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La Norvegia fra questione sociale e questione ambientale
Risultato elettorale ed effetto politico
Con le elezioni del 12 settembre l’intera area nordica è governata da socialdemocratici e, tranne che in Svezia, caratterizzata dalla vitalità dei partiti socialisti e post-comunisti. Pur con un’affluenza in calo (76,5% e -2,6). La coalizione che molto probabilmente governerà ad Oslo avrà al centro i Socialdemocratici del Ap, ma questi con il 26,4% e -1% registrano un risultato analogo a quello dei compagni svedesi nel 2018: negativo in sé, ma con incremento del vantaggio dal partito Destra, il maggiore rivale “borghese”, che con il 20,5 cala di oltre il 4%. Ci sarà anche il Senterpartiet, o Sp, formazione agraria non socialista ma molto redistributiva verso le autonomie locali. E ne faranno parte anche i Socialisti di Sinistra, o SV, in netto progresso: +1,4% al 7,5%. Questa probabile maggioranza rosso-verde sarebbe dotata di almeno 89-90 seggi su 169. Da rammentare anche altri dati: sotto la soglia di sbarramento (democristiani antiabortisti) o molto vicini ad essa (liberali di Venstre) sono altri partiti del centro destra. E un calo netto registra quello che è forse il primo soggetto nazional-populista europeo della nostra epoca: il Partito del Progresso (FrP 11,7 e -3,5%). Ottimo soprattutto il risultato della sinistra oltre la socialdemocrazia, non solo per l’avanzata di SV, ma perché anche i social-comunisti di Rødt (Rosso) raddoppiano i voti giungendo al 4,7% con ben 8 seggi. Molto deludente il risultato dei Verdi (MDG) che si pensava sarebbero avanzati nettamente, mentre rimangono sotto la soglia di sbarramento, ottenendo solo tre seggi perché vinti nei collegi locali. Questo dato, visto quanto la questione ambientale ha pervaso la campagna elettorale, è indicativo e ci torneremo. Intanto cerchiamo di sottolineare ciò che, seguendo il dibattito pre e post urne, pare dovere caratterizzare le prossime settimane e oltre. Il maggiore terreno in comune di Sp, Sv e Ap è l’inversione (vedremo quanto netta) di una lunga tendenza al ridimensionamento del modello sociale nordico. Cioè un programma per un mercato del lavoro più regolamentato, a favore del lavoro salariato, più risorse per la scuola pubblica e ingenti trasferimenti per lo sviluppo locale. Quest’ultimo è un aspetto cruciale specie della versione norvegese del sistema nordico: il territorio è enorme rispetto alla popolazione e caratterizzato da grande diversità, così che la quantità di istituzioni e servizi a disposizione di ogni singola comunità determina la differenza fra perifericità ed isolamento o emarginazione. Oggi molto del successo del Sp (+3,2% al 13,6%) è dovuto alla capacità di promuovere, dalla sua collocazione di centro alleato con la sinistra, la protesta contro gli accorpamenti di istituzioni locali perseguiti sia dal partito liberal-conservatore Destra sia dalla socialdemocrazia (in misura minore, ma con un elevato grado di contraddizione storica). Il leader Trygve Slagsvold Vedum, non a caso, ha ripetuto ossessivamente che “se il leader socialdemocratico Jonas Gahr Støre sarà primo ministro questo si dovrà a noi”. Nei negoziati si farà sentire. Non molto più morbidi saranno i Socialisti di Sinistra di SV, tipica forza della tradizione rosso-verde nordica, che lega ambiente e socialismo e spiega il successo limitato dei partiti ambientalisti in Scandinavia. SV, e ancora di più Rødt, sono poco disponibili ai compromessi per esempio riguardo al settore petrolifero, che sia nella fase di ricerca, sia in quella estrattiva, sia in quella della combustione è in contraddizione frontale con la radicale riduzione di CO2 essenziale all’equilibrio climatico. AP è addirittura favorevole a cercare ancora petrolio mentre SV è del tutto contro. Støre, ovvio primo ministro in pectore, dice che un’equazione verrà trovata, tanto più che, enfaticamente, ha dichiarato: “ho guardato negli occhi i miei nipoti e ho promesso di salvare il clima”. La destra nazional-populista del FrP, dal canto suo, continuerà ad essere il “partito del petrolio”, che deve “continuare a generare il nostro magnifico welfare”. È quindi evidente ed inevitabile: una forte dialettica investirà la democrazia norvegese, che oscilla fra la tentazione di un 50% dei giacimenti fossili ancora sotto il mare ed un avanzatissimo sistema di ricarica per le auto elettriche, ormai 1/7 del parco automobilistico.
Un nuovo regime di investimento
Ma da come i voti si distribuiscono fra le varie forze un messaggio appare chiaro: nessuna conversione verde si gioverà dell’egemonia, e dunque della celerità necessaria, senza rappresentare anche un regime di investimento votato a ribaltare l’avvilimento di lavoro e salario di questi decenni. Anche in uno dei paesi più risolti del pianeta sono nati in questi anni vitali movimenti di protesta: contadini per una migliore redditività dell’agricoltura; donne per il diritto a sale parto più prossime nel territorio; cittadini per una migliore assistenza e specie per migliori indennità sanitarie; inquilini per condizioni più favorevoli agli affittuari. In tutti questi casi la problematica redistributiva (o socio-economica) è in primo piano, ma affiora anche in un altro caso: il movimento contro i pedaggi automobilistici finalizzati a scoraggiare la mobilità privata. Il risultato elettorale norvegese rivela che la questione ambientale non vince se affidata agli incentivi individuali (che come dimostrato dai gilets gialli in Francia pesano diversamente a seconda delle classi sociali) e se oscura la questione redistributiva, senza produrre nuovo lavoro di qualità.
In Norvegia particolarmente centrale è il settore petrolifero (14% del Pil, 40% dell’export), specie considerando il suo letale impatto sulle climaticamente decisive regioni artiche. Ad esempio un termine alle estrazioni petrolifere norvegesi è uno dei punti di discussione, che la vicina Danimarca ha risolto fissando già la data finale di ogni estrazione al 2050. Ma in Norvegia i partiti maggiori (socialdemocrazia a sinistra e partito Destra nel polo opposto) sostengono ancora che occorre lasciare decidere all’evoluzione della domanda. Al contrario, le forze Rosso-verdi sono per programmare una data terminale certa e intanto la fine delle ricerche di giacimenti, adducendo fra l’altro che, esitando, la Norvegia si estranea dal ruolo di avanguardia ambientale degli altri nordici. Questo dibattito si è comunque, rispetto alle elezioni del 2017, molto intensificato e polarizzato poiché gli interessi capitalistici (ma anche operai: 200.000 persone lavorano nel settore) in questa area produttiva sono elevatissimi. Ormai nella campagna elettorale e nel dibattito in genere si parla sempre più apertamente non del se, ma di quale lavoro dovranno fare centinaia di migliaia di persone molto presto. Peraltro, in un paese orograficamente ostile e molto esteso come la Norvegia, con bassa densità abitativa, è esemplarmente decisivo un massiccio investimento in mobilità collettiva e pubblica, ben oltre, per fare un esempio, l’ancora pallido accenno del Fondo per la Ripresa europeo.
Per capirci ancora meglio, torniamo all’industria petrolifera in senso proprio: se lo Stato finanziasse nuove ricerche ed estrazioni mentre un (probabile) calo di domanda avesse luogo, ciò imporrebbe ai cittadini norvegesi ulteriore tassazione per fare fronte ai costi scoperti. Invece, l’enorme dotazione del fondo sovrano Oljefonden (12.000 miliardi di corone legati proprio all’export petrolifero) offrirebbe grandi potenziali di nuovo investimento verde. Occorrerà però che le ferree regolamentazioni cui il fondo è sottoposto vengano modificate. Attualmente il suo fine è accantonare risorse per sostenere il welfare specie pensionistico delle generazioni future, con la possibilità di investire solo il 3% della sua rendita, a meno che (come nella crisi del 2008/9 o nel Covid) non si presentino emergenze. Ora, il punto è precisamente quello di definire il mutamento climatico in atto come la maggiore emergenza immaginabile, impegnando risorse ingenti per esempio nell’estrazione di energia dal vento al largo delle coste. O, come vorrebbero i social-comunisti di Rødt, rafforzando la già ampia dotazione idroenergetica.
Il peso minore che, rispetto alla Norvegia, la produzione petrolifera esercita nell’economia danese ha permesso a quest’ultima di anticipare la svolta: prima producendo pale eoliche divenute un successo di esportazione ed ora (con l’attuale governo socialdemocratico) progettando le “energi øer”, ovvero la costruzione di intere isole-piattaforma al largo per sfruttare al massimo la forza del vento. Al contempo minimizzando gli attriti sociali che una presenza massiccia di torri eoliche causerebbe sulla terra ferma o in prossimità delle coste. Ormai l’argomento è al centro del dibattito, assieme alle tecniche di “cattura” (CCS: carbon capture and sequestration) di CO2, da riporre poi nelle sedi sotterranee di provenienza. Un lavoro gigantesco (sottrarre CO2 dall’ambiente anziché solo evitare di emetterne) su cui occorrerebbe puntare maggiormente se davvero il riscaldamento climatico va arrestato e magari fatto regredire. Anche perché nulla come il CCS (in sostanza un’attività mineraria “inversa”) confermerebbe che l’era verde non va concepita come un decadente destino “postindustriale”, ma come un vero e proprio nuovo modello di sviluppo. Le compagnie petrolifere norvegesi sarebbero già in grado di progettare gran parte di tutto questo. Ma non basta: nel dibattito si sono affacciati anche altri e ulteriori ritorni produttivi in sostituzione dell’estrazione fossile, come la pesca, cui deve però anche contribuire una precedente e poi parallela attività di sistematico ripopolamento e “coltivazione marina”. Ecco ancora il riflesso di nuovi lavori nella sostenibilità.
Anche da ciò il risultato notevole del Senterpartiet, organizzazione “verde” nel senso della grande tradizione agraria nordica, quella che storicamente negli anni 1930 le socialdemocrazie riuscirono a condurre dalla propria parte puntando su politiche che rafforzassero la domanda interna di produzione agricola in un commercio mondiale collassato. Oggi Sp ha convertito il proprio ruolo storico come partito dei distretti costieri, della pesca e delle aree interne neglette dagli accorpamenti comunali e dei servizi. Il messaggio elettorale è stato chiaro: la socialdemocrazia è primo partito, ma arretrando dell’1% rispetto al già mediocre risultato del 2017 è evidente che del mutamento i motori principali sono Socialisti di sinistra e Senterpartiet, con anche un messaggio evidente che giunge da Rødt (Rosso) soggetto radicale più di tutti impegnato nell’interconnettere mutamento verde e trasformazione del modello economico.
Nessun destino post-moderno
Il mediocre risultato degli ambientalisti “puri”, conferma invece che, sulla scena europea, essi sono tutt’altro che un nuovo “sole dell’avvenire” pronosticato da molti. In realtà solo nell’area austro-tedesca essi superano percentuali minime, ed anche qui (almeno dai sondaggi pre elettorali) entro dimensioni minori dell’atteso. Tenendo conto della pervasività della questione ambientale, del tentativo diffuso dei grandi media di trasformarla in una prova definitiva della “età post-classista”, e della continua riproposizione di politiche ambientali centrate sulla promozione di un individualismo “virtuoso”, i mediocri risultati dei Verdi autorizzano a riconcepire la svolta ambientale in modo assai meno “postmoderno”. Si conferma la funzione delle culture legate alla questione sociale, a patto che si liberino delle politiche che ne hanno fortemente ridotto la base popolare. Mentre la politica ambientale risulta egemonica se diviene un nuovo e intensificato regime di investimento, che ribalti il processo di pluridecennale indebolimento del salario. Il risultato norvegese sembra chiarire, ad ogni modo, che questa e non altra è la chance della socialdemocrazia, nonché di tutta la sinistra con radici nel movimento socialista e operaio.
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