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Lavoro per obiettivi e smart working: scusate per lo scetticismo


21 Set , 2021|
| 2021 | Visioni

Cosa rende la prassi un’abitudine? La ridondanza. E la ridondanza, nel campo della massificazione degli stimoli è intrinsecamente politica poiché richiede una matrice unitaria e coordinata almeno negli intenti (non facciamoci scrupoli a definire quanto meno “pilotata” la presunta libertà della stampa nostrana). Si può quindi affermare che, ad oggi, il feticcio informativo che possediamo sul tema “smart working” sia diventato a tutti gli effetti – per volontà di un organo deliberante e politicissimo – un’abitudine comunicativa, di stampo propagandistico.

Pertanto, proprio in virtù della sua ridondanza, il topos dello “smart working” ha iniziato a proporsi in modo sempre più martellante, veicolato da medium di volta in volta diversi. All’interno di questa narrazione, oltremodo idilliaca, un tema centrale è giocato dalla ridefinizione del tempo di lavoro: i sostenitori più ortodossi dello smart working sostengono che, per permette allo smart working di raggiungere il suo pieno potenziale – intendono il Nirvana dei lavoratori – occorre ridisegnare l’organizzazione del lavoro non solo, per dirlo secondo categorie kantiane, dal punto di vista dello spazio, ma anche del tempo. Addio orario di lavoro fisso, di 36 o 40 ore, ma orario flessibile, agile, acrobatico, multiuso (come le salviettine). Lo smart working per sublimarsi ha bisogno di un orario di lavoro che rispecchi la propria ideologia e la propria identità, che gli permetta di non snaturarsi.

La proposta è quella di abbandonare il canonico orario di lavoro fisso e abbracciare il cosiddetto “lavoro per obiettivi”. Gli ortodossi (sempre loro…) sostengono la superiorità incontrovertibile del metodo, per cui ogni lavoratore avrebbe, stando a non si sa quali dati in loro possesso, molto più tempo libero qualora l’orario di lavoro sparisse e si adottasse questa nuova modalità: finisci di lavorare al tuo obiettivo semestrale con un mese d’anticipo? Perfetto, puoi andare in vacanza per un mese, retribuito, senza vincoli. Che pacchia.

Vogliamo chiarire che l’obiettivo di questo breve articolo non è quello di criticare in toto la possibilità di adottare metodi alternativi di organizzazione del lavoro, come quello per obiettivi (già ampiamente realizzato nelle società di servizi), ma di soffermarsi sulle possibili criticità, scientemente e sistematicamente bypassate dai medium propagandistici, soprattutto se il metodo viene considerato non come un sistema complementare all’orario di lavoro, ma come suo sostituto.

Ricordiamo anzitutto, come canone introduttivo, che l’orario di lavoro non è una suppellettile, ma è uno strumento istituito per tutelare i lavoratori, un validissimo deterrente per i tentativi fraudolenti di sfruttamento delle capacità fisiche e/o intellettuali del dipendente. Pertanto, chi propone a cuor leggero e con atteggiamento gaio di abolire l’orario di lavoro, senza porsi troppi problemi, dovrebbe anzitutto rendersi conto della potenziale “bomba sociale” che questa scelta potrebbe generare.

Partiamo quindi da una prima, e più intuitiva, criticità potenziale: la distinzione tra obiettivi quantitativi e obiettivi qualitativi. Mettiamo il caso che, in un universo parallelo, sia già stato abolito l’orario di lavoro e la quantità di tempo che un lavoratore deve spendere sul posto di lavoro varia a seconda del raggiungimento dei propri obiettivi. Tizio è un addetto al packaging di un’azienda della filiera agroalimentare ed il suo obiettivo giornaliero è quello di verificare la qualità dell’impacchettamento di 1072 confezioni (il vero e proprio processo di impacchettamento è stato automatizzato). Ci troviamo davanti ad un obiettivo quantitativo, perfettamente misurabile e, per questo, oggettivo: non ci saranno quindi impedimenti, sarà facile stabilire il momento esatto in cui Tizio potrà lasciare la sua postazione e tornarsene a casa. Le problematiche nascono nel momento in cui vincoliamo il lavoro a obiettivi qualitativi, di per sé scarsamente misurabili e aperti a qualsiasi interpretazione da parte di un supervisore. Non sempre è facile stabilire se la qualità standard di un’attività sia stata raggiunta, soprattutto in ambito manageriale, dove la maggior parte delle attività sono ormai scarsamente collegate ad elementi fattuali, su cui potersi orientare. Inoltre, possiamo identificare un’ulteriore problematica, a monte della precedente, che riguarda le fonti degli obiettivi a prescindere dalla loro natura quali-quantitativa: se da un lato l’orario di lavoro è una regola universale, oggettiva, frazionabile in intuitive unità di misura e stabilita dal legislatore in modo centralizzato, l’assunzione degli obiettivi come riferimento aprirebbe ad un processo irreversibile di relativizzazione e decentralizzazione (in capo ai datori di lavoro) del criterio temporale stesso. Anche nell’evenienza più idonea, ovvero in presenza di obiettivi quantitativi, ci troveremmo nella situazione limite in cui due lavoratori, che svolgono identiche mansioni, debbano sostenere ritmi di lavoro totalmente diversi sulla base del volume produttivo del sito in cui operano. Per intenderci, riprendiamo l’esempio precedente: l’operaio di prima, per tornare a casa, deve verificare 1072 confezioni. C’è poi un altro operaio, di un’azienda concorrente o della medesima azienda (ma che opera in un sito produttivo diverso), il cui obiettivo è di verificarne 2300 al giorno. Il parametro è stabilito sulla base di una proporzione che considera i volumi di lavorazioni quotidiane. Notate nulla? Esatto, è il far west. Dopotutto è questo che vogliono gli ortodossi, la totale deregolamentazione.

In secondo luogo, dobbiamo occuparci di un vero e proprio mantra delle scuole di formazione per i futuri manager: la convinzione secondo cui gli obiettivi, per essere efficaci, devono essere sfidanti. Nessuno vuole negare la legittimità metodologica di questo assunto, permettere ad un dipendente di misurarsi con sfide quotidiane può motivarlo e aumentare la sua soddisfazione percepita. Allo stesso tempo, se consideriamo questo assunto in relazione al tema su cui stiamo discutendo, non possiamo che allarmarci. Se abolissimo l’orario di lavoro e le ferie, il tempo libero e le vacanze dei lavoratori sarebbero vincolate alle caratteristiche formali dell’obiettivo che devono perseguire. La natura iper-sfidante dell’obiettivo potrebbe portare ad una diminuzione sensibile – se non, nei casi più estremi, ad una scomparsa – del tempo libero del dipendente (che ricordiamo, è un diritto, non un accessorio appena menzionabile). Inoltre, un’altra caratteristica degli obiettivi sfidanti è quella di subire spesso variazioni in corso d’opera, che spesso dipendono da cause esogene e non rendono possibile una precisa quantificazione ex-ante della difficoltà dell’obiettivo stesso – e, conseguentemente, del tempo necessario per portarlo a termine.

Qualcuno potrebbe obiettare che, per mitigare il sistema, si potrebbero istituire dei giorni di ferie obbligatori, da fruire a prescindere dal raggiungimento degli obiettivi. Tuttavia, occorre sottolineare che questa soluzione finirebbe per cadere in antitesi con il paradigma del modello stesso. Ibridare il modello classico dell’organizzazione del lavoro con il modello di gestione per obiettivi rappresenta, in questo caso specifico, una contraddizione in termini: abbiamo due criteri contrapposti, inconciliabili e ibridarli significherebbe, in ogni caso, fare una scelta e identificarne uno prima facie che domina l’opposto. Facciamo un altro esempio: Caio deve iniziare obbligatoriamente a fruire dei suoi venti giorni di ferie, mentre Sempronio, manager di Caio, ha chiesto di avere una relazione importantissima che richiederà a Caio almeno una settimana di lavoro. Caio attende, da ormai due anni, una promozione che solo Sempronio può attribuirgli. Possiamo facilmente intuire cosa accadrà: Caio si dichiarerà in ferie, pur continuando a lavorare da casa per tutto il periodo delle (presunte) vacanze. Queste pratiche sono, per la verità, già ampiamente consolidate in molte realtà professionali; potrebbero tuttavia acuirsi, qualora fosse enfatizzata questa nuova etica del lavoro concentrata esclusivamente sulle performance: ad oggi è una pratica che l’opinione pubblica condanna con fermezza, ma con un cambio di paradigma cambierebbero anche le sensibilità e questa pratica potrebbe andare incontro, dal punto di vista dell’animus giuridico, ad un processo di normalizzazione.

Veniamo ora ad un ulteriore ostacolo, stavolta di natura pratica: i tempi di gestione, monitoraggio e rendicontazione degli obiettivi. Nelle realtà molto strutturate, dove tipicamente l’organizzazione è di tipo push, l’assegnazione degli obiettivi rientra in un più vasto processo di progettazione, programmazione e gestione delle attività aziendali, che non consente una grande elasticità dei sistemi di valutazione delle performance: il monitoraggio del raggiungimento degli obiettivi viene sistematizzato, diviso in fasi e calendarizzato in periodi molto precisi dell’anno. Ciò comporta la confutazione, per certe realtà aziendali, di uno dei principali cavalli di battaglia dei nostri amici ortodossi: quello secondo cui, se un lavoratore finisce con largo anticipo la mansione che gli è stata affidata, può considerarsi in vacanza retribuita. Torniamo al nostro esempio di prima: se Caio riuscisse a soddisfare un obiettivo semestrale in quattro mesi, allora gli spetterebbero due mesi di ferie pagate, da passare alle Bahamas, intento a grattarsi le dita. Premesso che nessun datore di lavoro (soprattutto quelli nostrani, alla perenne ricerca di soluzioni fantasiose per tagliare i costi) permetterebbe mai il cronicizzarsi di una simile dinamica, ciò sarebbe comunque infattibile, perché il sistema di monitoraggio non permette la verifica degli obiettivi al di fuori della fase prestabilita a monte. In altre parole, anche se Caio finisse il lavoro con due mesi d’anticipo, non potrebbe provarlo, perché il sistema di gestione degli obiettivi è rigido e prevede la verifica degli obiettivi, da parte dei vari stakeholders, del supervisore e dell’HR, solo in un dato periodo dell’anno.

Anche qui, qualcuno potrebbe obiettare che non tutte le aziende sono così, non tutte sono iper-strutturate e non tutte adottano una logica push nell’organizzazione del lavoro. Abbiamo aziende, come le società di consulenza, in cui la logica è strettamente pull, dipende quindi unicamente dai tempi e dalle istanze del cliente. In questo caso sorge comunque un’altra criticità, di natura stavolta semantica, perché il termine “raggiungimento” cambia radicalmente significato: nelle strategie pull il “raggiungimento” dell’obiettivo non coincide quasi mai con la semplice consegna del prodotto o del progetto al cliente. Anzi, in cliente richiederà azioni costanti di verifica, di follow-up, di collaudo e di correzione a valle della consegna. Certo, si potrebbe sempre convenire che l’obiettivo è formalmente raggiunto quando si consegna il progetto al cliente; ma questo precetto disattende la prima fondamentale regola della consulenza: il lavoro non termina con la consegna, ma quando il cliente è pienamente soddisfatto.

Un accenno, infine, lo meritano anche le criticità attorno al tema retributivo: come verrebbero retribuiti, in questa nuova prospettiva, i dipendenti? Nel modello attuale, come da prassi, i lavoratori vengono pagati ad ore, ma con l’abolizione dell’orario di lavoro verrebbe meno il criterio di quantificazione temporale. Come fare, dunque? Retribuire solo chi raggiunge gli obiettivi, annullando di fatto il salario fisso ed espandendo a dismisura le soluzioni variabili (MBO, Una Tantum ecc.)? In questo caso, è chiaro, i lavoratori non potrebbero difendersi, verrebbero condizionati esclusivamente dalla volontà del datore di lavoro – perché, va ricordato, chi valuta il raggiungimento degli obiettivi è il datore di lavoro stesso. E ancora: come farebbero i lavoratori a valutare ex-ante le varie proposte di lavoro, se la retribuzione è tanto fluida e incerta?

Fino a questo punto i discorsi sono stati impostati con un doveroso condizionale, ma se prestiamo attenzione all’ambiente circostante noteremo che questo modello, il modello del lavoro organizzato per obiettivi, non è un mito (falso o vero che sia), ma esiste, è in mezzo a noi: nelle già citate società di consulenza, come anche nei grandi studi legali. Avete mai sentito di un consulente di PWC, EY, Accenture (e compagnia…) uscito dall’ufficio alle 17.30? O di un praticante avvocato che ha lasciato il proprio socio a lavorare da solo, nel bel mezzo del pomeriggio? Non esiste, è fantascienza. In queste realtà, dove tuttavia sopravvive un vago e formale concetto di orario di lavoro, i ritmi sono già organizzati prevalentemente secondo il criterio degli obiettivi e della soddisfazione del cliente. Per avere quindi un assaggio di ciò che diventerebbe il lavoro dopo questa epocale innovazione, basta alzare lo sguardo, guardarsi intorno, andare dall’amico, dal cugino, dal conoscente che ha dedicato gli ultimi cinque anni della sua vita, anima e corpo, alla consulenza manageriale o alla carriera forense e chiedergli come si sentono. Se li vedete pallidi non vi spaventate: sono gli effetti dello sfruttamento.

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