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Democrazia sociale, conflitto e sovranità nazionale
Riflessioni a partire da Progettare l’uguaglianza. Momenti e percorsi della democrazia sociale, M. Gambilonghi e A. Tedde (a cura di), Sesto S. Giovanni, Mimesis, 2020.
Secondo una lettura diffusa, nonostante lo Stato sociale favorisca una certa redistribuzione della ricchezza, la sua ragion d’essere risiede nella volontà di neutralizzare il conflitto attraverso una sorta di accordo: la rinuncia alla lotta politica in cambio di una inclusione nell’ordine proprietario nella misura necessaria e sufficiente a produrre pacificazione sociale. La lettura non è certo infondata, dal momento che trae spunto dall’origine storica dello Stato sociale nel Vecchio continente, ovvero dalla creazione del primo sistema moderno di sicurezza sociale nella Prussia di Bismarck. Questi aveva tentato di affrontare il conflitto sociale reprimendo il movimento operaio attraverso una legge “contro le aspirazioni socialmente pericolose della Socialdemocrazia” (del 22 ottobre 1878), che tuttavia si rivelò fallimentare: incrementò invece di ridurre lo scontro politico. L’Imperatore Guglielmo I maturò così la convinzione che “la riparazione dei danni sociali non si dovrà perseguire esclusivamente attraverso la repressione dei tumulti socialdemocratici, bensì anche attraverso il sostegno attivo al benessere dei lavoratori” (Kaiserliche Botschaft del 17 novembre 1881). Il tutto sulla scia di quanto era stato sperimentato presso le acciaierie Krupp, dove in effetti la pace sociale venne promossa offrendo migliori condizioni di lavoro a chi rinunciava all’impegno politico e sindacale, e assicurando nel contempo una severa repressione a chi invece vi si dedicava.
Detto questo, è certamente possibile considerare lo Stato sociale il fulcro di un modo di concepire lo stare insieme come società alternativo a quello in linea con la sua origine storica, ovvero di un modello definibile in termini di “democrazia sociale”. A questo è dedicato un volume collettaneo i cui autori si sono esercitati nell’inquadramento di un simile modello, nella ricostruzione delle vicende storiche che hanno condotto alla sua nascita sulle ceneri dell’individualismo proprietario, al suo sviluppo nel corso nel corso dei Trenta gloriosi, e alla sua crisi iniziata con l’affermazione dell’ortodossia neoliberale nel corso degli anni Ottanta[1].
La centralità del conflitto sociale
All’inquadramento del modello della democrazia sociale è dedicato il saggio introduttivo[2], che lo descrive come il prodotto della commistione tra ordine politico e ordine economico orientata dalla mediazione dei partiti di massa e delle centrali sindacali. Si deve a quest’ultima se lo Stato sociale si emancipa dalla “logica paternalistico autoritaria”: se realizza “un compiuto governo dell’economia”, comprendente cioè “tutte quelle forme di planismo e di programmazione sorte in seguito alla fine del tradizionale astensionismo dello Stato liberale rispetto agli affari economici e sociali”. Il tutto da concepirsi come un “processo dinamico conflittuale”, a riprova di come lo schema indicato sia volto a produrre emancipazione piuttosto che pacificazione sociale.
Il conflitto è certamente un elemento fondativo della democrazia sociale[3], almeno secondo quanto emerge dalle Costituzioni nate dalla sconfitta del fascismo. Quest’ultimo aveva affossato le libertà politiche, ma solo riformato le libertà economiche in senso neoliberale: aveva edificato la mano visibile del mercato imponendo il funzionamento della concorrenza, e anzi utilizzandola come strumento di direzione politica dei comportamenti individuali. Di qui la necessità di edificare argini al ripetersi della dittatura che comprendessero, oltre al recupero della democrazia politica, anche l’edificazione della democrazia economica: per riaffermare l’opportunità di un intervento della politica in ambito economico, tuttavia non al fine di presidiare il funzionamento della concorrenza e il relativo sistema di libertà, come nella prospettiva neoliberale, bensì per promuovere l’uguaglianza sostanziale, e con essa l’emancipazione individuale e sociale.
Ciò equivale a promuovere la formazione di contropoteri in luogo della polverizzazione del potere economico, come invece indicato dai neoliberali: si impedisce in tal modo di lasciare l’individuo solo di fronte al mercato, ovvero di condannarlo a tenere unicamente i comportamenti consistenti in mere reazioni automatiche agli stimoli della concorrenza. E si trasforma il mercato, esattamente come l’arena politica, in un ambito definito in modo partecipato, il cui assetto riflette dunque l’esito del conflitto redistributivo. Il tutto senza però affidarsi al libero scontro degli interessi in gioco, bensì puntando a sostenere gli interessi deboli nel confronto con gli interessi forti, ovvero affidando allo Stato un compito ben preciso: bilanciare un simile confronto, e non anche limitarsi a riprodurne e presidiarne l’esito.
Se così stanno le cose, occorre rimarcare una netta distinzione, oltre che tra la democrazia sociale e il liberalismo, anche tra le forme di intervento dello Stato nell’ordine economico miranti a produrre emancipazione individuale e sociale e quelle volte invece a sostenere l’ordine proprietario. Occorre cioè chiarire come la “relativizzazione e funzionalizzazione” delle libertà economiche, esattamente come il “superamento di quella separazione netta tra Stato e società, tra pubblico e privato”[4], non sia prerogativa esclusiva dei progetti emancipatori. Si alimenta altrimenti la credenza, purtroppo diffusa, secondo cui il neoliberalismo promuove il ritiro dei pubblici poteri dal mercato, mentre mira al contrario ad affermarli e a trasformarli in un presidio del meccanismo concorrenziale.
Insomma, si può certo ricordare come la democrazia sociale sia il prodotto di vicende come la divisione del lavoro “nell’ambito di una visione unitaria e organica del divenire sociale”[5], o il “progetto di rifondazione economica e istituzionale” elaborato in seno al movimento sindacale francese[6], o ancora le elaborazioni in epoca weimariana attorno al concetto di “Stato sociale di diritto”[7]. Ma occorre riconoscere che simili vicende si combinano con letture di matrice olista delle relazioni sociali, e che l’esperienza fascista ha contribuito a mettere in luce il rischio di una loro utilizzo come strumento di pacificazione sociale: consentendo di enfatizzare il ruolo del conflitto nello sviluppo della democrazia sociale come strumento di emancipazione.
A ben vedere questi aspetti emergono dai contributi dedicati alla fase storica in cui si realizza la democrazia sociale: i Trenta gloriosi, ovvero il periodo compreso tra la fine del secondo conflitto mondiale e la metà degli anni Settanta. È l’epoca in cui si realizza il cosiddetto compromesso keynesiano, alla base della spirale virtuosa generata da politiche di sostegno alla domanda, e a monte dal conflitto redistributivo: la spirale produttiva di una buona crescita dei livelli salariali, a sua volta motore per l’incremento dei consumi, e quindi dell’occupazione e della forza dei lavoratori. Il tutto sostenuto da un sistema di sicurezza sociale capace di liberare reddito per i consumi o di differire il salario sotto forma di pensione, oltre che dal controllo degli esecutivi sulle banche centrali, le quali potevano così operare per rendere sostenibile l’indebitamento pubblico indispensabile ad alimentare la spirale virtuosa.
La centralità della dimensione nazionale
Non è un caso se in questa fase storica si mette in luce il ruolo del conflitto come base della democrazia sociale, che emerge in particolare dal “fondamento lavoristico della democrazia repubblicana”[8]: se in particolare si riconosce che il compromesso keynesiano “non era stato ottenuto senza lotte aspre”[9]. Neppure è un caso se nella fase successiva si avvia il radicamento del neoliberalismo e con esso il fallimento della democrazia sociale, che occorre analizzare soprattutto dal punto di vista della crisi della sovranità nazionale intesa come elemento alla base del compromesso keynesiano[10].
È lo stesso Keynes a mettere in luce questo aspetto in un contributo di fine anni Trenta, nel quale promuove l’abbandono del credo secondo cui “il rispetto del libero commercio” costituisce una “legge morale” fondata su “verità fondamentali”. Quel credo poteva forse essere adatto a un’epoca nella quale le migrazioni di massa avevano popolato nuovi continenti, dove i nuovi arrivati alimentavano la circolazione di beni e capitali, contribuendo così ad attenuare “le enormi differenze nel grado di industrializzazione e nelle opportunità di formazione tecnica tra i diversi Paesi”. Esaurita questa fase, “l’uniformità di sistemi economici in tutto il mondo” era però divenuta una fonte di squilibri, motivo per cui era opportuno “essere il più possibile liberi da interferenze derivanti dai mutamenti economici realizzati altrove”. Non per sponsorizzare il “nazionalismo economico”, ma per dichiarare oramai estinto “l’internazionalismo economico” di matrice ottocentesca, e con ciò tramontata la certezza che “una concentrazione di sforzi nazionali per attirare commercio estero, la penetrazione di una struttura economica nazionale da parte delle risorse e delle influenze di capitali stranieri e una stretta dipendenza della nostra vita economica dalle fluttuanti politiche economiche di Paesi stranieri assicurino la pace internazionale”: possono circolare “le idee, la conoscenza, la scienza… ma lasciamo che le merci siano prodotte in casa quando è ragionevole e possibile in modo conveniente, e specialmente che la finanza sia soprattutto nazionale” (J.M. Keynes, National Self-Sufficiency, in 22 Yale Review, 1933, p. 755 ss.).
Se così stanno le cose, il ritorno della sovranità non è per nulla “il segnale che un certo conservatorismo metodologico stia prendendo il sopravvento”[11], come del resto si ricava da uno scritto confezionato da von Hayek nello stesso periodo in cui Keynes motiva la posizione appena illustrata. Lì il padre del neoliberalismo promuove la costituzione di una “federazione interstatale” fondata sulla libera circolazione dei fattori produttivi. E lo fa per valorizzare il vincolo esterno rappresentato dalla forza condizionante di un “mercato unico”, che rende agli Stati “chiaramente impossibile influenzare i prezzi dei diversi prodotti”, e dunque ostacolare l’edificazione e lo sviluppo di un ordine economico incentrato sul libero incontro di domanda e offerta: tanto che “sarà difficile produrre persino le discipline concernenti i limiti al lavoro dei fanciulli o all’orario di lavoro” (F. von Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism, in 5 New Commonwealth Quarterly, 1939, p. 131 ss.).
La consapevolezza circa il contributo della dimensione nazionale all’emancipazione individuale e sociale caratterizza il pensiero di Lelio Basso, cui viene dedicato un contributo specifico[12]. Questi ebbe a parlarne in occasione del dibattito parlamentare dedicato all’adesione italiana al consiglio d’Europa sul finire degli anni Quaranta, quando stigmatizzò il comportamento della borghesia storicamente espressiva di una “coscienza nazionale”: se aveva abbandonato il “vecchio esasperato nazionalismo” e assunto come sua bandiera il “cosmopolitismo”, lo aveva fatto per motivi non certo nobili. Voleva resistere alla “pressione di classi che hanno acquistato la coscienza dei propri diritti e che, non potendoli soddisfare nel quadro delle antiquate strutture, minacciano di farle saltare” (Atti Camera 13 luglio 1949, p. 10292 ss.).
Nel corso degli anni Basso muterà orientamento: non si adopererà più per difendere lo Stato nazionale, bensì la sovranità popolare[13]. Ma è proprio questo il punto: la difesa della dimensione nazionale non può mai divenire un fine a se stesso, esattamente come non può divenirlo il potenziamento della dimensione sovranazionale. Entrambe sono strumenti che occorre valutare alla luce dell’esperienza storica, e in particolare delle condizioni che portarono i fascismi al potere.
Ricorda Karl Polanyi che la società è naturalmente portata a difendersi dal mercato autoregolato, a opporre al movimento verso “l’allargamento del sistema di mercato” un “opposto movimento protezionistico che tendeva alla sua limitazione”. Si assiste così a un “doppio movimento”, il primo volto ad affermare “il principio del liberalismo economico”, e il secondo quello “della protezione sociale che mirava alla conservazione dell’uomo e della natura oltre, che dell’organizzazione produttiva”. Quest’ultimo movimento, verso la ripoliticizzazione e risocializzazione del mercato, può avvenire nel rispetto dell’ordine politico democratico, come è successo con il New Deal, ma anche attraverso il suo affossamento, come si è verificato nel Ventennio (K. Polanyi, The Great Transformation, 1944). Di qui la conclusione circa l’essenza del fascismo, come abbiamo detto fondato sull’affossamento delle libertà politiche e la riforma di quelle economiche, con la precisazione che il primo costituisce un presupposto per la seconda: non si sarebbe potuto ripristinare l’ordine del mercato senza determinare la fine della democrazia.
Se così stanno le cose, la pace non è minacciata dalla dimensione nazionale, come amano ripetere i neoliberali, bensì dall’ingiustizia sociale e dunque dalle architetture istituzionali che la alimentano: come la dimensione sovranazionale così come si è sviluppata in ambito europeo, divenuto un vero e proprio dispositivo neoliberale. La soluzione non può però essere il recupero di una dimensione nazionale concepita come riaffermazione di identità forti ed escludenti, di matrice fondamentalmente premoderna: buone solo a sostenere la modernità capitalistica e dunque a non mettere in discussione l’assetto assicurato dal neoliberalismo attraverso lo sviluppo della dimensione sovranazionale.
Certo, neppure si possono recuperare i Trenta gloriosi e il compromesso keynesiano nelle forme assunte nel corso del Secolo breve, se non altro perché troppo debitore nei confronti del “dogma meccanicistico e newtoniano di rincorsa circolare fra consumo e produzione”[14]. Ciò non toglie però che si debba sottolineare come il compromesso keynesiano sia stato affossato per la sua capacità di bilanciare i rapporti di forze tra capitale e lavoro e di comprimere il raggio di azione del mercato quale strumento di redistribuzione della ricchezza. Neppure può impedire di riconoscere come il neoliberalismo si muova nella direzione opposta anche perché affronta il tema dell’inclusione sociale senza “interferire con l’attività economica”[15]. E come una inversione di rotta non possa prescindere dal riconoscimento che al momento non vi sono spazi per “un costituzionalismo senza Stato”[16], e che non vi saranno in un futuro prossimo: al momento solo la dimensione nazionale, in quanto terreno sul quale si può ancora sviluppare conflitto sociale, costituisce l’arena nella quale adoperarsi efficacemente per contrastare la tendenza dell’ordine neoliberale a sottrarsi “ai vincoli della politica, alla considerazione e concertazione collettiva delle questioni di innegabile interesse generale”[17]: in una parola alla democrazia sociale.
[1] M. Gambilonghi e A. Tedde (a cura di), Progettare l’uguaglianza. Momenti e percorsi della democrazia sociale, Sesto S. Giovanni, Mimesis, 2020, pp. 382. I contributi citati sono tutti contenuti in questo volume.
[2] M. Gambilonghi, Democrazie sociali, nuovo costituzionalismo e governo dell’economia: quale rapporto?, p. 25 ss.
[3] Lo sottolinea anche la Prefazione di M. Barcellona, p. 7 ss.
[4] M. Gambilonghi, Democrazie sociali, cit., p. 58 s.
[5] G.O. Marilli, Durkheim e l’ideologia repubblicana: lo Stato tra individualismo e solidarismo, p. 129 ss.
[6] I. Fedeli, Democrazia economica e sovranità dei produttori: Cgt e riforma istituzionale nel Piano del lavoro degli Anni Trenta, p. 159 ss.
[7] R. Cavallo, Hermann Heller e lo Stato sociale di diritto, p. 187 ss.
[8] A. Tedde, Lo Stato costituzionale del lavoro, p. 217 ss.
[9] M. Mangano, Socialdemocrazia, Welfare State e Stato nazionale, p. 271.
[10] M. Gambilonghi, Democrazie sociali, cit., p. 101.
[11] Come reputa invece A. Tedde, Lo Stato costituzionale del lavoro, p. 218.
[12] A.F. Olivieri, Sovranità popolare e democrazia sociale in Lelio Basso, p. 241 ss.
[13] Ivi, p. 262 ss.
[14] M. Carducci, Postfazione. La “servitù energetica” dello Stato sociale, p. 372 ss.
[15] D. Zamora Vargas, Dalla “lotta per l’uguaglianza” alla “lotta alla povertà”: la creazione di un nuovo soggetto politico. Francia e Belgio (1964-1988), p. 291 ss.
[16] Come ritiene invece A. Gusmai, L’equivoco della sovranità, p. 319 ss.
[17] G. Messina, Dalla democrazia sociale al neoliberalismo: la governance come paradigma dello Stato postmoderno, p. 345 ss.
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