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Postdemocrazia e crisi d’identità politica


31 Ago , 2021|
| 2021 | Visioni

Le rappresentazioni del postdemocratico pervadono l’immaginario dell’elettore occidentale sempre più in balia dei sondaggi d’opinione, dei talk shows politici e dell’eccesso di informazione che divide l’informazione ufficiale dalla contro-informazione che risultano, però, unite dai rapsodici tentativi di ricostruire un’immagine della realtà che vada a calzarsi con la fazione di appartenenza. Tuttavia, le appartenenze in una realtà come quella odierna, sempre più frammentata, disorganica e fluida (nel senso in cui veniva inteso da Bauman), risultano facilmente manipolabili dai media che offrono una lente d’ingrandimento concentrata su particolari legati ad esperienze e fenomeni contingenti sui cui organizzare le correnti d’opinione in cui verrà diviso il pubblico. Un pubblico che, in una realtà performante e composta da immagini istantanee, fatica a star dietro a questo turbinio scomposto e che vive rincorrendo la notizia o l’immagine più “performativa” da esibire sui social network indipendentemente dalla qualità contenutistica di ciò che viene esposto. La postdemocrazia descritta dal politologo Colin Crouch, dunque, non è solamente una liberaldemocrazia che presenta all’elettore/consumatore delle scelte preconfezionate, dei pacchetti commerciali di soddisfazione di esigenze minimali, è anche superamento della discussione democratica nel senso autentico in favore di surrogati virtuali in cui, come direbbe Carmelo Bene, si sciorina un opinionismo casalingo, vanitoso e arrogante[1]. L’inseguimento della piazza (i social) e l’assenza di strutture solide, unitarie e disciplinate da sistemi di pensiero in grado di offrire gli schemi concettuali d’interpretazione della realtà vivente, lasciano il campo libero a situazioni politiche a carattere prepartitico analoghe alle consorterie ottocentesche che anticiparono la nascita della Federazione italiana dell’associazione internazionale dei lavoratori che, di fatto, può essere considerata il primo partito politico in senso assoluto. Se si osserva la realtà contemporanea, la postdemocrazia può essere considerata a pieno titolo il terreno fertile della crisi d’identità politica dell’elettore/consumatore a cui vengono presentate le scelte indifferenziate dei partiti neoliberali la cui “duttilità” è elemento statutario di identificazione: Laura Agea, Sottosegretario di Stato agli affari europei, ha definito il M5S la più grande forza post-ideologica d’Europa, mentre il PD rimane saldamente ancorato alla costruzione neoliberale del discorso politico, rinunciando all’articolazione di un pensiero anche solo vagamente socialdemocratico. L’identità politica, un tempo definita da postulati ideologici che consentivano di distinguere l’anarco-collettivismo di Bakunin, dall’anarco-individualismo di Stirner, o ancora, il marxismo-leninismo dal socialismo utopistico, è plasmata quotidianamente dalle ancelle del pensiero unico globalista che, però a differenza dei suoi oppositori, ha una capacità di anticipazione e di adattamento lessicale e culturale che decostruisce ogni base del pensiero critico sostituendolo con etichette vuote, elettivamente assegnate a scopo denigratorio o derisorio (ad es.: No vax, sovranista, ecc.).

La pandemia di COVID-19 ha fortemente inasprito il dibattito pubblico trasformandolo di recente in una pseudo-contesa virtuale tra le fazioni dei vaccinati ligi al dovere e automaticamente (ed erroneamente) assimilati al pensiero di regime e le fazioni dei non vaccinati che vengono denigrate con piglio moralistico e sufficienza indotta. Ciononostante, entrambe le posizioni sono un prodotto esacerbato dai flussi di informazione e controinformazione dando luogo a conflitti orizzontali e contrapposizioni apodittiche che hanno un’enorme funzione diversiva rispetto alle questioni legate al momento attuale di ristrutturazione capitalistica e alla conseguente trasformazione dei rapporti di produzione in senso regressivo per il mondo del lavoro. Un esempio lampante di questo cambiamento retrivo si ha nella digitalizzazione prevista dal PNRR la cui agenda esibisce come obiettivo la trasformazione tecnologica dei processi produttivi e che nei fatti deforma i rapporti di forza garantendo profitti, abbattimento dei costi fissi di produzione e armi di ricatto sociale nei confronti dei lavoratori. Infatti, se da una parte la digitalizzazione e l’implementazione dello “smart working” conducono all’erogazione di plusvalore e di lavoro gratuito da parte dei dipendenti in considerazione dell’assenza di un concreto diritto alla disconnessione, dall’altra lo strumento del “Green Pass” può aprire scenari ritorsivi da parte datoriale con le minacce di demansionamento, licenziamento, sospensione della retribuzione, acuendo lo sbilanciamento di un rapporto di forza già pesantemente condizionato dalle riforme del mercato del lavoro degli ultimi anni in cui si è assistito a un vero e proprio attacco alle ultime tutele per la difesa del lavoro (vedasi la disciplina della reintegra dopo il Jobs act). Nonostante ciò, al di là delle significative eccezioni d’oltralpe rappresentate da “France Insoumise”, “Lutte Ouvrière”, “Partito Comunista Francese” e il sindacato intercategoriale “CGT”, e di “Patria socialista” e talune formazioni antifasciste italiane[2] che mettono in evidenza la necessità di investimenti pubblici nella sanità territoriale oltre che l’universalità e la gratuità della prestazione sanitaria, l’arena politica in Italia è ampiamente egemonizzata da forze reazionarie che, approfittando dello spaesamento e del disorientamento ideologico in cui versa il Paese e della difficile soluzione di equilibrio tra le libertà fondamentali e i doveri di solidarietà sociale sanciti costituzionalmente, cavalca l’onda della protesta contro il “Green Pass” esprimendo un’idea di libertà vaga, astratta e di conseguenza depotenziata del suo valore sociale che, nella sua definizione comunitaria e socialista assume i connotati di un termine di relazione. Karl Marx sosteneva infatti: “Solo nella comunità [Gemeinschaft] con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa possibile la libertà personale”. Là dove sarebbe interessante analizzare l’illegittimità costituzionale dei trattamenti differenziati e dell’incentivo surrettizio alla vaccinazione (in assenza di una legge che disponga l’obbligatorietà), là dove si dovrebbe richiedere la sospensione o revoca dei diritti brevettuali sui vaccini in commercio per garantirne la produzione a favore dei Paesi più poveri, una certa critica esagitata da discutibili “influencer” virtuali preferisce additare i vaccinati come valletti fedeli al “regime” o preferisce esibire le differenze di trattamento tra immigrati e soggetti muniti di Green Pass ai fini della mobilità, banalizzando in modo sensazionalistico e puerile la questione delle libertà fondamentali e generando fratture sociali e antropologiche nella comunità.  

La pandemia ha fortemente evidenziato tutte le lacune e le approssimazioni di cui soffrono altresì i movimenti di opposizione alla globalizzazione neoliberista che, in modo del tutto inconscio, riproducono le premesse strutturali su cui si fonda l’organizzazione dei rapporti umani nell’ambito di una società liquida. Le caratteristiche a-sociali del neoliberismo e le identità politiche fluide sono elementi che accelerano il processo di crisi di appartenenza che, a ben vedere, risulta ben più grave delle ingenuità tattiche e ideologiche dei movimenti protosocialisti dell’ottocento cui spesso si fa riferimento in modo comparativo per identificare l’attuale processo di destrutturazione del senso comune socialdemocratico. In effetti, al di là dei giudizi ingenerosi e polemicamente incontinenti di Marx ed Engels sulla composizione italiana della Prima Internazionale, l’internazionalismo Italiano ha dato un contributo fondamentale alla crescita di una coscienza popolare e di classe e, dunque, alla progressiva radicalizzazione del discorso politico nella cornice dello Stato liberale. Nell’attuale costellazione “social-sovranista”, invece, l’assenza di una cornice ideologica dai connotati inequivoci, l’idealizzazione dello scopo di fase come fine ultimo dell’azione politica, l’assenza di una disciplina interna che coordini le azioni territoriali, l’incapacità di dare una direzione intellettuale allo spontaneismo di piazza e l’eccesso di zelo nell’inseguimento mediatico del pubblico di riferimento, sono elementi che impediscono la realizzazione di una soggettività politica (popolare e di classe) dai tratti ben distinti in grado di fornire un indirizzo univoco alla disciplina giuridica dei rapporti sociali ed economici radicalmente contrapposta alla sovranità neoliberale. La crisi d’identità politica nella società post-moderna è uno degli avversari più temibili del socialismo del XXI secolo che dovrà fare i conti con la frammentarietà dello scenario contemporaneo contraddistinto sempre più da identità fluide e capaci di adattarsi alle esigenze eterodirette da analisti di mercato ed esperti di tecniche di persuasione che presentano le alternative politiche alla stregua di articoli di consumo. Come osserva acutamente Christopher Lasch: “La tecnologia diventa così un efficace strumento di controllo sociale – nel caso dei mass media, cortocircuitando il processo elettorale attraverso i sondaggi che contribuiscono a formare l’opinione pubblica invece di limitarsi a registrarla; riservando agli stessi media il diritto di scegliere i leader politici e i loro portavoce, e presentando la scelta di leader e di partiti come una scelta fra diversi beni di consumo”.[3]

Il rischio summenzionato di approssimazione strategica e di avventurismo teso alla ricerca del “divo” a cui affibbiare la funzione di testa di sbarco per lo scardinamento della narrazione mainstream, può condurre alla rincorsa all’appuntamento elettorale ai fini di un successo nel breve/medio periodo, ma non è trascurabile che il non aver assegnato la priorità alla definizione dei principi determina un profluvio di personalismi e la disattenzione metodica verso il “contenuto” e i nuovi simboli di identificazione popolare e neosocialista può dar luogo al più a smanie di diversismo incapaci di costruire un senso comune. Il compito del socialismo del XXI secolo è di costruire un’appartenenza che vada oltre la semplice aggregazione eterogenea su scopi misurati nel breve termine e che respinga, qualora sia necessario, la definizione di frontiere di competizione politica sui temi mediaticamente in voga, perché solo presentandosi come “un’utopia attiva” (prendendo in prestito un’espressione di Bauman) in grado di produrre senso scientifico e solidità di pensiero (e non liquidità) che si può costruire un nuovo senso comune e l’identità democratica di un popolo.


[1] https://www.youtube.com/watch?v=tjB4zX066yQ

[2] https://www.wumingfoundation.com/giap/2021/08/kit-antifascista-contro-green-pass/?fbclid=IwAR3XHwKrFk07OlRkiWoiaXK7FZ4y0Xk6_NSKt_xSv5WJIJLY_53JR17F9o8

[3] Christopher Lasch, “L’io minimo – La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti”, cit., p. 15

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