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L’alterità: com’è possibile stare con gli altri?
Il lupo della steppa di Hermann Hesse
Perché rileggere oggi Il lupo della steppa? Diciamo subito che il percorso esistenziale di Hermann Hesse è stato piuttosto travagliato. Ha vissuto un periodo di grandi cambiamenti, tra cui, il passaggio di secolo dall’Ottocento al Novecento, esattamente il passaggio dal moderno al contemporaneo, ovvero il momento in cui si spaccava l’unità dell’individuo, la certezza della coscienza. A livello filosofico i tre grandi maestri del sospetto Nietzsche, Marx e Freud hanno infranto questa presunta unità dell’individuo. A livello storico-politico si frantumava l’unità del concetto di potere: gli imperi, i regni. Si andava verso la Prima Guerra Mondiale, che Hesse ha vissuto. La sua inquietudine era di certo un travaglio interiore, aveva a che fare con un sentimento di non appartenenza rispetto al proprio tempo e allo spirito del proprio tempo, ma era anche il riflesso dei cambiamenti del mondo. L’autore intravedeva nella violenza della contemporaneità un ritorno al Medioevo rispetto ai grandi ideali illuministici che avevano contraddistinto la modernità. Hesse crea un alter ego, Harry Haller, in un parallelismo perfetto con l’autore, sembra quasi un’autofiction ante litteram. Chi è Harry Haller? Un solitario, un suicida – anche se nel corso del romanzo non si ucciderà – è interessante capire cosa Hermann intenda con suicida.
Il suicida (Harry era uno di questi) non occorre che abbia uno stretto rapporto con la morte: lo si può avere anche senza essere suicidi. Ma il suicida ha questo di caratteristico: egli sente il suo io, indifferente se a ragione o a torto, come un germe della natura particolarmente pericoloso, ambiguo e minacciato, si reputa sempre molto esposto e in pericolo, come stesse sopra una punta di roccia sottilissima dove basta una piccola spinta esterna o una minima debolezza interna per farlo precipitare nel vuoto. Di questa sorta di uomini si può dire che il suicidio è per loro la qualità di morte più probabile, per lo meno nella loro immaginazione.
(Hermann Hesse Il lupo della steppa Oscar Mondadori 1946 p. XI)
Il lupo della steppa è un romanzo filosofico. È diviso in quattro parti: Prefazione del curatore, Memorie di Harry Haller – Soltanto per pazzi, Il lupo della steppa – Dissertazione, e senza nome va il resto delle memorie di Harry Haller, che è poi l’intera vicenda narrativa. Si tratta di una costruzione per certi versi metanarrativa. La prefazione non è una vera prefazione, ma la vicenda narrata da un punto di vista esterno. A introdurre la vicenda è il nipote della padrona di casa di Harry che, incuriosito e inquietato, lo descrive minuziosamente nei suoi modi scontrosi e burberi e – mediante uno dei più nobili e classici escamotage narrativi – commenta il libro di memorie che Haller ha lasciato prima di andarsene e da cui partirà la narrazione.
Questo libro contiene le memorie lasciate da quell’uomo che, con una espressione usata sovente da lui stesso, chiamavamo il “lupo della steppa”. Non stiamo a discutere se il suo manoscritto abbia bisogno di una prefazione introduttiva; io in ogni caso sento il bisogno di aggiungere ai fogli del Lupo della steppa alcune pagine dove tenterò di segnare i ricordi che ho di lui. È poca cosa quello che so, e specialmente il suo passato e la sua origine mi sono ignoti. Tuttavia ho avuto dalla sua persona un’impressione forte e, devo dire, nonostante tutto, simpatica.
Il lupo della steppa era un uomo di circa cinquant’anni che un giorno, alcuni anni orsono, si presentò in casa di mia zia a chiedere una camera ammobiliata. Prese la mansarda lassù sotto il tetto e la cameretta attigua, ritornò dopo qualche giorno con due valigie e una grande cassa di libri e abitò in casa nostra per nove o dieci mesi.
(Hermann Hesse Il lupo della steppa Oscar Mondadori 1946 p. 57)
Dalla descrizione del padrone di casa – personaggio che non tornerà più nella vicenda – abbiamo un ritratto di Harry: è un grande lettore, è anche uno scrittore – dal momento che chi parla ha scritto una prefazione a un suo manoscritto – è uno che tiene più ai libri che ai vestiti o agli oggetti preziosi, è una persona che non passa inosservata, certamente una persona per bene, ma non comune. Nelle sue Memorie Haller alterna momenti in cui descrive l’andamento delle sue giornate, fino alla notte in cui per la prima volta vide l’insegna del Teatro magico: non per tutti soltanto per pazzi, a momenti in cui si presenta e si racconta. Ci racconta i suoi drammi, le sue nevrosi, le sue idiosincrasie, i suoi ricordi. In lui convivono due nature sempre in lotta tra loro, quella dell’uomo borghese e ben educato, gentile e affabile, e quella del lupo della steppa, un burbero solitario, eroico e suicida, che disprezza il mondo, il conformismo e la borghesia, di cui pure fa parte. Queste due nature sono proprie all’intellettuale Harry Haller, allo stesso tempo fervido pacifista e inguaribile nichilista. Le due nature lottano ferocemente: l’uomo vorrebbe uccidere il lupo e avere una vita normale, non priva di affetti e sentimenti. Il lupo disprezza l’uomo, i suoi desideri borghesi, la sua incapacità a essere un eroe. Il momento in cui vede per la prima volta l’insegna del teatro magico introduce la possibilità d’ingresso in un altro piano di realtà con un dettaglio di sfasamento della memoria.
Ed ecco al di là della strada, nel buio il vecchio muro grigio che osservavo sempre con piacere: era sempre lì, antico e impassibile, fra una chiesetta e un antico ospedale, e di giorno posavo volentieri il mio sguardo sulla superficie ruvida; c’erano poche superfici così buone e silenziose nel centro della città dove su ogni mezzo metro quadrato un negozio, un avvocato, un inventore, un medico, un parrucchiere o un callista ti gridava in faccia il proprio nome. Anche ora rividi il vecchio muro tranquillo e pacifico, eppure c’era qualche cosa di mutato: nel mezzo del muro notai un piccolo portale elegante, a sesto acuto, e rimasi sconcertato poiché non capivo se il portale c’era sempre stato o se era una cosa nuova.» Qui Harry vede un’insegna luminosa che descrive minuziosamente, e poi, 24 righe dopo: «Colui che in tal modo pretendeva di far quattrini, non era certo una persona capace, era un lupo della steppa, un povero diavolo; perché faceva danzare le sue lettere su questo muro nella straducola più buia della città vecchia, a quell’ora, con la pioggia, quando non ci passava nessuno, e perché erano così fuggevoli, quelle lettere, così soffiate, capricciose e illeggibili? Però, ecco, mi riuscì di afferrare alcune parole in fila. Diceva:
Teatro magico
Ingresso libero non a tutti
…non a tutti
(Hermann Hesse Il lupo della steppa Oscar Mondadori 1946 p. 88)
Nella terza parte Harry comincia a leggere uno strano opuscolo che gli viene consegnato dal titolo Il lupo della steppa: Dissertazione. Qui ritrova per filo e per segno la descrizione di ciò che lui è – o crede di essere, e la vicenda si sposta su un piano onirico. Il passaggio all’onirico avviene con la visione dell’insegna, e avrà pieno svolgimento all’interno del Teatro Magico.
Ma con questa virtù erano anche strettamente collegate le sue sofferenze e la sua sorte. Capitò a lui ciò che capita a tutti: quel che cercava con ostinazione per l’intimo bisogno della sua natura egli lo raggiunse, ma più di quanto sia bene per l’uomo. Ciò che da principio fu il suo sogno di felicità, divenne in seguito il suo amaro destino. L’uomo avido di potere incontra la sua rovina nel potere, l’uomo bramoso di denaro nel denaro, il sottomesso nella servitù, il gaudente nel piacere. E così il lupo della steppa si rovinò con l’indipendenza. La meta egli la raggiunse e divenne sempre più indipendente, nessuno gli comandava, non era costretto a seguire nessuno e decideva liberamente delle sue azioni e omissioni. Ogni uomo forte infatti raggiunge immancabilmente ciò che il suo vero istinto gli ordina di volere. Ma raggiunta la libertà Harry s’accorse a un tratto che la sua libertà era morte, che era solo, che il mondo lo lasciava paurosamente in pace, che gli uomini non lo riguardavano più né lui riguardava se stesso, che soffocava lentamente in un’aria sempre più rarefatta senza relazioni e senza compagnia.
(Hermann Hesse Il lupo della steppa Oscar Mondadori 1946 p. IX-X)
Nella quarta parte del romanzo, dopo la lettura dell’opuscolo, Harry cambia atteggiamento, prova a sfuggire alla propria sorte da suicida. Esce, trova un luogo in cui bere e incontra Erminia – anche qui abbiamo un’omonimia con l’autore – una donna apparentemente frivola e incolta, che non conosce Goethe, Novalis o Baudelaire, ma sa leggere l’animo di Harry meglio di chiunque altro, è per certi versi uno specchio. Erminia vuole che lui s’innamori di lei e la uccida. Ma per farlo, prima dovrà riportarlo nel mondo, riportarlo tra le gioie immature della mondanità, attraverso gli altri due personaggi della storia: il saxofonista Pablo e la cortigiana Maria. Erminia sarà la sua guida in questa catabasi in cui Harry conoscerà i piaceri della carne, la droga, la musica jazz, i locali affollati e, in ultimo, il teatro magico, in cui per entrare bisogna abbandonare la propria personalità e il prezzo d’ingresso è il cervello.
E così a tarda notte andai a finire in un sobborgo lontano che conoscevo poco, in una trattoria dalle cui finestre uscivano violente musiche da ballo. All’atto di entrare vidi una vecchia insegna sopra la porta: “All’Aquila nera”. C’era una festa da ballo, una gran folla di gente rumorosa e fumo e odor di vino e grida, nella sala infondo si ballava e di là veniva quella musica impetuosa. Rimasi nella prima saletta dove c’erano soltanto persone modeste, in parte vestite poveramente, mentre nella sala da ballo si scorgevano anche figure eleganti. Spinto dalla calca mi trovai vicino al banco, vicino a una bella ragazza pallida seduta presso la parete, vestita di un abitino da ballo leggero e molto scollato, un fiore appassito nei capelli. La fanciulla vedendomi arrivare mi guardò attentamente e affabilmente e spostandosi un po’ mi fece posto sul sedile.
“Permesso?” domandai sedendomi accanto a lei.
“Certo” disse “Chi sei?”
“Grazie” risposi “non posso assolutamente andare a casa, proprio non posso, rimarrò qui con lei, se permette. No, no, a casa non ci posso andare.”
Ella chinò la fronte come se avesse compreso, e in quella osservai la ciocca di capelli che dalla tempia le scendeva davanti all’orecchia e vidi che quel fiore avvizzito era una camelia. Di laggiù squillava la musica, al banco le cameriere affaccendate gridavano le ordinazioni.
“Resta pur qui” mi disse con un tono che mi fece bene. “Perché non puoi ritornare a casa?”
“Non posso. A casa mi aspetta una cosa… no, no, non posso. È troppo spaventevole.”
“E allora falla aspettare e resta qui. Su, dammi gli occhiali che te li pulisco. Così non puoi neanche vedere. Bravo, dammi il fazzoletto. Che cosa beviamo? Borgogna?”.
(Hermann Hesse Il lupo della steppa Oscar Mondadori 1946 pp. 122-123)
Erminia è l’alter di Harry, che è a sua volta l’alter di Hesse, e qui l’autofiction incontra la psicoanalisi. Harry si aggrapperà a Erminia come all’unico motivo per cui restare in vita, ma lei non vuole altro che mostrargli la strada verso la libertà. È un romanzo filosofico, anzi forse è il romanzo filosofico per eccellenza. La vicenda narrativa si concentra quasi esclusivamente nella quarta parte del libro, per il resto è un monologo di Harry. Il monologo interiore iniziale lunghissimo fa pensare per certi versi al monologo dostoevskijano di Memorie dal Sottosuolo. In entrambi i libri c’è un personaggio che non si piace, che non si piace nel suo rapporto con il mondo esterno, ma che per altri versi si stima superiore ai più. In entrambi i libri al centro del monologo è un’interiorità specchio del mondo. Nel Lupo della steppa c’è una grande diatriba tra due mondi, come in tutti i romanzi di Hesse: un mondo sicuro e borghese, ma anche mediocre e privo di slancio, morente; e il mondo eroico e abissale dei lupi, fatto di grandi solitudini e tentazioni suicide. Il testo è pervaso da una ben precisa corrente filosofica del Novecento: Nietzsche, Schopenhauer, e una visione protestante dell’induismo. È forse più che un romanzo filosofico, un romanzo iniziatico. Il tema centrale è il tentativo spirituale di dissolvere l’io nel molteplice. Tentativo che non si compie mai del tutto perché Harry prende la vita troppo sul serio. È per questa sua grande serietà che, intrappolato nell’illusione dell’identità, preferirebbe il suicidio all’estasi. In questa malinconica incapacità di ridere si cela anche l’altra grande carenza di Harry Haller: l’incapacità di stare con gli altri, il sentimento della propria inferiorità, l’annullamento avviene sul piano dell’autodenigrazione, Harry perde ogni misura, stimandosi sempre o inferiore o superiore al prossimo, mai suo pari. E vive la feroce lotta tra sé e il prossimo, tra la sensualità e lo spirito, tra la mondanità e il sacrificio, tra la sensibilità e la ragione. Così il suo antagonista, Pablo – che è tutto quel che lui non riesce a essere – nel teatro magico gli darà l’ultimo grande insegnamento.
“Siamo disse sorridendo “nel mio teatro magico e se tu volessi imparare il tango o diventar generale o conversare con Alessandro Magno, potrai farlo senz’altro la prossima volta. Ma devo dire, Harry, che un pochino mi hai deluso. Hai dimenticato te stesso, hai sciupato l’umorismo del mio teatrino e hai combinato una cattiva azione: hai usato il pugnale e insudiciato con macchie di realtà il nostro bel mondo immaginifico. Hai fatto male. Speriamo almeno tu abbia agito per gelosia, quando hai trovato Erminia e me. Purtroppo non hai saputo comportarti a dovere di fronte a questa visione: credevo che tu avessi imparato meglio il giuoco. Ma si può sempre rimediare.
(Hermann Hesse Il lupo della steppa Oscar Mondadori 1946 pp. 179-180)
Nel corso della narrazione il tema della ricerca e della perdita di sé è costante ma, invece di trovarlo, Harry raggiunge il molteplice: un caleidoscopio di forme e rispecchiamenti. A partire da Erminia tutto per lui è in qualche modo speculare e ogni sua identità si perde nel tutto, si dissolve o cambia forma. L’insegnamento di Pablo è saper ridere delle proprie tragedie, trasformarle in libero gioco d’intelletto e immaginazione, farne arte. È così che ci avviamo alla scoperta dell’interiorità, procedendo attraverso il dolore, nel migliore dei casi persino con ironia.
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