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Dove va l’economia globale
Poche settimane fa il fondatore di Greenlight Capital, David Einhorn, ha affermato in un’intervista a RealVision:
“Non faccio parte della massa che crede nella transitorietà dell’inflazione. I privati stanno allocando tutti i loro capitali in settori dove i players, principalmente “software-centrici”, in rapida crescita stanno “cannibalizzando” le aziende concorrenti nel mondo”. (n.d.r.: Pensiamo, ad esempio, all’impatto che ha esercitato ed esercita Amazon sulle strutture distributive regionali o nazionali e sui piccoli esercizi commerciali, che divengono spesso obsoleti ed incapaci di rimanere sul mercato). Ha quindi proseguito: “Il punto è che il problema non è solo investire capitali in aziende che “effettivamente” producono e realizzano cose o forniscono altri tipi di servizi che le persone trovano meno interessanti, anche solo per una questione di prezzo: il punto è che, anche grazie a questo fenomeno di cannibalizzazione, ora ci stiamo trovando di fronte alla carenza di prodotti e servizi se questi hub software-centrici di distribuzione non riescono a tenere il passo! Il fenomeno non è da poco e rappresenta uno dei driver attuali dell’inflazione “across the board”.
Di fatto, dopo quasi due decenni di rallentamento dell’attività economica, è possibile sostenere che la politica dei tassi di interesse bassi è un esperimento sostanzialmente fallito.
In economia, ce lo insegnano nei primi corsi base, non esiste un “pranzo gratis”: ogni decisione presa dalle autorità, monetarie e/o fiscali, ha delle conseguenze, anche quando si rende disponibile denaro a basso costo. Sussistono delle esternalità negative legate a politiche monetarie perdenti e salvataggi infiniti, che alla fine si traducono in una progressiva compressione delle classi lavoratrici e medie. Simili politiche si fondano sull’idea che tassi bassi favoriscono le decisioni di investimento ed alimenteranno un potente boom economico. La realtà ha dimostrato che in larga parte questo è un errore: una quota prevalente del funding alimenta, come dimostra la storia degli ultimi 20 anni, l’investimento in attività finanziarie senza riverberarsi in misura altrettanto massiccia sulla crescita economica.
Intendiamoci bene: ovviamente, le autorità possono fornire forme temporanee di soccorso quando si verifica una crisi al fine di stabilizzare il sistema ed evitare una spirale di insolvenze.
Tali misure non devono diventare però, come invece è successo, il nuovo paradigma della crescita, visto che il buon funzionamento del capitalismo si basa sulla relazione tra rischio e rendimento. Interrompere tale sana relazione significa minare alla base, in modo eversivo, il buon funzionamento del sistema.
In altre parole, i tassi di interesse devono essere sufficientemente alti da spingere i soggetti in eccesso di risparmio (in lessico comune “agenti economici facoltosi” o “benestanti”) ad investire in nuovi progetti produttivi (e non esclusivamente finanziari), alla ricerca di alti rendimenti sul capitale, e in modo che un simile processo possa ripetersi ciclicamente nel lungo periodo.
Inoltre, l’evoluzione economica è caratterizzata NORMALMENTE da cicli: ciò significa che è caratterizzata da una forma di equilibrio “tratteggiato”: fasi di equilibrio alternate da fasi di squilibrio e così via. Le crisi non dovrebbero quindi essere trattate come “catastrofici accidenti”, ma piuttosto come eventi “strutturali e necessari”. In altre parole, l’obiettivo di qualsiasi autorità politica o monetaria seria non dovrebbe essere quello di evitare ad ogni costo i rallentamenti o le cadute della crescita del PIL, ma di combattere le distorsioni e garantire la stabilità del sistema.
Oggi viviamo invece in paesi e economie dove ciò che conta di maggiormente è “realizzare guadagni in conto capitale rapidi e significativi”. Le persone non stanno più investendo in progetti, stanno solo scommettendo sui mercati, disposte a far parte del prossimo grande rialzo di mercato azionario. Ciò si traduce, nella maggior parte dei casi, nell’acquisto di azioni di giovani società tecnologiche senza alcun bilancio che vendono la vaga promessa di un prodotto killer (già questo denota il potenziale “distruttivo” di questo comportamento), o acquistare azioni di società “zombie” senza alcuna prospettiva futura, per non parlare dei NFT (Non Fungible Tokens). Insomma, il mondo reale e produttivo viene distrutto dal sogno di “unicità” e “scarsità”. Probabilmente, è proprio alla scarsità cronica (di beni) che questo modo di ragionare ci condurrà alla fine.
Anche se molti sostengono che siamo entrati nella cosiddetta “era esponenziale” in cui contano solo le attività digitali, la produzione continua a rimanere la linfa vitale di un’economia sana ed a misura d’uomo. Secondo il pensatore ceco-canadese Vaclav Smil: “non c’è innovazione né prospettive di crescita sostenibile senza un settore manifatturiero florido e sano”, e ciò può accadere solo in presenza di un contesto caratterizzato da tassi di interesse “normali”, non depressi.
L’economia può certamente sopravvivere a tassi più elevati, sia oggi che nel prossimo futuro. Sul lungo termine, ne ha persino bisogno. Il fatto è che oggi tutti hanno paura delle conseguenze, sul breve periodo, di una simile evoluzione, a partire dai responsabili della politica monetaria.
In effetti, la transizione non sarebbe semplice, ma appare oltremodo necessaria. L’idea che sia necessario proseguire con politiche monetarie anche ultra-espansive si fonda sulla convinzione che questa è la strada attraverso cui i paesi industrializzati (occidentali ed orientali) o comunque ad economia avanzata, potranno risolvere il loro problemi di debito crescente. In realtà i fatti dimostrano il contrario: la situazione del debito continua a peggiorare, perché i tassi compressi stimolano la sua crescita, in assenza della penalizzazione rappresentata dal un costo reale (leggi tasso di interesse reale) positivo. In questo modo temo che l’economia continuerà ad evolversi verso una macchina ultra-speculativa che distruggerà ogni seria prospettiva di creare beni materiali a lungo termine, mettendo a repentaglio lo sviluppo futuro sia dell’America che dell’Europa. In Asia abbiamo invece un manifattore di primo ordine, la Cina, che ha comunque problemi di debito ma con il back-up di un sistema produttivo ancora forte e strutturato. Piaccia o no, la Cina ha comunque imboccato una svolta riformista già a partire dal 2015.
Sfortunatamente, un cambiamento del genere nell’emisfero occidentale (oltre che in Giappone) ed in particolare negli USA, che rappresentano la “locomotiva” degli altri mercati – certamente di quelli azionari – finanziari avanzati, appare purtroppo assai improbabile.
- Primo, troppe persone sono abbagliate – quasi ipnotizzate – dall’impennata dei prezzi delle attività finanziarie e reali. Anche nel settore finanziario, gli addetti sono convinti che la corsa al rialzo dei prezzi degli asset finanziari – in particolare dell’equity – rifletta un contesto in cui l’economia (quella reale) sta andando bene. Risulta quindi sorprendente scoprire quante persone credono davvero nell’ipotesi dei mercati efficienti. Contemporaneamente, chiunque cerchi di allertare il pubblico sottolineando i rischi di questa situazione viene deriso e chiamato “Cassandra”. Alcuni pare abbiano anche avuto, negli USA, il privilegio di ricevere una visita dalla SEC proprio per questo motivo: come se diffondere opinioni ribassiste riguardo ad un mercato “artificialmente gonfiato” fosse un crimine federale.
- Secondo, un numero preoccupante di leader politici è eccessivamente coinvolto e/o corrotto per poter fare qualcosa al riguardo. Al di là del caso dei presidenti della Fed che fanno trading su azioni o obbligazioni municipali utilizzando verosimilmente, a meno di una galoppante schizofrenia, di informazioni privilegiate, appare scandaloso che il Presidente della Camera abbia guadagnato milioni grazie al trading di opzioni call. Se le persone incaricate di cambiare le regole sono influenzate dai prezzi di mercato, allora chi può spingere le serie riforme necessarie?
- “Last but not least”, le banche centrali sono ormai intrappolate nel meccanismo che hanno avviato nel 2020 quando, sostenendo – nella sostanza “direttamente” – i titoli obbligazionari del settore privato hanno aperto un pericoloso vaso di Pandora. Esse infatti hanno così aggiunto troppi rischi al loro bilancio: una quota crescente del valore delle principali valute come il dollaro o l’euro è ora sostenuta da attività rischiose come le obbligazioni societarie (compresi gli ETF ad alto rendimento).
La Fed e la BCE devono ora garantire che il prezzo di mercato di quei titoli non scenda, possibilmente mai, per tutelare il valore delle loro valute. Viceversa significherebbe perdere il controllo. Purtroppo visto che i mercati dei capitali sono di conseguenza condizionati ed ancorati ad una politica di QE infinita, le banche centrali non hanno altra scelta che continuare ad espandere il proprio bilancio per sostenere il valore di tali attività. Il che significa che, in ultima analisi, sono costrette ad acquistare asset ancora più rischiosi (Janet Yellen una volta ha suggerito, addirittura, che la Fed dovrebbe poter acquistare azioni), alimentando così un circolo vizioso.
Purtroppo, ad un certo momento arriverà un punto in cui non ci sarà altra scelta che cambiare direzione. L’augurio è che ciò avvenga in modo disciplinato e, possibilmente, con un sufficiente grado di trasparenza. Certo, a quel punto sarà difficile evitare una crisi di una certa entità, anzi una crisi acuta visto che gli eccessi speculativi non saranno assorbibili agevolmente. Ma tutto ha un prezzo e l’economia ha davvero bisogno di tassi più alti.
Per contro, se non avviamo il cambiamento in modo autonomo, prima o poi le economie industrializzate saranno colpite da eventi ancora più drammatici (visto che ci si infila sempre di più nel “cul de sac”). Come ha affermato Jonathan Tepper, “il rischio è come l’energia e non può essere distrutto, può solo essere trasformato” e di questo, personalmente, sono fermamente convinto.
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