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Dopo vent’anni d’occupazione, Washington fugge dall’Afghanistan
A poche settimane dal ventesimo anniversario dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti abbandonano l’Afghanistan. Dopo l’Occidente a guida statunitense, il maggiore sconfitto è il popolo afghano, vessato da oltre quarant’anni di guerra sostanzialmente costante e illuso dalle promesse d’oltreoceano. Almeno due le generazioni di afghani compromesse: centinaia di migliaia, se non addirittura milioni, i morti subiti dall’Afghanistan in questi decenni di guerra.
Se la campagna d’Afghanistan (2001-2021) perseguiva fini diversi dalla guerra come obiettivo e dall’ instabilità permanente come paradigma, il ritiro di Washington – già annunciato a Doha lo scorso anno – segna il più clamoroso fallimento statunitense degli ultimi trent’anni. L’ormai decennale strategia del caos di Washington mostra i propri limiti e la propria inefficacia di medio-lungo periodo.
La presa di Ferragosto della capitale Kabul è avvenuta senza rilevanti episodi di resistenza. A liquidare gli intenti combattivi di alcuni settori dell’esercito afghano sono state le alte sfere del medesimo esercito, evidentemente persuase ad adottare questa condotta.
Prendendo parola sul ritiro dall’Afghanistan, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha fatto intendere che l’epoca in cui gli Stati Uniti potevano permettersi di “esportare democrazia” appartiene alla storia.
Joe Biden ha però sottolineato che la campagna d’Afghanistan non perseguiva l’obiettivo dell’ “esportazione della democrazia”, bensì quello della “lotta contro il terrorismo”: in questo, nel discorso di Joe Biden, la campagna d’Afghanistan avrebbe avuto successo.
Benché i toni e le pose dei due presidenti evidentemente divergano, la sostanza della politica di Joe Biden non sembra allontanarsi molto dall’ “America First” dell’ex presidente Donald Trump.
Del resto, proprio gli accordi di Doha, firmati da Donald Trump insieme alla controparte talebana, hanno tracciato le linee guida del ritiro americano dall’Afghanistan. In ogni caso Joe Biden rischia di diventare il parafulmine non solo della figuraccia afghana, ma della crisi della politica estera di Washington e del suo declino.
Non meno umiliante del fallimento statunitense è il rango in cui si è rannicchiata l’Italia, ridotta ad adeguarsi a qualunque desiderio di Washington. La campagna d’Afghanistan è costata all’Italia la vita di oltre cinquanta militari e sul piano strettamente economico quasi nove miliardi di euro: nel fallimento afghano sarebbe opportuno trovare gli stimoli per il rilancio di una politica estera che metta al centro l’interesse nazionale, le problematiche dell’estero vicino e la tendenza alla neutralità.
Vale la pena ricordare come nel pieno dello slancio antisovietico degli anni ottanta la stampa statunitense presentasse il già barbuto – ma meno noto – Osama Bin Laden come un genuino “freedom fighter”. E come, una volta che la compagine dei mujahedin antisovietici apparve eccessivamente solida, gli Stati Uniti cominciarono a sostenere il movimento dei talebani.
Il fatto che gli Stati Uniti abbiano abbandonato l’Afghanistan non vuol dire che Washington cesserà di avere un ruolo nella partita: Washington continuerà a vedere nell’Afghanistan una spina nel fianco di Russia, Cina ed Iran e quasi di certo non mancherà di individuare delle compagini a cui offrire sostegno. Ma il danno che la fuga dall’Afghanistan arreca alla credibilità internazionale degli Stati Uniti è enorme, e Washington ne pagherà lo scotto per decenni.
Ampie porzioni della società statunitense, così come alcuni settori delle forze armate e dello stato profondo, si sono dimostrate indisponibili a tollerare guerre senza fine giustificate da argomenti scarsamente persuasivi e fonti inesauribili di scandali.
Il Pakistan è certamente il principale attore regionale a trarre beneficio dalla presa di Kabul da parte dei talebani: Islamabad non mancherà infatti di incassare la contropartita di decenni di sostegno alla causa talebana: una maschera con cui non di rado il Pakistan ha potuto dissimulare i propri interessi.
Molte sono le incognite che restano aperte: se da una parte la nuova fase del rebus afghano potrebbe prefigurare una nuova guerra con intensità e forme diverse, dall’altra la volontà stabilizzatrice di molti tra i paesi confinanti o coinvolti in modo rilevante potrebbe aprire una nuova fase per l’Afghanistan. Un Afghanistan instabile può offrire infatti i presupposti per la destabilizzazione dell’Iran, del centroasia post-sovietico e dello Xinjang cinese. I talebani promettono che non sosterranno alcuna insorgenza jihadista nei dei paesi confinanti, ma certamente il credito che può essere dato a queste promesse è assai relativo.
Una delle incognite del contesto riguarda l’atteggiamento delle petrolmonarchie arabe: volendo mantenere una certa instabilità in Afghanistan queste potrebbero giovarsi nuovamente dell’entità dell’ISIS in chiave antitalebana, combattendo in sostanza per procura contro chi ha bisogno di Afghanistan stabile.
Il cosiddetto Emirato d’Afghanistan – ossia, l’entità talebana – gode di un consenso molto relativo in seno alla popolazione afghana: tra le tragiche immagini giunte dall’Afghanistan mancano infatti quelle di un popolo in festa che saluta i liberatori. Con più di una ragione, molti afghani percepiscono l’azione dei talebani come una cronica ingerenza mossa dal Pakistan ai danni del proprio paese. Nel corso dei lunghi anni di guerra, i talebani avevano già acquisito il controllo de facto di ampissime zone del paese, senza risparmiare rastrellamenti ed esecuzioni sommarie di quegli afghani considerati collusi con l’Occidente, avversi alla loro interpretazione della sharia o eredi del movimento socialista afghano. I talebani lanciano ora dichiarazioni moderate, in cui si dicono disposti ad accettare una presenza femminile nei ranghi della burocrazia del “nuovo” Afghanistan post-americano e a riconoscere alle donne l’accesso a tutti i ranghi d’istruzione.
I talebani promettono inoltre di interrompere la produzione di oppio, aumentata esponenzialmente durante l’occupazione statunitense tanto da fare dell’Afghanistan il primo produttore mondiale di questo stupefacente: anche dando credito alle promesse talebane, viene da chiedersi quali presupposti potrebbero rendere verosimile una prospettiva di questo genere. La coltivazione dell’oppio è infatti la principale fonte di sostentamento economico per i contadini afghani: per immaginare di bloccarne realmente la coltivazione servirebbe un’alternativa per permettere il sostentamento economico a centinaia di migliaia di persone – ossia un piano economico di portata epocale – nonché un potere sufficientemente forte da riuscire a tener testa ai cartelli del narcotraffico. Da considerare è anche il fenomeno più recente della raccolta di arbusti con cui si producono metanfetamine, sostanze di cui l’Afghanistan sta diventando uno dei principali produttori mondiali.
Una crescita del consenso in favore dei talebani tra la popolazione è possibile, ma non scontata. Una diffusa insofferenza popolare potrebbe problematizzare notevolmente i progetti di stabilizzazione del paese, favorendo invece i presupposti di una nuova guerra civile.
L’unica provincia rimasta al momento fuori dal controllo talebano sarebbe quella nordorientale del Panshir: qui, lanciando un appello internazionale che sembra abbia trovato interesse a Parigi, il figlio del leggendario comandante Ahmad Massud ha promesso di combattere contro i talebani insieme ad alcune figure dell’ormai ex governo e a quelle forze dell’esercito afghano riuscite a rifugiarsi nell’impervia vallata.
Intanto un portavoce dei talebani ha dichiarato di considerare il gasdotto TAPI (Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan, India) “un progetto prioritario”: le sorti del gasdotto così come quelle di progetti infrastrutturali, minerari – terre rare – ed economici enormi restano al momento sospese. Mosca e Pechino osservano, forti del lavoro di anni che ha partorito accordi strategici con i principali attori dell’intera regione in cui è incastonato l’Afghanistan.
La possibile resistenza antitalebana di Ahmad Massud – figlio – potrebbe costituire da una parte l’espressione genuina di un’ampia porzione del popolo afghano, dall’altra uno strumento per impedire la stabilizzazione dell’Afghanistan bloccando soprattutto i progetti cinesi, e magari dare qualche colpo di spugna sulla coscienza dell’Occidente.
Quel che sembra certo, oltre al lento ma costante declino della politica estera degli Stati Uniti, è che l’onda lunga afghana non mancherà di rovesciarsi sugli affari domestici d’oltreoceano. E potrebbe diventare uno tsunami.
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