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Le parole del nostro tempo
Credere, Obbedire, Combattere: era questo uno dei motti del fascismo, uno dei precetti di quel “catechismo” basato sul culto della forza, della Patria e dell’ordine che, almeno a parole, lo Stato italiano ripudia e condanna con forza dal dopoguerra.
Eppure questa triade, stampata a chiare lettere un po’ ovunque durante il ventennio – specialmente nelle scuole, a monito e insegnamento per le giovani menti – sembra informare inesorabilmente proprio il nostro tempo, come un mantra silenzioso e strisciante, invero non del tutto nuovo, né tanto meno sorprendente.
Credere
“Ma perché, siete contro – oggi si direbbe “Non credete a” – gli antibiotici?”.
Questa fu la risposta di una dottoressa, ginecologa, alla domanda relativa alla effettiva necessità di somministrazione di un antibiotico in travaglio.
Correva l’anno 2019, mese di gennaio: circa 12 mesi prima dell’inizio della dichiarazione dello stato di emergenza e delle vicende che ormai conosciamo fin troppo bene.
La risposta fu un “No..no!” incerto e sorpreso: quella domanda, lanciata a bruciapelo come uno strale, condizionò naturalmente lo scambio successivo, mettendo sulla difensiva chi avesse osato chiedere informazioni in maniera tanto “temeraria” e “sconveniente” in merito a un trattamento farmacologico da somministrare sulla sua persona.
Sì, perché, lo si sa bene ormai (ma allora forse ancora no, non lo si sapeva altrettanto bene), quando qualcuno ti chiede se sei contro a, se non credi in qualcosa, ecco che ti senti trasformare in uno di quei bizzarri, dicono rozzi, certo fastidiosi e da qualche tempo persino temibili mostri mitologici di cui parlano tanto la TV e i giornali (quelli da “combattere”, come si dirà). Il tutto soprattutto in un determinato contesto, quello ospedaliero, quando hai pur sempre di fronte un camice (o anche due) e uno sguardo inquisitore che fa il paio con un sorrisetto beffardo.
E quindi si fa marcia indietro, anche se magari, come poi accadde, riesci comunque a riprenderti in tempo dal colpo; a capire che, da un medico, ci si deve aspettare, anzi si deve esigere qualcosa in più di un assunto del genere. Qualcosa che vada al di là di un artificio retorico così scontato, e che ancori il discorso al piano delle argomentazioni scientifiche, e non delle (supposte) convinzioni personali.
A pensarci bene, il mantra “Lo dice la scienza…” già esisteva, allora, quando c’era la “normalità”, così come l’accostamento fra la “Scienza” e il verbo “Credere” (o “Fidarsi”), per non parlare delle domande, altrettanto sferzanti di quella sugli antibiotici, volte a indagare i titoli accademici dell’interlocutore…
“No, non sono contro gli antibiotici. Sono contro gli antibiotici dati senza una reale necessità (condizione tutt’altro che infrequente, visto il problema dell’antibioticoresistenza), seguendo rigidi e inaccessibili protocolli, senza una valutazione ad hoc dei rischi e benefici né un reale dialogo col paziente. E ancor di più sono contro le polarizzazioni, le banalizzazioni strumentali del discorso, volte a screditare l’interlocutore, tanto più in un ambito cruciale come quello della salute e del benessere dell’individuo e della collettività”.
Forse fu questa la risposta che rimase sospesa, evidentemente era questa la degenerazione già in atto: la scienza e la medicina ridotte a dogmi, a questioni di fede per adepti sottoposti a giudizi morali, anzi moralistici.
Obbedire
“Tutta colpa della pedagogia nera”: lo penso da tempo, quasi dall’inizio del “Covid affaire”, che come un detonatore ha portato all’esplosione di problemi e questioni antichissime, numerose quanto interconnesse, che covavano e aspettavano (ancora aspettano) riscatto.
Fin dalle prime settimane di quell’ormai famigerato marzo 2020, abbiamo assistito a un’escalation di messaggi paternalistici, volti a infantilizzare l’uditorio, all’insegna del pathos, del sensazionalismo e della reductio ad fidelitatem et obedentiam.
Già, l’obbedienza: questione cardine del nostro sistema sociale, in cui le regole servono soprattutto a garantire – si dice – la convivenza (intesa come sopportazione reciproca, verrebbe da pensare!), in una sanzionatoria ottica di controllo.
Il dissidio tra il dover obbedire e il libero pensiero critico si è presentato molto presto, tra regole e divieti poco razionali e sospetti (mascherina no, poi sì, poi sempre, poi quando ti alzi ma non se ti siedi…il coprifuoco, gli elicotteri e i droni sulle spiagge o in mare aperto, fino a quel capolavoro di “menzogna e sortilegio” che è il Green Pass) e un clima di censura e delazione più o meno fomentata tra gli stessi cittadini (perché, lo si sa, il controllo più capillare avviene dal basso, fra i pari).
Il tutto non senza esiti grotteschi, gli stessi che, del resto, permeano il sistema educativo-scolastico: imporre anziché spiegare, comunicare in maniera vistosamente asimmetrica coi cittadini-pazienti, inculcando di proposito timori anche ingiustificati (come hanno poi ammesso gli psicologi comportamentisti assoldati dal governo inglese, ad esempio) non ha fatto che plasmare definitivamente la fisionomia del cittadino-infante capriccioso e riottoso, da ricondurre sistematicamente “all’ordine”.
Lo stesso che, alla fine (non serve una laurea in pedagogia, per affermarlo) non può che risultare in un individuo del tutto de-responsabilizzato, depotenziato (proprio nel momento in cui gli si addossano però colpe e competenze che non gli appartengono), e, paradosso dei paradossi, più facilmente incline a “trasgredire”, per quel che poco che ancora è in suo potere, non appena la “catena si allenta”.
La via della responsabilizzazione, dell’informazione corretta ed onesta e del dare fiducia, in quella che ormai siamo ben abituati a concepire come la “lotta al virus”, deve essere certo apparsa più ardua e dispendiosa, e forse controproducente, alle istituzioni; ma i frutti, per il “popolo”, sarebbero stati certamente migliori, come dimostrano i casi stranieri in cui, pur nel rigore delle disposizioni sanitarie e politiche, non si è ecceduto sul fronte della ricerca dell’obbedienza cieca, né in buona né in cattiva fede.
Il tutto poi, nel Belpaese, si è saldato alla mentalità dura e morire dell’italiano indisciplinato, che non può essere trattato, dallo Stato, alla stregua dello svedese, dell’inglese, del danese e nemmeno del tedesco o del vicino svizzero, che ora, proprio per merito della loro “buona condotta”, gustano tutti l’agognata e ritrovata libertà.
“L’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”. Don Milani (uno che, non a caso, si intendeva di pedagogia, e non certo nella sua accezione più fosca) non è mai stato così attuale.
Combattere
I periodi di crisi ed emergenza sono da sempre caratterizzati dalla ricerca di un capro espiatorio e dalla definizione di un nemico interno: che si ritenga accettabile o meno l’idea che la pandemia stia risultando in una compressione dei diritti individuali, facendo scricchiolare la democrazia, sarebbe ben arduo negare che la la guerra “esterna “al virus passa sempre più per una guerra “interna”, ormai stabilmente delineato.
Dopo il migrante, il sanitario, il runner, il passante col cane incontinente, il bambino al parchetto o a scuola (ammesso che questi luoghi fossero davvero fruibili), il giovane avvezzo alla movida, ecco profilarsi, aggiudicandosi la palma di “untore” per eccellenza, una figura non certo nuova, soprattutto nel panorama italico: il “No Vax”, spesso e volentieri anche definito “negazionista” e “complottista”.
E’ verso di lui (o di lei), già assurto agli onori delle cronache da una manciata d’anni (dal 2017 del “famigerato” Decreto Lorenzin) che si concentrano ormai tutte le attenzioni e le “cure”, mentre il discorso mediatico, ma anche quello dell’uomo di strada, si carica di una violenza inaudita nei suoi confronti.
Una violenza, un odio “sintetico”, come lo definisce lo scrittore Enrico Macioci: un nuovo lessico che instaura equazioni assai discutibili e nascoste (chi non si vaccina contro il Covid è un No Vax, chi è contro il Green Pass è un No Vax, il No Vax attenta alla salute pubblica, i No Vax sono violenti e contagiosi…), col risultato di far apparire assolutamente “normale” ciò che dovrebbe suonare quanto meno abominevole. Ma si sa, i tempi della riflessione sono troppo lunghi, in una società che incalza e addita chi solo osi tentennare.
Il ragionamento per dogmi fa il paio infatti con l’etichettatura della popolazione, in una banalizzazione del discorso che cancella e mortifica le singole individualità, ridotte a pedine da incasellare entro una scacchiera da cui non si può sfuggire. Chi non è dichiaratamente bianco deve essere nero, e dunque un nemico da combattere: amicizie si intiepidiscono o finiscono, famiglie si spaccano, si bloccano contatti e follower.
Sì, perché il combattimento corre ovviamente anche e soprattutto sui social, che altrettanto difficilmente concedono tempo al ragionamento e all’espressione pacata del proprio punto di vista: del resto nessuno si presta ad una schermaglia internettiana per cambiare idea, piuttosto per confermarla e reprimere quelle contrarie, pervicacemente scovate finanche sulle pagine avversarie.
Chi non crede nè, di conseguenza, obbedisce è un dissidente, un disertore, un traditore, un collaborazionista (del male), un imboscato da stanare, “sfamare col piombo”, braccare e redimere. Ammettiamolo: il gergo guerresco ci accompagna da tempo, è ormai parte di noi, così come questa visione dualistica che a volte ci lacera persino internamente. Il passo successivo sembra essere quello di far proprio il cosiddetto hate speech, certo ben presente su entrambe le barricate, ma, impossibile non notarlo, soprattutto nel discorso mediatico e sulle bocche dei “giusti”.
Ora, cosa contrapporre a questo fascismo del pensiero (ma che ha ricadute molto pratiche), al “Credere, Obbedire, Combattere” che ci viene costantemente offerto?
Forse qualcosa come: “Pensare, Scegliere, Incontrare”.
Il filosofo e psicoterapeuta argentino Miguel Benasayag ha dichiarato che: “L’epidemia è il sogno del tiranno… è una tirannia triste dove la gente per paura obbedisce ciecamente al tiranno dicendo: non è il tempo di pensare, è il tempo di obbedire!”.
Il pensiero è antidoto sia all’imperativo del “credere” sia all’obbedienza fine a se stessa: l’unico modo per scegliere a ragion il più possibile “veduta”, anziché “essere scelti”.
Sarà un caso che proprio questo verbo, “scegliere” – in inglese choose – sia stato “dimenticato” nella traduzione italiana del Regolamento UE 953/2021 – in seguito rettificato – a proposito delle discriminazioni verso chi sceglie, appunto, di non sottoporsi a vaccinazione anti Covid?
E dopo aver pensato e scelto, a prescindere dalla posizione maturata, non dimentichiamo di incontrare l’altro, qualsiasi altro: perché il rispetto è tale solo se esercitato in tutte le direzioni, sotto tutti i punti di vista, senza scale di valore.
Inutile dire che la scuola dovrebbe essere luogo di elaborazione di queste dinamiche, e non centro propulsore delle tendenze pericolosissime di cui si diceva prima.
Una scuola che fosse davvero pubblica, però, nell’accezione di “capace di fare l’interesse di tutti”, e non solo statale, ossia “di Stato”.
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