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La trasformazione dei sistemi politici occidentali: dalla democrazia sociale alla restaurazione oligarchica
La fase attuale è caratterizzata da una questione economica che ci accompagna dal 2008 e che si apre di fronte ancora più gravosa: durante la pandemia un milione di posti di lavoro sono andati perduti nonostante il blocco dei licenziamenti, cui ha fatto séguito dopo lo sblocco una fase di chiusure e delocalizzazioni di fabbriche tutt’altro che conclusa. La veloce e triste fine della timida proposta del ministro Orlando sulle delocalizzazioni dimostra lo strapotere dei capitalisti.
Le condizioni di lavoro, sia contrattuali che di sicurezza, peggiorano invece di migliorare e lo sfruttamento si fa più pesante attraverso lo strumento subdolo e alienante dello smart working.
Il crollo del 9% di PIL durante le chiusure è il colpo di grazia dopo la crisi del 2008 da cui l’Italia nel 2019 non si era ancora ripresa, non essendo mai tornata la produzione al livello del 2007.
L’ultimo Documento di Economia e Finanza ha previsto un avanzo primario da raggiungere nel 2025 e il ritorno di alcune restrizioni fiscali europee è probabile. Ciò vuol dire che la spesa derivante dalle risorse del PNRR non sarà aggiuntiva ma in parte sostitutiva di investimenti già pianificati. Come osserva Antonella Stirati[1], considerando altresì che queste risorse non sono una “montagna di soldi dall’Europa” come vorrebbe la propaganda, ma a conti ben fatti niente che non sia già nostro, è molto dubbio quale possa essere il reale effetto moltiplicatore di una tale spesa pubblica.
Se non verrà rivisto il concetto di PIL potenziale il nostro tasso di disoccupazione rimarrà alto e non basteranno piani di modernizzazione delle infrastrutture materiali o digitali a risollevare l’economia.
Alcune aziende persino si spostano verso il Nord Italia (come dimostra la vicenda della Riello a Pescara) e le disuguaglianze all’interno del Paese aumentano. Il progetto di autonomia differenziata non è stato scongiurato ma solo ritardato, mentre continua a essere il sogno di una parte importante della classe dirigente di sinistra.
La stampa non riesce più ad assolvere al suo compito critico, oltre che per la concentrazione della proprietà, soprattutto per mancanza nella società di un’opposizione di classe organizzata. La scuola neanche assolve più al suo compito di educare teste pensanti, ma si limita a istruire manodopera (manuale o dei servizi che sia) per un mercato del lavoro sempre più competitivo per i lavoratori.
Non solo i diritti economico-sociali vengono negati ma anche quelli politico-civili sono svuotati di senso, non più solo per minoranze o fasce marginali della popolazione magari prive della cittadinanza.
Il Green Pass, non essendo uno strumento di politica sanitaria (come ha ricordato spesso Andrea Crisanti), e non essendo motivato da ragioni oggettive verificabili e sindacabili, si configura come uno strumento atto principalmente a due scopi:
- Abituare a una forma di controllo pubblico più invasiva e capillare, nonché a un nuovo corso politico fatto di decisioni emergenziali e insindacabili, replicabili in una prossima pandemia;
- Evitare di attirare l’attenzione, come fu a marzo 2020, sulle carenze strutturali della sanità. Come ha osservato Vittorio Agnoletto, nessuno degli investimenti previsti nel PNRR vanno nella giusta direzione, dal momento che avremmo bisogno di più risorse per la prevenzione e per la medicina territoriale, non di mega-ospedali o macchinari di ultima generazione.
Ma a ben vedere il sistema politico era in fase di trasformazione già prima della pandemia, per uno spostamento dei luoghi della decisione verso gli Esecutivi, di concerto con gli organi internazionali di Bruxelles e dell’Alleanza Atlantica, con il risultato di rendere ineffettivo e superfluo il suffragio universale; il fenomeno ha dato luogo al populismo e alla disaffezione.
Già da prima della pandemia eravamo stati abituati non solo alla mancanza di alternativa politica, ma a decisioni strategiche prese sistematicamente dal vertice dell’amministrazione attraverso leggi-provvedimento con ricorso al voto di fiducia. Avevamo inoltre già assaggiato lo stato di emergenza usato al di fuori dell’emergenza, grazie al Codice della Protezione Civile che dà la possibilità di dichiararlo derogando alla normativa ordinaria per la gestione dei c. d. grandi eventi (vedi Expo 2015). Tali deroghe sistematiche hanno stravolto l’equilibrio tra poteri e la gerarchia delle fonti.
Il Quirinale ha acquisito tanta preminenza da farsi garante di relazioni internazionali (vedi il nuovo trattato italo-francese c. d. del Quirinale) e da decidere come e quando un Governo viene sostituito a prescindere dalla effettiva presenza di una maggioranza parlamentare e persino con quali ministri (vedi caso Savona). Siamo al terzo Governo consecutivo presieduto da un PdCM non parlamentare, nonché al quinto in dieci anni.
Essendosi il luogo della legislazione spostato, il Parlamento è stato ridotto a organo di limatura di provvedimenti decisi a monte – o al limite a organo di regolazione di questioni etiche e di costume – e la sua inutilità è stata sancita dalla riduzione di un terzo dei suoi componenti.
Lo stato di emergenza dichiarato il 31 gennaio 2020 ha accelerato questa ristrutturazione del sistema politico. Con il d. l. 23 febbraio 2020 il PdCM si assumeva finalmente i pieni poteri rivendicati l’estate prima da Matteo Salvini. L’emergenza veniva gestita attraverso decreti monocratici di breve durata che rendevano praticamente impossibile il sindacato degli atti, anche perché motivati con i verbali secretati del CTS ancor oggi resi pubblici con un ritardo medio di almeno due mesi. Il CTS veniva istituito con decreto monocratico del Capo Dip. Protezione Civile e da allora costituisce la cabina di regia informale che prende le decisioni insieme al Governo. Così un organo tecnico è il legislatore nell’emergenza e si avverano gli appelli di chi dice “la politica si faccia da parte e lasci fare agli scienziati”.
Non sappiamo cosa dei provvedimenti varati in stato di emergenza rimarrà, né di preciso quando esso finirà. In ogni caso avrà sortito l’effetto, voluto o meno, di abituare la popolazione a un sistema politico più autoritario: decisioni insindacabili, a volte persino indiscutibili senza ricevere lo stigma, prese con scarsa trasparenza da poche persone non elette. Questo sistema sarà funzionale a gestire una fase economica di grande crisi e una riforma in senso di maggiore competitività del mercato del lavoro, nonché forse una maggiore cessione di sovranità in materia di politica industriale e di politica estera.
La vicenda di Alitalia ne è un assaggio. Ma in politica estera lo scenario è ancora peggiore dopo la ritirata con la coda tra le gambe dall’Afghanistan. Seppure è illusoria la creazione di un esercito europeo per la contrarietà americana, può darsi che sulla politica estera comune il traguardo sia più semplice. Ciò significherà per l’Italia l’essere vincolata a doppia mandata al declinante imperialismo occidentale.
Se le elezioni del 2018 e l’ondata populista in tutta Europa avevano messo i bastoni tra le ruote a questi progetti, in Italia il Conte 2 e Draghi sono state due tappe di normalizzazione fondamentali. Draghi è visto dalle élites europee per la stessa funzione per cui era considerato Mussolini: mettere ordine e sedare il riottoso popolo italiano.
Le ultime vicende legate al Green Pass hanno creato un clima malsano di conflitto e una ulteriore disgregazione della sinistra e dei lavoratori. Il sindacato, che era stato unico oppositore di questa discriminazione, è stato lasciato completamente isolato. Il Green Pass italiano è il provvedimento mondialmente più restrittivo nonostante l’alto tasso di vaccinati (già prima dell’entrata in vigore del provvedimento il 23 luglio scorso) e il basso tasso di contagi.
Il processo di trasformazione dei sistemi democratici tuttavia non è cosa nuova e non riguarda solo l’Italia. Poco prima di lasciare il suo incarico nel 1974 Willy Brandt diceva: «all’Europa occidentale non rimangono che 20 o 30 anni di democrazia; dopodiché scivolerà nel mare circostante della dittatura, poco importando che la sua imposizione venga da un politburo o da una giunta»[2]. A distanza di quasi 50 anni possiamo dire che forse aveva ragione: dopo circa 20 abbiamo avuto la ventata “neoriformista”[3] di politiche neoliberiste della sinistra, mentre a 30 la guerra al terrore post-11 settembre.
L’11 settembre ha riportato la guerra di aggressione a essere percepita come normale da parte delle masse europee, nonostante le grandi manifestazioni del 2003. Inoltre, con il Patriot Act e con altre legislazioni d’emergenza introdotte in vari Paesi, ha abituato le opinioni pubbliche che i diritti possono essere sospesi per tutti o per qualcuno senza particolari condizioni di tempo o di altro, la decisione spettando insindacabilmente all’Esecutivo. È un esperimento riuscito bene se si guarda allo stato di detenzione perdurante e silenzioso di Julian Assange nel cuore Regno Unito.
L’opposizione a questo stato di cose in Europa occidentale è molto scarsa. A sinistra si possono annoverare come esempi virtuosi Diem25 di Yanis Varoufakis, la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e Jeremy Corbyn in Inghilterra, di cui solo gli ultimi due di una qualche consistenza. La sinistra italiana dovrebbe ripartire da questi esempi provando ad allacciare dei rapporti. Tuttavia essa sembra inconscia per vari motivi.
Quando radicali nei contenuti, alcune organizzazioni della sinistra possono peccare di intellettualismo, di settarismo o di utopismo.
- Il primo sì ha quando si pensa di poter indurre cambiamenti politici con la sola elaborazione teorica, senza l’azione tra le masse.
- Il secondo si ha non tanto quando si ottengono basse percentuali elettorali, bensì quando chiunque sia esterno alla propria organizzazione viene percepito come nemico (e più vicino e più nemico!) e si pensa di poter ottenere risultati sempre e comunque con le proprie forze senza ricorrere ad alleanze.
- Il terzo errore è commesso quando si pensa di poter calare il proprio programma sulla società senza mediazioni e senza compromessi.
Vi sono poi mali tipici delle organizzazioni della sinistra italiana più partitiche e più legate alla storia del PCI.
- Il primo è il senso di responsabilità istituzionale, sviluppatosi secondo un filone che va dall’avallo più o meno ambiguo dell’austerità e della legislazione speciale antiterrorismo sul finire degli anni Settanta, passando per le politiche neoliberiste degli anni Novanta, per l’accettazione della guerra in Kosovo e di tutte le missioni militari più recenti, fino al sostegno ai vari Esecutivi tecnici “perché se no poi viene la destra”. La destra è sempre valsa come l’uomo nero, l’emergenza primordiale motivo di qualunque politica presuntamente necessaria ad arginarla, con il risultato di abituare il popolo della sinistra allo stato perenne di emergenza. Per raggiungere questo fine la sinistra è diventata di destra. Questa malattia può essere definita governismo o responsabilismo.
- Il secondo è l’incapacità di creare una divaricazione tra l’ideale politico e il compromesso dell’immediato, cioè la tentazione di addivenire sempre a patti a proprio svantaggio o per la paura di essere considerati estremisti o per non avere affatto presente un obiettivo di lungo raggio. È in un certo senso l’opposto del settarismo, ma talmente estremo da generare la malattia del tatticismo.
- Il terzo male è da ascrivere parte all’ingenuità, parte a un certo riduzionismo ad oeconomicum, parte forse al condividere la razionalità di fondo del sistema capitalistico: il positivismo, in una nuova versione che punta all’efficienza del sistema sociale in cui il singolo è sempre sacrificabile. La parte ingenua e riduzionista di questo problema tende a non vedere la storicità (e quindi la caducità) di questa razionalità e delle scienze che essa produce: le materie STEM (science, technology, engeneering, mathematics) e le scienze sociali sono i saperi egemoni del capitalismo in questa fase, ma ciò non vuol dire che lo saranno per sempre o che lo siano sempre state. Soprattutto con riguardo alle scienze sociali, ciò non vuol dire che le loro verità siano eterne e naturali. È esattamente quanto cercava di dimostrare Marx con la sua critica dell’economia politica, allora scienza principale del capitalismo: una lezione perduta. La medicina, con i suoi vari sottosistemi che in questi due anni l’hanno fatta da protagonisti, non fa eccezione perché non si svolge in un ambito separato e asettico della realtà. Per di più essa ha chiaramente invaso il campo della politica, cosicché molti pensano che esprimere opinioni su certi argomenti sia roba da tecnici. Come ha intelligentemente arguito Vittorio Agnoletto, l’interesse delle aziende farmaceutiche in questa pandemia è di far diventare il virus endemico in modo da poter produrre ogni anno un vaccino nuovo a prezzi moltiplicati, nel frattempo utilizzando la popolazione mondiale per far emergere nuove varianti e vedere quanto tempo occorre ad aggiornare la tecnologia.[4] Pensare che gli scienziati non siano uomini ma sacerdoti della Ragione è da idolatri.
[1] A. STIRATI, La verità sul Recovery Fund, in Micromega, n. 4, 2015, pp. 171-180.
[2] M. J. CROZIER, S. P. HUNTINGTON, J. WATANUKI, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilateriale, Milano, 1977, p. 20.
[3] Questa espressione è stata utilizzata dallo storico Paolo Favilli per la sinistra post-comunista convertitasi al neoliberismo.
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