Per capire meglio l’attuale situazione in Afghanistan e le intricate dinamiche storico-politiche che si celano dietro bisogna, in via preventiva, andare a ritroso di circa mezzo secolo, quando gli eventi geopolitici venivano costantemente analizzati secondo le inflessibili lenti della Guerra Fredda. L’inizio dei problemi – o meglio, un sempre più malcelato rancore religioso di carattere ultrareazionario tra il clero locale e i suoi simpatizzanti- ebbe l’occasione di materializzarsi in Afghanistan con la nascita della Repubblica nel 1973. In quell’anno il re Mohammed Zahir Shah (un cosiddetto sovrano illuminato secondo i comuni canoni di giudizio occidentali) venne deposto da un colpo di stato mentre si trovava convalescente in Italia per diporto, dopo aver subìto un trattamento medico in Inghilterra. Il tutto, sostanzialmente, avvenne senza colpo ferire ad opera del cugino Mohammed Daud Khan, con l’ausilio di alti ufficiali militari di simpatie comuniste. Di idee socialisteggianti e progressiste e con delle posizioni altalenanti tra l’Urss e gli Usa, il nuovo Presidente fece un’importante serie di concessioni sociali, tra cui la tutela dei diritti a favore delle donne (una pratica già parzialmente avviata in precedenza dal re), finché lo stesso Daud Khan cinque anni dopo -a sua volta- cadde vittima di un colpo di stato militare (la “Rivoluzione di Saur”), questa volta guidato dal Partito Democratico Popolare dell’Afganistan. Dal 1978, con i comunisti al governo, fautori di una politica secolare e progressista ancora più sospinta, soprattutto in relazione ai diritti delle donne, la catalizzazione dei più oscurantisti e reazionari sentimenti religiosi tra le élite religiose locali venne progressivamente formandosi, tanto più radicalmente quanto il contesto geopolitico attorno; le logiche della Guerra Fredda ebbero un peso determinante in merito e la decisione di Washington di avallare questi incipienti e medievali impulsi religiosi in funzione anticomunista e l’avventatezza di Breznev nel 1979 nell’optare per un’invasione militare atta a deporre il secondo Presidente della neonata Repubblica Democratica Afgana Hafizullah Amin -per rimpiazzarlo con Babrak Karmal, più prono agli interessi sovietici- fecero il resto.
Il video in cui si vede il Consigliere Usa per la Sicurezza Nazionale (il polacco Zbigniew Brzeziński, dell’amministrazione Carter) dare il suo pieno appoggio militare, finanziario, logistico e morale ai mujahidin afgani in funzione antisovietica attraverso il corridoio pakistano è emblematico. Credo che questo documento storico incontrovertibile e facilmente consultabile online sia fondamentale per capire meglio le logiche storiche dietro a tutto ciò.
Nel filmato, Brzeziński, parla con la stessa retorica religiosa con cui al giorno d’oggi parlano i talebani e la cosa è di considerevole importanza e torva attualità:
“That land over there is yours, you’ll go back to it one day, because your fight will prevail and you’ll have your homes and your mosques back again, because your cause is right and God is on your side “.
Cioè: “Quella terra laggiù è la vostra, un giorno ci tornerete, perché la vostra lotta prevarrà e avrete nuovamente le vostre case e le vostre moschee, perché la vostra causa è giusta e Dio è dalla vostra parte“.
Guardare ora le immagini delle donne afgane negli anni ‘60, ‘70 oppure ‘80 è un colpo allo stomaco e al raziocinio umano e rappresenta il terrificante paradigma di un regresso collettivo, soprattutto a scapito di una determinata parte sociale. Uno la può pensare come vuole, ma è indubbio che circa 40 anni fa con il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan al governo, nonostante tutti i problemi interni propri di ogni realtà statuale, la vita sociale delle donne era indiscutibilmente migliore; mentre, dopo venti anni dall’invasione statunitense, assistere ora alla nascita dell’Emirato Islamico- dopo un’ecatombe di vite umane innocenti ed uno sperpero enorme di svariati milioni di dollari usati per distruggere intere generazioni di civili inermi senza futuro- rappresenta l’opposto di tutto ciò per cui l’Occidente ha detto di volersi battere in tutti questi anni. Attenzione: per tutto ciò che i media mainstream han voluto farci credere che bisognasse battersi, attraverso una iniziale e pervicace fanfara di adulatorie (ed interessate) esaltazioni mediatiche nei confronti dei patrioti mujahidin fintantoché essi son serviti alla causa bellica occidentale in funzione anticomunista. Perfino il chiassoso, ma vuoto clamore commerciale di Hollywood – che sovente rasenta una peculiare forma di demenza tipica della società statunitense- ha fatto la sua parte: in “Rambo 3”, Sylvester Stallone si trova in Afghanistan a combattere contro gli infedeli comunisti al fianco degli islamisti, una gran parte dei quali sarebbero poi divenuti futuri talebani. Dopo il ritiro delle truppe sovietiche (1989) e dopo la caduta dell’Unione Sovietica e la conseguente presa di Kabul da parte dei filoislamici nel 1992 e la fine del governo comunista afgano, la necessità di usare questi combattenti contro Mosca venne meno. Successivamente essi vennero lasciati allo sbaraglio a combattere tra di loro, coltivando i semi di un’interminabile guerra civile. Fu allora che i talebani vennero alla luce, una particolare fazione religiosa di mujahidin assai ultraconservatrice e radicale nei suoi propositi politici e religiosi. Nel 1996 conquistarono la capitale ed instaurarono il (primo) Emirato Islamico afgano, una realtà semi-statuale, molto parzialmente riconosciuta a livello internazionale (Emirati Arabi Uniti e Pakistan). Da lì in poi, è storia nota: nel marzo 2001 i Buddha di Bamiyan vennero fatti saltare in aria; il 9 settembre 2001 il comandante militare Ahmad Massoud (precedentemente un mujahid impegnato nella lotta contro i sovietici) venne assassinato in quanto principale oppositore rimasto dei talebani; 11 settembre, l’attacco alle Torri Gemelle e successivamente l’invasione statunitense. Dopo venti anni di invasione straniera (e più di 40 anni di conflitti generalizzati in questo Paese martoriato) vedere di nuovo i talebani al potere è l’eredità storica lasciata dalla guerra, ingannevolmente descritta come uno strumento necessario ed inevitabile di esportazione della “democrazia”, a difesa dei diritti dei cittadini e soprattutto delle donne.
Ora, dei ragionamenti in merito: negli ultimi decenni, in quasi tutto il Medio Oriente c’è stato un significativo ed oggettivo ritorno al passato da questo punto di vista: l’infausto ruolo degli Stati Uniti, per le ragioni sopra esplicate, mossi da interessati propositi geopolitici hanno avuto delle ripercussioni così gravi sul progresso di tutta questa regione, che il Medio Oriente sta facendo ancora tremendamente fatica a rialzarsi; e la favoletta di condurre le guerre a difesa dei diritti delle persone è un’affermazione che non tiene conto alcuno della realtà dei fatti, ma è pura e vacua retorica. È mai venuto in mente ad una delle nostre Nazioni occidentali – ad esempio- di muovere guerra a qualche nostro alleato nel Golfo -alleati geopolitici fondamentali, che non hanno nulla di democratico nemmeno per i più blandi standard di giudizio liberali- solo perché da loro non vengono minimamente rispettati i diritti delle donne o perché c’è una concezione dell’Islam troppo radicale? Chiaramente no; con essi si chiude volentieri più di un occhio. Ed in alcuni di quei Paesi la consuetudine sociale –frutto di un’imposizione culturale reazionaria ampiamente interiorizzata- di indossare il niqab (il lungo vero nero che lascia scoperti solamente gli occhi, una sorta di burqa leggermente più moderato) non sembra destare particolare scalpore. Anzi, addirittura alla più importante e servizievole dittatura del Golfo, Riyadh, si vende armi occidentali usate per troncare con la violenza il futuro alle migliaia di bambini in Yemen che quotidianamente stanno morendo per cause legate alla guerra. Secondo l’Unicef, al giorno d’oggi in Yemen è in atto la più grave crisi umanitaria globale (https://www.unicef.org/emergencies/yemen-crisis).
Però noi europei e gli statunitensi, presi dal nostro liberale ed affettato perbenismo occidentalocentrico, necessariamente consideriamo il Presidente siriano Bashar Al-Assad (per riportare l’esempio più emblematico al riguardo) come un nemico ontologico da abbattere (nonostante, in Siria, i diritti delle donne –ad esempio- siano oggettivamente molto più tutelati rispetto alla maggior parte dei Paesi nella regione, a partire da quelli del Golfo). Questo perché, la semplicistica ed interessata propaganda capitalistica – come da consuetudine- si nutre delle sue feroci campagne di demonizzazione mediatica contro ogni suo nemico a livello geopolitico. Il governo di Gheddafi può essere un altro esempio, ma evidentemente a noi occidentali farebbe più piacere vedere una Siria nel caos (a mo’ di Libia-bis), solo per poter provare la puerile e boriosa sensazione di gongolarci nella propria affettata vanagloria, che sovente scarseggia di reali connessioni con la realtà e di fattibili prospettive politiche a lungo termine.
Di là dai sopramenzionati interessi geopolitici in chiave antisovietica durante la Guerra Fredda e di là dai presenti e presumibili interessi di carattere economico che la terra afgana può attualmente rappresentare per le superpotenze a livello globale (patrimonio minerario fondamentale per i futuri sviluppi della contesa tecnologica già in atto) ciò che qui preme sottolineare è che, a distanza di 20 anni dall’inizio dell’invasione statunitense, la gente è ormai esasperata dalla guerra. Gli afgani, evidentemente, sono stanchi di essere pedine di giochi di potere più grandi di loro, se molti tra di essi si sono infine rivolti a dei fanatici religiosi pur di liberarsi dall’oppressione straniera (una sorta di antiimperialismo contemporaneo, ma con impietosi e retrogradi connotati di stampo medievale e per questo molto sui generis ed ontologicamente contradittorio). Gli ultimi eventi sembrano confermare questa triste realtà, tanto più se si pensa alla velocità con la quale l’esercito regolare afgano si è sciolto come burro di fronte all’avanzata dei talebani. Un po’come il caso dell’Iran e della sua rivoluzione islamica antiimperialista ed anti-Reza Pahlavi (l’ultimo shah persiano) del 1979 in questo senso, se uno ci riflette sopra; dal quale i talebani, però, differiscono per la confessione religiosa: sciiti i primi, sunniti i secondi; il loro rapporto con il vicino Iran, non a caso, sarà un elemento chiave da tenere in considerazione in quella regione.
D’altronde, come biasimare gli afgani: l’alternativa all’occidentale gliela abbiamo offerta proprio noi a suon di bombe e di indiscriminate uccisioni di innocenti e si è infine tramutata in orrifico caos composto di aerei militari stracolmi di gente terrorizzata e nella fuga di un Presidente dimostratosi incapace, inefficiente e corrotto; che oltretutto si è presumibilmente dato alla fuga insieme a molti dei suoi illeciti proventi in denaro. Alla luce di tutte queste considerazioni, a livello geopolitico ora l’atteggiamento della Russia diventa di colpo molto più rilevante; ma è il ruolo della Cina che si dimostrerà centrale: per Pechino un Paese come l’Afghanistan, in prospettiva, potrebbe rappresentare un futuro tassello molto importante da poter finalmente tenere in considerazione nell’implementazione della sua nuova “Via della Seta”.
Per questo, in base alle prime indiscrezioni, la Cina sembrerebbe essere avviata verso il riconoscimento internazionale del nuovo governo; cosa che di primo acchito rappresenta una novità assoluta ed una manifesta antitesi da un punto di vista meramente ideologico. Ma, come noto, gli interessi geopolitici -spesso- sono predominanti: per Pechino, infatti, il fattore più importante è la stabilità, soprattutto dopo venti anni di guerra e di soprusi stranieri e soprattutto perché in tal modo i cinesi potranno iniziare a fare affari in maniera più regolare e meno problematica in quella regione. Posizione non molto condivisibile, magari; però certo molto più diplomatica e meno aggressiva rispetto alle bombe “democratiche” occidentali. In fin dei conti, è da qualche decennio ormai che la Cina sta dimostrando che esportare il Socialismo al di fuori dei propri confini non rappresenta in alcun modo una sua priorità (al contrario di quanto avvenuto con l’Unione Sovietica per esempio). Ciò che importa a Pechino, in ultima analisi, sono dei governi tendenzialmente stabili con cui fare affari. La domanda è: riuscirà a dimostrarsi un governo stabile quello talebano?
La risposta è molto difficile: un’altra guerra civile sarebbe una continuazione del peggior scenario possibile, un iper-drammatico quadro politico che da così tanti anni sta dissanguando il popolo afgano. D’altra parte, purtroppo, la condizione delle donne sarà presumibilmente incentrata di nuovo su un raccapricciante tessuto sociale di stampo medievale, latore di tendenze esistenziali antistoriche che il secolarismo di tutti quei Partiti comunisti una volta fiorenti in quell’area ha –oggettivamente- cercato di estirpare. Un ulteriore spunto di riflessione questo ultimo elemento, a confutazione di come, in realtà, la sfera religiosa islamica in sé e gli ideali socialisteggianti e progressisti non siano sempre stati inevitabilmente in contraddizione e numerose esperienze storiche lo dimostrano. Ci sono, infatti, illustri esempi che possono essere tratti sia tra i Paesi musulmani arabi, sia tra quelli musulmani non arabi; della seconda categoria si può menzionare il Partito Comunista Iraniano, il Tudeh, ed il Partito Comunista Indonesiano, terzo Partito comunista più numeroso al mondo dopo quello sovietico e cinese, i quali giocarono un ruolo fondamentale nelle logiche storiche della Guerra Fredda. Non a caso, in seguito al colpo di stato di Suharto (1965) ai danni del primo Presidente dell’Indonesia indipendente Sukarno -con l’usuale avallo ideologico di Washington, la cui entità del suo diretto coinvolgimento non è mai stata del tutto chiarita- il Partito Comunista Indonesiano veno reso illegale ed i suoi membri – e presunti simpatizzanti- vennero letteralmente decimati. Fu così che, di lì a breve, una tra le più brutali e massicce uccisioni collettive del secolo scorso si materializzò e, ancora una volta, per ragioni riconducibili agli inflessibili schemi della Guerra Fredda ed in funzione anticomunista; e a pagarne le spese –nuovamente- è stato il secolarismo, come nel caso dell’Afghanistan; regione in cui, tuttavia, la situazione si è ulteriormente e progressivamente deteriorata nel corso del tempo fino ad andare fuori controllo.
Di certo, l’ultimo assai controverso espediente dell’amministrazione Biden di congelare le riserve della banca afgana non aiuterà granché a migliorare la situazione generale; piuttosto sembra il “canto del cigno” di una superpotenza aggressiva in profondo affanno, che tuttavia nei momenti di maggiore difficoltà diventa ancora più rancorosa e pericolosa. Dopotutto, siamo -purtroppo- ormai abituati alla discutibile consuetudine washingtoniana di tentare di affamare i popoli stranieri attraverso sanzioni unilaterali dalla dubbia moralità; perché a pagarne inevitabilmente le conseguenze peggiori sono sempre e soprattutto i più poveri ed i più fragili strati della società; proprio a partire dalle donne in questo caso, non certo la leadership talebana in primis. Ai posteri l’ardua sentenza.
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