A leggere i giornali, la recente circolare del Ministero dell’Interno a proposito delle manifestazioni pubbliche è il salvifico siero che epurerà le arterie commerciali italiane da una sorta di occupazione permanente che rischierebbe di far collassare l’economia nazionale da un momento all’altro. Numerosissimi i virgolettati che riportano le parole di soddisfazione del presidente di Confcommercio Carlo Sangalli, che gode dei suoi legittimi giorni di celebrità, mentre qualcuno in rete nota ironicamente come i commercianti, piccoli o grandi che fossero, siano stati tra i più strenui oppositori delle misure di contenimento del contagio adottate tanto da questo esecutivo quanto dal precedente. Sagacia ben riposta ma inutile: è ormai prassi che si sia tutti bravi con il contenimento degli altri. Tanto che la partita si gioca in gran parte sull’abilità di definire questi “altri”.
A chi tocca adesso? È in quest’ottica che lo slogan “Stretta sui no pass”, divenuto la decorazione della facciata di ogni edicola italiana, assume tutto un altro interesse, tutto un altro fascino. Si tratta ovviamente di una frase da titolo, e chiunque si sia premurato di leggere almeno un articolo saprà che il provvedimento riguarda tutte le manifestazioni. Tuttavia la disequazione che informa l’identità civile contemporanea è che tanti titoli valgono più di un articolo, per quanto questo possa essere lungo e di buona qualità. La percezione nazionale è in gran lunga il corollario dell’arte di intrecciare titolo e numero, e il quarto potere si esprime sempre di più in forma telegrafica, lapidaria. In moltissimi, anche su La Fionda, hanno denunciato come la problematicità del provvedimento è forse moltiplicata, non attenuata, dal fatto che riguardi tutte le manifestazioni, eppure queste critiche non scalfiscono la recezione del provvedimento: nella coscienza collettiva resta il provvedimento anti-no pass, se non anti-no vax. È un appunto di cruciale importanza, in quanto la circolare va ad incontrare la mentalità dell’italiano familistico di natura e reso stanco dalla crisi, attento soltanto a restare fuori dal prossimo provvedimento. Poco importa se la carta indica che questa volta c’è dentro anche lui se poi questo coinvolgimento non è percepito. L’implicito che passa di testa in testa recita: “Tutte le piazze sono no pass” (si legga “no vax”). È davvero così?
Con l’inizio di novembre il blocco dei licenziamenti è ufficialmente finito per tutta Italia. Una fine ben accolta nei toni dalla politica, ma in realtà comprensibilmente temuta. È difficile prevedere quali saranno gli effetti nel medio termine della fine di un espediente la cui utilità è stata ammessa, anche se a denti stretti, in maniera abbastanza trasversale. È ovviamente possibile guardare agli effetti della “prima” fine del blocco, quella scattata a luglio scorso e riguardante manifattura ed edilizia. Bankitalia riporta un prevedibile aumento dei licenziamenti, che tuttavia resta moderato. Tirare delle conclusioni rimane però difficile, con la straordinarietà della situazione attuale che continua ad essere presente e viva nello strumento della cassa integrazione Covid, gratuita per chi ne usufruisce. Molte aziende ne fanno ancora uso ed è stata confermata una proroga per i settori per i quali è stato sollevato il blocco; nodo cruciale di questo strumento è l’impossibilità di licenziare per le aziende che vi accedano. Di fatto, dunque, il blocco va avanti, precisamente fino a gennaio, quando dovrebbe intervenire un decreto apposito che contenga le misure di tutela volte a prevenire lo sprofondamento in una catastrofe sociale. La Confederazione unitaria di base parla di un milione di posti di lavoro a rischio, con il corollario di conseguenze per consumo interno e altri parametri, in un futuro contesto in cui, prevedibilmente, le autorità vorranno iniziare a chiudere con crescente decisione il rubinetto della spesa pubblica per tornare alla consueta morigeratezza pre-crisi. Nessuna svolta keynesiana all’orizzonte, con buona pace di chi, pur con argomenti giustissimi, prevedeva la necessità di un cambio di paradigma come conseguenza della pandemia (si legga l’articolo del 18 marzo 2020 di Fabrizio Maronta su Limes). Prospettive del genere suggeriscono una notevole esplosività sociale; anche se le rivendicazioni dei lavoratori non dovessero convogliarsi in un’unica mobilitazione generale, le singole lotte nelle grandi aziende hanno dimostrato di riuscire ad occupare porzioni importanti della scena mediatica e politica nazionale. Chiunque conosce la questione della GKN, una lotta quasi unica nella storia nazionale recente, con un successo che, seppur momentaneo, è verosimilmente riuscito a turbare il sonno dei soliti noti. Si è assistito ad una solidarietà ampia e trasversale e ad un’ostinatezza che rappresenta un pericoloso esempio nel quadro italiano, con il Ministero dello Sviluppo Economico che si trova a fronteggiare 87 tavoli di crisi. Peraltro, con una mano dietro la schiena dato che l’intervento diretto dello Stato, rivelatosi essenziale per il caso Corneliani, è stato già accantonato per il futuro dal ministro Giorgetti, vera anima liberista della Lega. Il Paese si trova sulla soglia del disastro sociale e ad una conseguente epidemia di contestazioni? È presto per dirlo, ma in ogni caso l’intenzione della politica resta quello di premunirsi, con la familiare alternanza di bastone e carota.
Questo è lo stato dell’arte in Italia, ma neppure le conseguenze della circolare del Viminale possono essere ridotte a quelle immediate, pratiche. Siamo davanti non tanto ad una sovversione improvvisa dei principi, quanto piuttosto ad un loro smottamento dalle conseguenze imprevedibili. Bisogna analizzare la grammatica interna del provvedimento per comprenderne la portata. In primis, nel dibattito è spesso assente una riflessione sul senso della manifestazione pubblica. Volendo essere provocatoriamente riduzionisti, si potrebbe dire che il diritto a manifestare altro non sia che il diritto a creare disagio. Una lotta risulta vittoriosa quando la propria pratica di mobilitazione si dimostra talmente efficace nel disturbare l’ordine pubblico che la controparte sociale o le istituzioni sono costrette a modificare le proprie pretese. Non si tratta di una mera espressione del dissenso, non è la ritualizzazione collettiva di un discorso con finalità persuasive, bensì il tentativo di condizionare concretamente la Realpolitik dell’avversario del momento. La produzione sistematica di disagio è una forma di lotta non-mediata, e in quanto tale la sua legittimazione pubblica nella forma del diritto alla protesta non deve essere ricondotta forzosamente al diritto di parola o di “espressione”; rappresenta piuttosto un ambito autonomo, con le proprie leggi e i propri principi. Per quanto sia comprensibilmente comune, la categorizzazione delle manifestazioni pubbliche come “espressione di dissenso” è in gran parte una forzatura logica. È ovvio che operando con un’assimilazione talmente impropria si potrebbe giungere all’iperbole per cui il corteo dei lavoratori della GKN o l’occupazione di un liceo potrebbero benissimo, agli occhi di un osservatore, svolgersi nella meno rumorosa forma di un meeting su Zoom. Magari a telecamere spente, tanto l’importante è esprimere la propria opinione e per quello la parola basta e avanza. Riconsiderando la struttura della protesta secondo la sua forma deliberativa, più che apodittica, appare evidente come non tanto il provvedimento in sé, quanto le motivazioni che sono state addotte a sua difesa, sono destinate ad avere un considerevole impatto sulla logica della vita civile. Il risultato della radiografia della retorica governativa è che il diritto a non subire disagi ha la priorità rispetto al diritto a creare disagi. Si è parlato di bilanciamento dei diritti, ma la verità è che c’è ben poco da bilanciare: i due diritti sono incompatibili, e il legislatore è semmai chiamato a far pratica di un decisionismo delle priorità. Inutile anche fare appello al compromesso: quando la natura della dicotomia è quella di un’insolubilità quasi tragica, ogni compromesso è un compromesso orientato. Di fatto la classe politica, non solo con il provvedimento ma anche con la sua interpretazione, ha sancito la secondarietà, e quindi la reprimibilità secondo necessità, del diritto alla protesta. Una filosofia che ricorda molto da vicino quella che ha istruito la legge greca sugli scioperi nel novembre dello scorso anno, che prevede un numero di lavoratori attivi garantiti anche durante gli scioperi al fine di non creare disagio economico, decurtando così l’efficacia dello sciopero stesso. Il passo è molto più breve di quanto non sembri. È evidente che si presenti un cambiamento di per sé dirompente della dinamica della vita politica, che perlopiù incontra un ambiente che ne ingrossa gli effetti. In Italia esiste una cultura della delega, non una cultura di piazza, e l’iperbole del corteo su Zoom non è, nella fattispecie del nostro Paese, così lontana dalla realtà. In Francia verosimilmente la recezione sarebbe stata diversa. Per comprendere la recezione italiana della circolare è indispensabile ricordare che per la stragrande maggioranza degli italiani l’esistenza civile si riduce ad un cadenzato andirivieni da e verso la cabina elettorale, tra l’altro fattosi sempre più rado.
Infine, è opportuno domandarsi quale Stato ci viene consegnato da questa circolare, e in realtà dall’intera esperienza della gestione della pandemia. Le recenti novità vanno lette come un ulteriore passo avanti nella direzione di una differente teoria dello Stato, secondo un cammino intrapreso ben prima della crisi sanitaria. Uno Stato sempre più volto a un pragmatismo ideologico, legato ad una logica di governo della contingenza. Uno Stato che somiglia moltissimo allo Stato amministrativo descritto da Schmitt in “Legalità e legittimità”. Citiamo: “È pensabile uno Stato amministrativo il cui tratto specifico sia il provvedimento preso solo in base allo stato delle cose, con riferimento ad una situazione concreta e diretto a finalità pratiche. […] Lo Stato amministrativo si può richiamare alla necessità concreta, allo stato delle cose, alla forza della situazione, ai bisogni del tempo e ad altre giustificazioni non determinate da norme ma da situazioni. In corrispondenza a ciò, esso trova il suo principio esistenziale nell’adeguatezza allo scopo, nell’utilità”. Una costruzione che si concreta sempre più, nel verso di un ampliamento smisurato di una Ragion di Stato che va a comprimere lo stato della ragione. Perché i parametri dell’efficienza saranno sempre decisi aprioristicamente e politicamente, perché ogni priorità è determinata dalla decisione. “Basta che funzioni” è il motto che struttura lo spettro dell’amministrazione funzionalista della vita pubblica, con la decisione finale sull’efficienza del funzionamento che resta di fatto appannaggio di una ristretta classe dirigente. Uno Stato libero da principi che ne intralcino l’azione, libero di correre verso un non meglio definito “bene comune”. Si leggano i commenti ironici di Verdelli sulla critica per cui un Draghi superpresidente rappresenterebbe una violazione de facto dei principi costituzionali (come riportato, tra gli altri, da Ainis, non proprio un pericoloso anarchico). L’ironia dell’ultimo uomo nietzschiano, che seppellisce problematicità enormi con un po’ di improvvisato sarcasmo. L’Europa tutta si sta consegnando allegramente tra le braccia di questo positivismo di Stato. Scelta legittima come può esserlo qualsiasi scelta, ma con la pecca di essere irriflessa, spontanea, inverosimilmente semplice. Come accogliere il sorgere di questo Leviatano piccolo borghese deve essere, piuttosto, l’inevitabile interrogativo che ogni osservatore consapevole deve e dovrà porsi nel prossimo futuro.
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