medie annuali di 410 ppm. Tali concentrazioni non sono state mai registrate negli ultimi due milioni di anni (https://ipccitalia.cmcc.it/messaggi-chiave-ar6-wg1/). Le conseguenze, in assenza di un intervento drastico sulle emissioni di gas serra, saranno drammatiche: dalla desertificazione di vaste aree, già esposte a fenomeni di siccità, all’innalzamento del livello del mare che invaderà molte zone costiere e che darà luogo a ingenti fenomeni migratori, ad eventi catastrofici sempre più frequenti, quali ondate di calore, cicloni e inondazioni. Come quelle che hanno colpito la Germania recentemente. L’aumento del livello medio del mare, si può leggere nel rapporto, è dato sia dall’espansione termica determinata dall’aumento della temperatura che dallo scioglimento dei ghiacci terrestri. Lo scioglimento di questi libera metano intrappolato nel permafrost, innescando un anello di retroazione positivo che incrementa gli effetti descritti.
Se proprio si vuole trovare una notizia positiva nel rapporto dell’IPCC, questa è data dalla possibilità di intervenire. Ossia, non è ancora troppo tardi e i danni, che comunque ci saranno perché molti cambiamenti dovuti alle emissioni di gas serra sono irreversibili per secoli o per millenni, potranno essere circoscritti. Più drasticamente si interviene sul rilascio di carbonio in atmosfera più si mitigano gli effetti della tendenza al riscaldamento globale. Nello scenario di emissioni molto basso, la temperatura superficiale globale media nel 2081-2100 sarà più alta di 1,0°C-1,8°C. In quello peggiore di 3,3°C-5,7°C. Occorre considerare che un innalzamento di due gradi darà luogo a scenari di catastrofe.
Rispetto alle previsioni passate, il rapporto non inasprisce le conseguenze negative, ma ne attribuisce in maniera inequivocabile la causa all’attività antropica: dal 1750, ossia dalla rivoluzione industriale, gli aumenti della concentrazione di gas serra sono dovuti all’attività umana. Alla luce di ciò, ci possiamo aspettare un cambiamento radicale nell’agenda dei governi? In realtà non abbiamo molti motivi per essere ottimisti. Finora abbiamo constatato la sussistenza di almeno tre ostacoli affinché il problema venga affrontato in maniera radicale: 1) il fenomeno del negazionismo; 2) la soluzione tecnologica usata come foglia di fico per non modificare il modello di sviluppo; 3) l’individualizzazione delle responsabilità e l’attribuzione delle disfunzioni di sistema a comportamenti dei singoli.
- Sebbene, in linea di massima, il negazionismo, da parte di alcuni governi, sia un fenomeno in contrazione, a livello fattuale poco viene fatto per contrastare la crisi climatica. Il che significa praticare un negazionismo de facto. Negli Stati Uniti, in particolare, quella del climate change è questione politica ancora controversa e risente degli esiti delle elezioni presidenziali. L’atteggiamento del governo degli Stati Uniti è condizionato da quello dell’inquilino della Casa Bianca e dalla sua capacità di resistere alla pressione lobbistica delle compagnie petrolifere. La politica nordamericana risente dell’enorme peso elettorale detenuto dagli interessi di gruppi industriali non solo petroliferi; si pensi all’industria dell’allevamento intensivo di bovini che nega che il proprio settore contribuisca al problema. Poiché gli USA continuano ad essere il paese con le maggiori emissioni pro-capite, il loro atteggiamento sulla questione non può non essere rilevante. Dal negazionismo di Trump, che ha riavvolto il nastro degli impegni a prima degli accordi di Parigi, si è approdati a Biden, il quale sembra mostrare una certa sensibilità nei confronti di clima e ambiente. Ma a dimostrare la complessità della questione sta un atteggiamento ondivago dello stesso neopresidente. Il quale, da una parte, ha bloccato i lavori finalizzati all’estrazione di petrolio in una vasta area dell’Alaska, dall’altra ha ceduto a pressioni di aziende petrolifere che hanno ottenuto la concessione per trivellare in un’altra zona a nord dello stesso Stato. Ma anche negli altri paesi a industrializzazione avanzata, ai proclami non corrisponde un’agenda volta a limitare emissioni e inquinamento. Per limitarci al caso italiano, un esempio di negazionismo de facto offerto dal via libera, nello scorso aprile, a una serie di trivellazioni sia sulla terra ferma che offshore per sfruttare giacimenti di metano e petrolio. Oppure si pensi al progetto Tav Torino-Lione, progetto che appartiene al passato e contraddice i principi dell’economia circolare. I prodotti non devono viaggiare più velocemente. Devono viaggiare meno. Specie se parliamo di prodotti alimentari, per i quali si chiede di una filiera corta per impattare meno sull’ecosistema. Il mondo non deve accelerare, semmai deve rallentare.
- Che la scienza e la tecnica costituiscano un importante aiuto a superare l’attuale crisi ambientale è fuori di discussione. Il pericolo è però che la soluzione tecnologica svolga la funzione di non prendere sul serio la questione e di continuare con un modello di sviluppo basato sull’iperproduzione di merci. Si pensi alla mobilità basata sulla propulsione elettrica in una fase in cui l’energia elettrica viene ancora prodotta principalmente da combustibili fossili. Il passaggio all’energia verde rischia di generare ottimismo verso un argomento che richiede drammaticamente l’urgenza di agire. Aspettare il ricollocamento dell’industria perché si arrivi a una produzione alternativa a quella dei combustibili fossili significa impiegare tempi che non abbiamo. Per non parlare del fatto che molte tecnologie rinnovabili hanno fame di terreni e molti di questi dovranno essere tolti all’agricoltura o ai boschi. Nei recenti incendi nel sud Italia è stata ipotizzata una pista criminale finalizzata a occupare terreni per impianti di energia rinnovabile.
La fase di lockdown generalizzato, nei primi mesi del 2020 per far fronte alla pandemia da coronavirus, ha dimostrato che uno stop forzoso è molto più efficace di qualsiasi transizione energetica. Quella prova generale non è replicabile su vasta scala, ciononostante ci suggerisce che la migliore soluzione sta nel coniugare un uso della tecnologia con una politica di degrowth. Questa va intesa non come semplice decrescita ma come un’equa e democratica riduzione nell’uso di energia e materie prime, mantenendo, anzi accrescendo, il livello di benessere per una quota maggioritaria di persone e paesi che dello sviluppo occidentale hanno visto solo gli effetti negativi. Occorre considerare, inoltre, che le innovazioni tecnologiche si basano su quelle che vengono definite terre rare e che sono presenti per lo più in paesi dell’Africa, Asia e America latina o in posti incontaminati come la Groenlandia. Attualmente, lo sfruttamento di quelle materie ha lo stesso effetto, a livello ambientale e di oppressione delle popolazioni locali, di quello causato dall’estrazione dei combustibili fossili in quegli stessi paesi. Il neocolonialismo, basato sul foraggiamento di governi corrotti compiacenti con l’industria dei paesi ricchi e sull’esternalizzazione del degrado ambientale, non muta in virtù della transizione ecologica. La quale, se la si vuole assumere come modello alternativo per un mondo più equo e più sostenibile, deve comprendere anche la riscrittura dei rapporti politici e geostrategici nei confronti di quelle realtà.
Esiste una letteratura scientifica sempre più nutrita che contesta le previsioni di disaccoppiamento tra crescita del Pil e uso delle risorse, pur condivise dall’IPCC, e che si pone a favore della degrowth (cft. ad esempio https://www.nature.com/articles/s41467-021-22884-9). Segno che non siamo in presenza di una mera posizione ideologica o politica e che tale soluzione è corroborata da studi scientifici che, da una parte, dimostrano l’impossibilità di frenare la crisi climatica solo attraverso una soluzione tecnologica, dall’altra asseriscono che il benessere non è affatto legato alla crescita del Pil e delineano traiettorie di trasformazione sociale. Un esempio della percorribilità di tali traiettorie ce lo offre la Groenlandia. Le ultime elezioni sono state vinte dal partito degli Inuit dopo una campagna elettorale che si è giocata sulla possibilità di consentire a multinazionali estere di estrarre uranio e terre rare dall’isola. Sebbene tali concessioni avrebbero portato quantità di denaro tali da consentire l’avvio di un processo di indipendenza dalla Danimarca, la maggior parte della popolazione ha optato per la salvaguardia dell’ecosistema dell’isola rifiutando le succulente offerte di denaro. Il che significa che il profitto non è la misura del tutto e che un’altra scelta è possibile. Non è però un caso che tale scelta provenga da una popolazione che si sottrae più facilmente alle sirene del capitalismo quale modello di benessere che pervade la maggior parte delle popolazioni occidentali. Sulla stessa linea sta la concezione del buen vivir che alcuni stati sudamericani hanno scelto come principio delle proprie costituzioni. Anche quei principi, basati su una vita condotta alla luce del rispetto dell’ambiente naturale e degli altri individui della collettività, non a caso forse, provengono dalle comunità indigene non del tutto contaminate dai principi del capitalismo.
- L’ultimo ostacolo è l’individualizzazione delle responsabilità. Questa è una pratica che vanta un lungo corso da parte delle aziende responsabili di inquinamento ed emissione di gas serra. Queste tendono a far passare la tesi che non è l’azienda a inquinare ma il consumatore che non ha cura della gestione corretta dei rifiuti. D’altra parte, se la responsabilità è capillarmente diffusa, allora non è riscontrabile in capo a nessuno. Ma, spesso e volentieri, il consumatore è semplicemente nella condizione di non poter adottare un modello comportamentale virtuoso. Dapprima perché dovrebbe diventare un esperto della composizione dei prodotti che acquista, della loro origine (se vengono salvaguardati i diritti dei lavoratori, ad esempio, o se le materie prime vengano estratte nel rispetto dell’ambiente), dell’esistenza della possibilità di un loro riciclaggio, etc. Quindi perché, a voler essere integerrimi, si dovrebbe adottare uno stile di vita da eremita. Aspettarsi un comportamento virtuoso da parte di milioni di persone, in una società basata sul consumo massivo di beni e sull’usa e getta, quindi agendo dal lato del consumo e non da quello della produzione, equivale a un’altra politica improntata a un negazionismo de facto.
Un’ultima considerazione va fatta. Il cambiamento climatico è già ad uno stadio avanzato e sta sciogliendo i ghiacci del Polo nord aprendo vie di comunicazione importanti per i commerci mondiali e possibilità di estrazione di combustibili fossili e minerali. C’è la seria possibilità che, nella prospettiva di approfittare di tali scenari, ci si astenga dall’adottare misure per frenare tale fenomeno. Governi ed eserciti si stanno già riposizionando in funzione dello sfruttamento delle terre del Nord. I guadagni a breve termine che si prospettano potrebbero essere il quarto serio ostacolo ad adottare misure efficaci nel frenare il disastro climatico.
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