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Sulla fissione dell’immaginario collettivo


19 Ott , 2021|
| 2021 | Visioni

La propaganda nazionalsocialista, di cui siamo stati testimoni e vittime, in realtà non era altro che una produzione di sentimenti, di proporzioni colossali; una produzione che il partito riteneva indispensabile, perché calcolava che le vittime corredate di quei sentimenti avrebbero accettato più facilmente, se non addirittura con entusiasmo, il sistema terroristico con le sue richieste esorbitanti.

ANDERS G., L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino, 2007

Con il termine “fissione” si intende, comunemente, quel processo nel quale il nucleo di un atomo pesante si divide in due nuclei più leggeri, anche nel senso che – messi assieme – i due nuovi nuclei pesano meno del nucleo originario. Il resto, quello che manca per pareggiare i conti, l’ha calcolato Einstein con la sua formula più nota. Le energie sprigionate dalla fissione nucleare sono molto intense, il ché le rende pericolose.

I nuclei di alcuni atomi pesanti sono instabili. Quello del plutonio utilizzato nelle armi nucleari è un grappolo di 239 particelle, 94 protoni e il resto neutroni. Questa singolare “comunità” è – come dire – piuttosto “tesa”. La convivenza non è sempre facile perché, mentre i protoni si riconoscono carichi positivamente, gli altri si pretendo neutri, e questo complica le relazioni. Eppure, sono proprio queste differenze – e queste relazioni – a determinare la coesione della comunità nucleare. L’elevato numero dei suoi membri confinati in un assembramento infinitesimo, e la proporzione dei due orientamenti non precisamente allineati, la rende alquanto nervosa e agitata. Dunque, piuttosto instabile. Prima o poi succede qualcosa che la divide in due comunità più piccole, sprigionando forze enormi latenti da tempo. Se i due grappoli di particelle che ne vengono fuori sono abbastanza stabili da sopravvivere, la cosa finisce lì, con le radiazioni che vanno per la loro strada.

Le statistiche a.c. (ante-covid) sull’assunzione di ansiolitici, antipanico, antidepressivi e psicofarmaci in genere, parlano da sole: la comunità cui appartenevamo fino al 2020 d. C. era piuttosto nervosa e agitata, anche se non lo dava troppo a vedere. “La sofferenza tende a nascondersi, a non mostrarsi” ci fa notare U. Galimberti. Come un neutrone che penetra un nucleo pesante spaccandolo in due, scatenando Prometeo dalle rocce del Caucaso ed esonerando l’aquila costretta a rodergli il fegato, il virus ha fatto traboccare una misura colma da tempo. Ha tolto il coperchio al vaso che custodisce curvature della mente umana che dormivano da qualche tempo. Come quelle del clero medievale che perseguitava gli infedeli. Come quelle del Reich che perseguitava il popolo ebraico. Come quelle che il colonialismo belga ha risvegliato in Ruanda. Come quelle che, non molti anni fa, si sono intrecciate appena oltre i nostri confini, nell’ex-Jugoslavia. Situazioni molto diverse tra loro, e ancor più da quella attuale, non c’è dubbio. In effetti, il loro comune denominatore sta solo nel fatto che un popolo un tempo unito, nonostante le tensioni interne e le correnti che ogni comunità invariabilmente si porta appresso, si divide in fazioni che entrano in conflitto. O in una maggioranza che opprime una minoranza, quando non la sopprime.

Mi sono servito della metafora nucleare per provare a condividere la sensazione che, ultimamente, questo periodo storico mi lascia addosso. Vedo attorno a me persone – anche colte, lucide e intelligenti – che stanno prendendo le distanze le une dalle altre. Che fanno sempre più fatica a cercarsi e a incontrarsi. Mi sembrano sempre più estranee, appartengono a due comunità che si confrontano ormai solo con sé stesse, perché tra loro non si parlano e non si capiscono più. Eppure – lo ribadisco perché mi pare il punto cruciale – ci sono tante persone ragionevoli, da una parte e dall’altra. Che è successo?

L’immaginario collettivo, nel giro di pochi mesi, ha subito un processo di fissione, ma la collettività non ha subito alcuna separazione territoriale. Un popolo che, fino a un anno fa, e nonostante le tensioni interne e le correnti che lo attraversavano, condivideva una certa visione dell’uomo e del mondo che abita, convive ancora entro gli stessi confini geografici permeabili, ma le barriere ideologiche che le due neo-comunità vanno innalzando si fanno ogni giorno più impenetrabili. In altri termini, è avvenuta una secessione che si attesta tra l’ideologico e il religioso, alla quale non è corrisposta una secessione territoriale. Il “territorio” italiano è rimasto uno, ma ora abbiamo due “mappe” differenti dell’Italia, ognuna delle quali si pretende quella autentica, mentre l’altra sarebbe poco più di un’aberrazione inaccettabile.  Questa situazione è di per sé piuttosto delicata. Se poi aggiungiamo che ciascuna delle due fazioni si sente minacciata e limitata dalle scelte dell’altra, che i media dominanti fomentano la maggioranza (almeno quanto internet incalza la minoranza), e infine che la sproporzione delle forze non lascia intravedere deterrenti sufficienti a innescare una “guerra fredda”, il quadro diventa ancor più instabile.

Il colonialismo belga ha diviso il popolo ruandese in Hutu e Tutsi, che prima convivevano nella stessa terra, condividendo la stessa cultura e professando la stessa fede cristiana. Quella che era una semplice differenziazione socio-economica – gli Hutu erano agricoltori e i Tutsi allevatori – degenerò in una divisione etnica, con le conseguenze terribili che noi tutti conosciamo. Tra i due litiganti, il terzo gode. La stessa trappola in cui – a mio avviso – stiamo cadendo pure noi. Non temo che vaccinati e green-passati vadano a comprarsi dei machete per far fuori una minoranza di untori superstiziosi, una sorta di subumani che le istituzioni – con la complicità sempre più palese, pericolosa e imbarazzante persino dei media del servizio pubblico – stanno riducendo a capri espiatori sui quali scaricare il  fallimento della politica neoliberista, e ai quali addossare il tramonto del paradigma occidentale. Non temo neanche che vengano riaccesi i forni, o riaperte le camere a gas. Né temo che i devianti dovranno guardarsi dal fuoco dei cecchini. In ogni momento storico, il potere sa trovare i modi più opportuni per far fuori chi non si allinea o non è degno di stare al mondo come gli altri.

Dieci anni or sono Monti non ha avuto bisogno di gridare alle folle, né di parate militari, né di carri armati. È stato sufficiente far lievitare lo “spread”- un indicatore sul quale il popolo non ha alcun controllo – e oliare i media nei punti giusti, affinché terrorizzino gli italiani con lo spettro del default statale e i connessi rischi sui risparmi privati. Il lupo cambia il pelo, non il vizio. Nei colpi di stato cambiano le armi, non l’obiettivo. Nell’animo umano, oggi come allora, alberga la violenza: ha solo dismesso la divisa con i gradi per indossare giacca e cravatta. “Il mio nemico non ha divisa, ama le armi ma non le usa. Nella fondina tiene le carte VISA, e quando uccide non chiede scusa” cantava Daniele Silvestri. Ma voi, ve lo vedete Draghi che urla alle folle? Io no, non credo ne abbia bisogno.

Per provare a uscire dalla spirale perversa in cui siamo scivolati, forse conviene farla finita con la pretesa di aver ragione, da una parte come dall’altra. Potremmo provare a chiedere (e a portare) rispetto. Da una parte e dall’altra. Se la cosa non va in porto, se l’invito verrà declinato, ognuno saprà che ore sono. 

La paura, come e più di avidità e rabbia, non ammette discussioni, non tollera repliche, non conosce obiezioni: paralizza ingegno e spirito critico, annebbia la capacità di fare banali distinzioni, intima la fretta, la chiusura mentale, l’impazienza. Innesca un terrorismo che davvero ci tiranneggia.

BENCIVENGA E., La grande paura, Gingko, Verona, 2021      

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