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Università in declino?


27 Set , 2021|
| 2021 | Visioni

In questi ultimi mesi ho colto tre voci preoccupate, oltre che critiche, a proposito della condizione in cui versano attualmente le università italiane. Invece i più, mi riferisco particolarmente agli organi accademici di governo, evocano in ogni contesto l’eccellenza delle nostre università: io non la vedo, fatta eccezione per singole strutture e per singoli (non pochissimi, però) docenti. Ma l’eccellenza è nel mainstream italico e la parola è adoperata a vanvera: si pensa che sia idonea all’inganno specie dei clienti-consumatori (e i Rettori sembrano considerare tali anche gli studenti), rivelando non so se più capziosità o inconsapevolezza.

 La prima voce è composta: tre voci, di tre neo-diplomate alla Scuola Normale di Pisa. L’attacco è, però, unico: alla retorica dell’eccellenza e alla trasformazione aziendalista delle università italiane. La causa prima della deviazione è individuata, da queste tre giovani, nel trionfo del neo-liberismo a cui abbiamo assistito in questi ultimi decenni in Occidente. Le conseguenze negative sono state parecchie; ma la più grave, e concordo, è da individuarsi nell’incapacità o, comunque, nel disinteresse delle nostre università pubbliche a formare cittadini responsabili.

 La seconda voce è del Direttore de La Fionda: alla fine della recente presentazione del secondo numero della Rivista, Nello Preterossi ha lamentato il declino del modello tradizionale delle universitates, di matrice tardo-medievale e italiana, quale comunità di interazione quotidiana tra docenti e studenti, tutti impegnati a progredire senza riserve (o strumentalizzazioni) nella conoscenza: l’esito nefasto dovrebbe essere quello dell’eguaglianza regressiva, cioè eguali sì ma minori, in discesa non in ascesa.

 La terza voce è del sociologo Luca Ricolfi che è critico verso il ruolo concretamente svolto nella società italiana dalle sue università e dai suoi docenti in questa stagione pandemica: la denuncia investe particolarmente i docenti che o sono assenti dal dibattito pubblico o quando vi partecipano, quasi sempre nelle modalità del talk show televisivo, non comunicano correttamente per varie ragioni, con l’effetto di disorientare l’opinione pubblica, aumentandone le divisioni anche laddove non sarebbe proprio auspicabile.

 C’è una cifra comune in questa varietà di critiche? Questa, a me pare: l’abdicazione delle università dalla loro storia, ma anche dalla loro naturale funzione istituzionale. Questa non sta nella competizione al ribasso per accaparrarsi la maggior quota possibile di FFO (fondo finanziamento ordinario) erogato dallo Stato anche in ragione del numero dei laureati annuo. Non sta nel progressivo disinteresse di troppi docenti e studenti verso il sapere di contro al lievitare dell’interesse verso altre realtà quali il successo professionale o la sistemazione a prescindere o, anche, la conquista di occasioni di visibilità o di pezzi di potere. Non sta nel dominio di insulse procedure informatiche, di vuoti formalismi, di numeri comprovanti il nulla. Non sta nei discorsi magniloquenti, auto-elogiativi, ingannatori anche degli studenti e delle loro famiglie, retorici, ma di una retorica di bassa lega (l’eccellenza come topos universale, ignorando però il reale significato di questa categoria).

 Censure e querule potrebbero moltiplicarsi. E però il declino non è degli ultimi anni, ma è cominciato da qualche decennio ed è stato accelerato da note, vituperate, riforme, l’ultima ascritta a Maria Stella Gelmini.

 Questo declino – questa fuga dalla responsabilità istituzionale – si è resa manifesta una volta di più, e in una situazione drammatica, durante la pandemia da Covid 19: abbiamo assistito al meglio del peggio.

 Il ceto accademico è antropologicamente molto ambizioso e ama l’applauso come la lusinga. Ma fino a qualche decennio or sono esso disponeva essenzialmente di un solo spazio nel quale cercare di realizzare le sue mire: lo spazio era quello del confronto scientifico nazionale e, talora, internazionale. La comunicazione con il grande pubblico non era usuale, ma avveniva attraverso la carta stampata dove ai docenti era riservato l’editoriale: una comunicazione necessariamente meditata, secondo uno stile improntato alla sobrietà, alla quale si accompagnava facilmente la nota dell’autorevolezza.

 Durante la pandemia (e ad oggi) gli accademici (più o meno …) di settore – virologi, infettivologi, microbiologi, igienisti ecc. – hanno letteralmente cavalcato la tigre: sulla comunicazione del loro sapere, istituzionalmente finalizzato a informare, avvertire, educare, ha fatto aggio il desiderio di farsi personaggio per garantirsi le comparsate televisive. E così questi accademici provenienti da vari dipartimenti medici (o scientifici) della penisola hanno virtualmente costituito degli autentici partiti quasi politici.

 C’è da scommettere che durante questi lunghi mesi pandemici la loro principale cura sia stata verso l’apparire, e l’apparenza, televisiva. E il resto? Il resto sarebbe l’universitas: la ricerca (ma anche l’assistenza nelle corsie d’ospedale), la didattica, il colloquio e il confronto con gli studenti. Quanto tempo hanno sottratto queste continue comparse televisive ai loro doveri istituzionali? Abbiamo addirittura visto qualcuno o qualcuna compiaciuti del loro aspetto fisico che hanno proposto al grande pubblico, riscuotendo un certo consenso.

 Sono questi i docenti che il Paese, con le sue (tante, troppe) universitates, è in grado di mettere in campo per acquisire e trasmettere il sapere?

 Forse è il caso di avviare finalmente una severa riflessione sui metodi del reclutamento del personale docente nelle nostre università. Intanto domandiamoci quale sia stato il contributo offerto dagli accademici in questi anni pandemici. Credo che esso non solo sia stato nullo, ma radicalmente negativo. E in negativo ha contribuito a far lievitare la confusione con la conseguenza di disorientare ulteriormente il pubblico, cioè noi italiani. A guadagnarci sono stati solo loro, gli accastars (=accademici stars): hanno acquistato una notorietà a cui non sarebbero mai pervenuti attraverso il serio lavoro di studio e di insegnamento.

 Dalla confusione sanitaria è derivata a cascata la confusione giuridica: libertà, stato di diritto, costituzionalismo (e Costituzione italiana) hanno d’un colpo smarrito ogni identità e queste categorie (o atti normativi primari: la Costituzione del ’48 appunto) hanno assunto contenuto indefinito. Come se duemilacinquecento anni di storia e di esperienze, come se le parole della legge stessero là ad indicarci il vuoto assoluto, in quanto tale suscettibile di essere riempito da chiunque un po’ come gli pare, sentendosi libero con la Costituzione in mano. E uno come Massimo Cacciari si è portato come un quivis de populo così legittimato a dire il diritto, anzi asserendo pubblicamente di avere competenza perché ha lavorato con Natalino Irti (!). 

 E i giuristi? Quasi generalmente silenti; e quando interventori, non offrendo un gran contributo di chiarezza, ma anche loro cavalcando la tigre (penso alle varie irruzioni di uno pur bravo come Ugo Mattei).

 Una volta da studenti di Giurisprudenza ci si imbatteva regolarmente in una rampogna di Alberico Gentili contro i religiosi, un’invettiva che era come la cifra di tutta un’epoca (tra Cinque e Seicento): Silete theologi in munere alieno. Il diritto, questo voleva dire quel gran giurista, è scienza autonoma che non può essere imbrigliato dalla religione: la sua conoscenza, come la sua manifestazione, è affare da iuristae che vi si dedicano integralmente (guarda un po’ …) nelle universitates.

 Qui sta il pallino che abbiamo smarrito per varie ragioni.

 Se neghiamo il valore della competenza corriamo il rischio di fare un viaggio indietro nella storia; e il rischio è oggi molto, molto aggravato dal fatto che chiunque può assumere il ruolo di influencer in grazia del web, pur non sapendo davvero nulla di ciò che occorre sapere per decidere, magari in campi nei quali sono in gioco beni primari della vita.

 La competenza a cui facciamo qui riferimento si coltiva seriamente solo nelle università che, per riuscirci, devono essere, a loro volta, seriamente organizzate. Diversamente la loro auctoritas scema rapidamente e si crea altra confusione: in pandemia hanno dato – e danno – pubblicamente e regolarmente offerto – e offrono – la loro (autorevole) opinione medici universitari non solo non titolati (cioè non cattedratici) ma appartenenti a settori scientifici non pertinenti (per esempio, ortopedia).

 Mi pare che sia stato Fichte a scrivere che ciò che ci rende felici non per questo è anche buono, ma ciò che è buono ci deve rendere felici. Un gioco di parole? Fino a un certo punto.

 Fichte aveva in mente la missione del dotto; e per lui il dotto era essenzialmente il professore universitario. A ciò egli dedica, dall’Università di Jena, un ciclo di lezioni, tenute tra il 1794 e il 1795, le prime durante il semestre estivo, le altre durante quello invernale. Il ciclo era complessivamente intitolato De officiis eruditorum: l’eruditus è appunto il dotto, il professore di cattedra, oggi diremmo (anche) l’intellettuale.

 Tutto sta in quell’officium che introduce, anzi impone, nell’attività dell’intellettuale – i cui spazi sono oggi tanto più ampi di quelli di fine Settecento – la nota della doverosità.

 Fichte ci spiega che il dotto porta in sé l’istinto di comunicare. Ma comunicare cosa? «Le conoscenze che abbiamo nel campo in cui siamo maggiormente preparati, in altre parole l’istinto di rendere gli altri quanto più possibile eguali a noi». Già, l’eguaglianza è un’altra nota da sottolineare. Giustamente vi ha accennato Preterossi: il timore è di equalizzare la massa studentesca nella deprivazione di cultura e spirito critico. Stanno operando, consapevolmente o inconsapevolmente, in questa direzione, le università italiane?

 Circa le lezioni di Fichte a Jena vi è un dato che vale la pena ricordare: quelle lezioni furono frequentatissime dagli studenti; e, siccome il calendario accademico era tutto impegnato, le lezioni del semestre invernale Fichte le tenne la domenica.

 Ora, quanti docenti delle università italiane sarebbero disposti a fare altrettanto? Ma soprattutto quanti studenti sarebbero lieti di frequentarle in un giorno festivo?

 Per la verità un importante editore italiano organizza da parecchi anni con gran successo lezioni pubbliche su argomenti centrali (anche) la domenica: lezioni tenute da accademici che hanno quell’istinto di comunicare ciò di cui ci parla Fichte (e che sanno efficacemente comunicare). Ma queste lezioni sono tenute fuori dalle università pubbliche e per iniziativa di un soggetto privato.

 D’altronde, contro la pandemia il ruolo primario è stato assunto dalla ricerca pubblica o da quella privata gestita dalle grandi aziende farmaceutiche?

 A domande del genere dovremmo cercare di rispondere per capire che facciano realmente le università, particolarmente in Italia. Il refrain della scarsezza dei fondi per la ricerca ci fa capire fino a un certo punto; l’impressione è che sia anche, forse soprattutto, un problema di persone.

 Intanto registriamo l’opposizione degli accastars alla recentissima regola per la quale essi dovranno corredarsi dell’autorizzazione della struttura di appartenenza per continuare a far le comparse in tv; tutti hanno protestato appellandosi alla libertà di opinione e alla Costituzione.

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