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In difesa dei “cattivi maestri”
Quello che sta capitando ad Agamben e Cacciari, tollerati a stento e con crescente diffidenza dal “circo mediatico”, è emblematico di una generazione, quella del ’68, che si era fatta interprete con coraggio di valori antiautoritarii e antigerarchici. È emblematico perlomeno sotto due aspetti.
In primo luogo, non può essere casuale che l’allarme più acuto per una deriva tecnocratica e neo-autoritaria che starebbe correndo il nostro Paese, provenga da quella leva intellettuale. Da chi cioè ha contribuito in modi e forme differenti, con l’ultima fiammata rivoluzionaria che ha conosciuto l’Occidente, ad aggredire in Italia quei grumi clerico-fascisti che erano sopravvissuti alla caduta del fascismo e transitati nel nuovo Stato repubblicano. Cacciari e Agamben hanno affinato una particolare sensibilità, vivendo in presa diretta la transizione tra un prima e un dopo, di una forma democratica più avanzata e più aderente al dettato costituzionale.
Certo, non hanno testimoniato in pari grado, almeno in quel momento, delle intrinseche spinte consumistiche e mercificatrici che si preannunciavano; ma per quello occorreva tutto il genio visionario e profetico di un Pasolini, con Gramsci forse il più grande intellettuale italiano del ‘900.
Questa particolare sensibilità insomma, maturata in uno snodo decisivo della nostra storia recente, forse gli sta consentendo di avvertire molto prima e meglio di tanti altri il pericolo che si sta correndo, di un tragitto inverso e regressivo della forma democratica. Da questo punto di vista andrebbe riservato loro da parte del mainstream mediatico anziché lo scherno e l’ironia una qualche forma di rispettoso ascolto, analoga, sia pure alla lontana, a quella che un tempo le tribù accordavano ai più vecchi e saggi del loro villaggio.
Non deve poi stupire che provenga dalla filosofia l’allarme, sapere critico per eccellenza e non “chiacchiera”, come pure è stata bollata, che non si preoccupa di essere funzionale ad alcunché in quanto inutile per statuto. il suo santo protettore, va sempre rammemorato, è quel Socrate, definito dall’amico Platone «il più giusto tra gli uomini», messo a morte al termine di un regolare processo dalla sua stessa Atene.
Il secondo aspetto attiene maggiormente al profilo teoretico. Entrambi i filosofi, sia pure lungo itinerari di pensiero e di studio differenti, esprimono un medesimo attaccamento a quella oramai lontana radice culturale, accordando costantemente un primato ontologico all’essere umano in quanto tale. Ovviamente nulla di paragonabile a quelle concezioni individualistiche tuttora dominanti: la persona di cui parlano non è l’individuo atomizzato e glorificato dal capitalismo neoliberista, nella sua dimensione propagandista, ma un essere costitutivamente in relazione con l’altro.
L’impresa quasi temeraria è quella di arrivare al collettivo dal basso mediante cerchi sempre più ampi di riconoscimento reciproco, fino magari a costituire quel “formicaio” finalmente regolato, in cui nessuno più comanda perché tutti partecipano e si autodeterminano. In una simile visione, non può trovare spazio ovviamente una libertà solo negativa, condensata nella formula «la mia libertà finisce dove comincia la tua», ripetuta non a caso come un mantra nella società dei mercati. Piuttosto quella ben più pregnante richiamata da Franco Fortini, secondo cui «la mia libertà inizia, non dove finisce, ma dove inizia la libertà dell’altro». La libertà è una relazione.
Ora, una simile prospettiva filosofica, per chi la persegue ostinatamente, non potrà che entrare in rotta di collisione col paradigma immunitario tuttora vigente, giustificato dall’emergenza, che corrode alla radice le condizioni stesse di possibilità di ogni relazione o legame sociale. Dunque, i due filosofi si stanno limitando a fare e bene il loro lavoro. Una democrazia forte e consapevole di sé, sia pure scossa dall’emergenza pandemica, non dovrebbe mai rinnegare se stessa e i suoi principi. O, peggio, contribuire alla costruzione di un nemico interno, magari collettivo, per giustificarne la sospensione. Ricevere, poi, da un giornalista lo sberleffo di “viro filosofo”, come è capitato a Cacciari, è la crudele nemesi di una società che non riuscendo ad essere all’altezza delle sue promesse democratiche finisce per travolgere i suoi figli più consapevoli.
Dunque, il problema del presente non è tanto il dissenso, ma un sistema sempre più rigido e irriflesso che è solo capace di stigmatizzare. Che ha deciso forse di capitalizzare la paura per giustificare, in nome dell’emergenza, politiche di controllo e sorveglianza sociale e per converso di ulteriore deregolazione economica. Col rischio tutt’altro che remoto di ritrovarsi con politiche lacrime e sangue da contrastare senza più avere l’agibilità sociale per farlo. Ma una volta che si mette in moto un convoglio simile, la destinazione può risultare piuttosto inquietante. Quei due “vecchi” della tribù italica, con accenti diversi, ci stanno mettendo in guardia a tirare il freno di emergenza finché in tempo, per evitare altri traumi, magari irreparabili, oltre a quello pandemico.
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