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Cop26: perché è destinata a fallire
Occorre una certa dose di ingenuità per essere ottimisti circa il fatto che la Cop26 possa prendere provvedimenti che limitino il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi. È un gioco delle parti quello recitato dai potenti del mondo che sembrano accogliere le tesi dei giovani dei Friday for future, con il premier inglese che riprende le parole di Greta, bla bla bla, per stigmatizzare l’inazione dei potenti. Dimenticando che lui stesso fa parte dei potenti ed è a capo di uno stato che, come ricorda Manlio Dinucci1, contribuisce alla corsa agli armamenti che rischia di portare il mondo verso una catastrofe nucleare.
Il non detto alla Cop26 è proprio la divisione globale che vede gli stati contrapposti gli uni agli altri. E poiché la sfida al clima va combattuta attraverso l’unità e non tramite la divisione e la competizione, tale sfida è destinata ad essere persa rovinosamente. A un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, il mondo si ritrova ancor più diviso di prima, come mostra l’assenza di collaborazione in tema di vaccini. Il main stream dell’informazione contrappone agli accordi, timidi in realtà, che stanno scaturendo dal vertice, la posizione defilata della Cina, primo produttore mondiale di gas serra (ghg nella sigla inglese). Cina e Russia sono candidate a divenire il capro espiatorio per il fallimento del vertice (ultimo aggiunto al coro di accuse è l’ex presidente USA Barack Obama). Viene sovente ricordato il primato della Cina, responsabile del 27,92% del totale delle emissioni contro il 14,45% degli Stati Uniti. Ma se passiamo al dato procapite, gli Stati Uniti producono il 16.06% di emissioni contro il 7,1% del cittadino cinese. Il che significa che, in rapporto alla popolazione, gli Stati Uniti producono il doppio di ghg della Cina. Inoltre, bisognerebbe considerare che storicamente gli Stati Uniti hanno emesso più Co2 di qualsiasi altro paese. D’altra parte, per tutto il XX secolo, l’Occidente industrializzato ha inquinato più di ogni altro, arrivando a permettersi il tenore di vita attuale a scapito del resto del globo (le immissioni cumulative dal 1750 sono rispettivamente del 24,82% per gli Usa, del 22.07% per l’UE, del 13,31% per la Cina e del 6,89% per la Russia – il dato del Regno Unito è scorporato da quello dell’UE e si attesta al 4,71%).
Come osserva Matteo Dian2, la Cina brama il riscatto da un’epoca di sudditanza e decadenza affermando il proprio ruolo nella scena internazionale. Non deve stupire che la modernizzazione economica sia considerata funzionale alla prosperità e alla potenza dello stato, requisiti necessari a difendere il paese dall’aggressione in un sistema internazionale competitivo e violento. A differenza degli Stati Uniti, la Cina non mira all’egemonia globale e si percepisce come fautrice di un nuovo ordine politico ed economico internazionale, contrapposto all’ordine mondiale guidato dagli USA incapace di garantire giustizia, equità e inclusione. Quella cinese è una visione globalista senza egemonia ma con sfere di influenza regionali. Gli Stati Uniti, che pure, come dimostra la vicenda afghana, stanno perdendo l’egemonia globale, mirano a contenere la supremazia cinese nel Sudest asiatico. In tale ottica viene promosso il Quad, ossia un’alleanza che al gigante orientale oppone il quadrilatero costituito, oltre che dagli stessi Usa, da Giappone, Australia e India. La guerra latente che si sta combattendo nel mar della Cina, con il nodo Taiwan che ne costituisce un pericoloso innesco, dimostra che l’estrema tensione geopolitica non lascia spazio agli accordi climatici.
Neanche gli impegni contro la deforestazione lasciano ben sperare. E non solo perché nel 2014, a New York, ne furono presi di analoghi senza che sia stata impedita una crescita nella perdita globale del patrimonio boschivo. Ma anche perché adesioni di facciata come quella del presidente brasiliano, che ha aumentato dell’88% la distruzione della foresta amazzonica (già incrementata invero dai governi precedenti), non sono credibili. Attacchi alle comunità indigene dell’Amazzonia continuano perfino durante la conferenza3. Queste aggressioni, finalizzate a cacciare dalla foresta gli indios che la abitano, per sfruttarne e deforestarne il territorio, sono aumentate notevolmente sotto l’attuale presidenza. Bolsonaro ha preso impegni nel combattere la deforestazione illegale ma non quella da lui stesso promossa. Per guardare in casa nostra, secondo il WWF, l’UE è seconda solo alla Cina per deforestazione incorporata, ossia inclusa nei prodotti importati e di provenienza tropicale. L’Italia si situa al secondo posto nella classifica degli otto paesi UE responsabili dell’80% della deforestazione inclusa nei prodotti importati4.
In sostanza, il mondo è tutt’altro che pronto alla collaborazione. Quale paese posporrà i propri interessi nazionali per favorire strategie globali nella consapevolezza che non gli sarà restituita la stessa cortesia? Il fallimento della Cop26 sarà dovuto alla miopia che tratta la questione climatica come a sé stante. Tenendo fuori dalle trattative le tematiche del futuro dell’ordine internazionale, della disuguaglianza tra e all’interno degli stati, dello sfruttamento tra Nord e Sud del Mondo e concentrandosi solo sull’inseguimento della chimera tecnologica, la Conferenza non è altro che una parata di buone intenzioni. Buona per ingannare le pubbliche opinioni. Le stesse politiche dell’immigrazione, tese al contenimento di un fenomeno che ha anch’esso determinato in larga parte dalla crisi climatica e dalla desertificazione dei territori, sono indice della scarsa comprensione di un dramma epocale.
Gli impegni presi al G20 di Roma per aiutare i paesi in via di sviluppo non migliorano la visione d’insieme. Analogamente a quanto avvenuto con la pandemia da covid-19 e con l’anodino programma Covax, i fondi stanziati sono insufficienti. Almeno il triplo, fino al 2030, e il quintuplo, al 2050, dei cento miliardi previsti dal G20, sono stimati dall’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo) come necessari per permettere ai paesi in via di sviluppo di controllare le emissioni senza comprometterne gli obiettivi di sviluppo. Il rapporto licenziato dall’organismo delle Nazioni Unite pone una serie di questioni per non aggravare i danni che i paesi del Sud del mondo avranno sia a causa della crisi climatica che per le iniziative adottate per fronteggiarla. Oltre a quello dei fondi da erogare (e per i quali risulta di dubbia efficacia il ricorso prioritario alla finanza privata) vi sono le questioni di una necessaria ristrutturazione dell’architettura del debito internazionale e della riscrittura delle regole in tema di proprietà intellettuale. Il segretario dell’UNCTAD osserva che che il cambiamento climatico non ha frontiere e che la strategia per affrontarlo deve essere coordinata globalmente5.
Come consigliava il rapporto del Club di Roma del 1972 sui limiti dello sviluppo, i paesi ricchi dovrebbero moderare il proprio tenore di vita e aiutare quelli in via di sviluppo a progredire e ad affrancarsi da fame e malattie fornendo tecnologie e finanziamenti. Da allora, la ricetta rimane valida e costituisce l’unico motivo serio per investire speranze nella tecnologia. Ma la sua riuscita è impedita da un modello che basa la ricchezza di alcuni sullo sfruttamento dei più. L’Occidente dovrebbe rivedere le basi del proprio sviluppo nonché lo stesso concetto di progresso. Questo si fonda su un’agenda dettata da un capitalismo predatorio che genera sfruttamento dell’uomo e della natura, competizione, disuguaglianza e crisi ricorrenti, ormai non solo economico-sociali ma anche sanitarie e ambientali. Un sistema che mostra di essere al collasso proprio grazie alla crisi climatica ma che, avendo improntato dei propri principi la cultura mondiale, non si è capaci di arrestare e di cambiare. Inoltre, la sua ricetta è stata fatta propria dai paesi in via di sviluppo ai quali si rimprovera ora di ambire a ciò che da decenni viene spacciato come il modello privo di alternative. A vedere gli sforzi profusi a Glasgow, viene da parafrasare Jonathan Franzen chiedendo ai potenti della terra: e se smetteste di prenderci in giro?
1https://ilmanifesto.it/difendono-il-clima-mentre-preparano-la-fine-del-mondo/
2Matteo Dian, La Cina, gli Stati Uniti e il futuro dell’ordine internazionale, Il Mulino, 2021.
3 https://www.theguardian.com/world/2021/nov/08/armed-attack-brazilian-amazon-delegate-cop26
4 https://www.wwf.it/pandanews/wwf-life/progetti-e-iniziative/lue-e-il-secondo-importatore-globale-di-deforestazione-tropicale/
5 https://unctad.org/news/scaling-climate-adaptation-finance-must-be-table-un-cop26
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