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L’Italia ripudia la guerra
Articolo 11 della Costituzione italiana
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Non sono un costituzionalista ma mi pare che da questo articolo della Costituzione derivino a cascata quattro considerazioni che saltano all’occhio:
- L’articolo 11 non implica la rinuncia ad avere una forza armata
- Esclude la guerra di offesa ma non quella di difesa
- Con questo articolo l’Italia si impegna a cedere parti di sovranità nazionale alle “organizzazioni internazionali” che si battono per assicurare “la pace e la giustizia fra le nazioni”.
- L’articolo 11 dice che l’Italia “ripudia” la guerra, non che “rinuncia” o “condanna” la guerra. In altre parole, l’Italia rifiuta l’idea stessa della guerra d’offesa. Il che dovrebbe implicare anche la condanna di ogni propaganda bellica, delle dottrine che esaltino o giustifichino la guerra, e la condanna della guerra, in particolare di aggressione, ovunque ciò avvenga.
Come si può capire, soprattutto alla luce degli eventi degli ultimi decenni, queste quattro considerazioni, miscelate insieme, non possono che precipitarci in un dibattito molto complesso. È possibile avere un esercito ed escludere la guerra, e persino il discorso sulla guerra? Come si distingue una guerra “di offesa” da una “di difesa”? Che cosa vuol dire, in concreto, “assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni”, magari nell’ambito di organizzazioni sovranazionali come l’Onu, che raccoglie 193 nazioni che in gran parte, una per una e a volte anche in gruppo, tutto fanno tranne che garantire pace e giustizia, a cominciare dai loro stessi cittadini? E perché sono sempre più frequenti le guerre fatte proprio in nome della pace e della giustizia?
La prima cosa utile da fare, forse, è rendersi conto che questo dibattito non è nato, come molti sembrano pensare, dopo la fine della Guerra Fredda e del grande surgelamento imposto nel mondo bipolare dalla deterrenza atomica ma, al contrario, attraversa gran parte della storia del mondo occidentale.
Un breve riassunto. Possiamo cominciare con Agostino d’Ippona (354-430 d.C.), che nel De Civitate Dei abbozzava la teoria che sarà poi chiamata “della guerra giusta”. Scriveva Agostino: “La pace deve essere nella volontà e la guerra solo una necessità, affinché Dio ci liberi dalla necessità e ci conservi nella pace. Infatti non si cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per ottenere la pace! Anche facendo la guerra sii dunque ispirato dalla pace in modo che, vincendo la guerra, tu possa condurre al bene della pace coloro che sconfiggi. Beati i pacifici – dice il Signore – perché saranno chiamati figli di Dio … Sia pertanto la necessità e non la volontà ad eliminare il nemico che combatte”. Belle parole, quelle di Agostino, che però avevano anche una funzione più ordinaria e materiale: offrivano una risposta alle esigenze della nuova alleanza tra il cristianesimo e l’impero romano di Costantino. Se fosse rimasto pacifista e disarmato come alle origini, il cristianesimo non avrebbe potuto accompagnare la crescita dell’impero né favorire la propria stessa crescita all’interno dell’impero.
Più avanti tornò sull’argomento Tommaso d’Aquino (1225-1274) nella Summa Theologiae, annunciando l’esistenza della “guerra giusta” e indicando le tre condizioni che la rendevano tale: legitima auctoritas (autorità legittima), iusta causa (giusta causa) e debitus modus (liceità dei mezzi). In sostanza, secondo Tommaso la guerra si poteva fare avendo a disposizione un re legittimo, una ragionevole motivazione (o scusa) e senza esagerare. Sempre, ovviamente, “per reprimere i malvagi e soccorrere i buoni”. E si era, guarda caso, nel periodo delle Crociate. Un passo più avanti e arriviamo al domenicano spagnolo Francisco de Vitoria (1486-1546), considerato uno dei “padri” del diritto internazionale. De Vitoria, nel suo De Indis, illustrava l’esistenza di una “società naturale” tra tutti i popoli che presupponeva determinati diritti, tra cui quello alla mobilità, quello al commercio e quello alla comunicazione del pensiero. Comunicazione il cui capitolo fondamentale era quello della predicazione e diffusione del Vangelo. Il tutto serviva magnificamente anche a giustificare le “imprese” nel Nuovo Mondo dei conquistadores spagnoli, teoricamente impegnati non a fare gli interessi dei re di Spagna ma ad affermare, appunto, quei principi universali.
Stiamo citando religiosi. E non perchè questi fossero più cinici o cattivi degli altri ma soprattutto perché, per lunghi secoli, la tonaca è stata compagna fedele del lavoro intellettuale. Con l’appena citato De Vitoria la cosiddetta “scuola del diritto naturale”, che avrebbe improntato di sé il Seicento e il Settecento. La guerra è giustificata da un “diritto delle genti” che non deriva più da un’autorità morale (il Papa) o politica (il re o l’imperatore) ma da un principio etico innato negli uomini. Alberico Gentili nel De iure belli giustifica le stragi spagnole nelle Americhe con le “abominevoli oscenità” e i gravi peccati contro la natura umana commessi dagli indigeni. Grozio nel De iure belli ac pacis ammette la legittimità della guerra “contro coloro che offendono la natura”. L’inglese John Locke (1632-1704), nel suo Trattato sul governo, teorizza il potere dello Stato non più come assoluto ma vincolato ai diritti naturali dell’uomo, il primo tra i quali è proprio il diritto alla proprietà. Ed è questo l’apparato teorico che sosterrà la Rivoluzione industriale, ormai alle porte, e che ritroveremo in epoche anche recentissime.
Se l‘Ottocento è il secolo dello Stato nazione, cioè del potere statale che non contempla e non tollera riduzioni della propria sovranità (Kant, Hegel), il Novecento segna il grande ritorno dell’universalismo. Nel 1919 viene creata la Società delle Nazioni, che sta esattamente tra il carnaio della prima guerra mondiale, siglato con le spartizioni del trattato di Versailles, e i massacri della seconda. Nel 1945 viene fondata l’Onu, sullo stesso presupposto della Società delle Nazioni (“salvare le future generazioni dal flagello della guerra”), abbinato però al carattere vincolante dei diritti dell’uomo. Molte delle ambiguità dell’Onu derivano, tuttora, dalla contraddizione statutaria. Mentre la difesa e la promozione dei diritti umani è posta al centro del diritto internazionale, l’articolo 2 della Carta costitutiva dell’Onu vieta ogni forma di ingerenza negli affari interni dei singoli Stati.
La fine della Guerra Fredda, come abbiamo visto sia pure in estrema sintesi, non è all’origine del dibattito sulla guerra e sulla guerra giusta. Però ha portato con sé un passaggio decisivo per spiegare le vicende di questi decenni: l’affermazione del principio dell’ingerenza umanitaria. In altre parole: in nome di diritti e valori universali, la comunità internazionale e i singoli Stati si assumono la responsabilità di proteggere i popoli che ne vengono privati. In nome e per conto di questo principio si sono moltiplicati gli interventi armati e i conflitti: Iraq 1991, Somalia 1992, Bosnia 1993, Haiti 1994, Bosnia Erzegovina 1995, Kosovo 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Siria 2012. Alcuni di questi interventi (Iraq 1991, Somalia 1992, Bosnia 1993, Haiti 1994) con l’avallo del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e quindi teoricamente rispondenti al dettato dell’articolo 11 della nostra Costituzione sulla cessione di sovranità. Gli altri realizzati su iniziativa di questo o quel Paese, quindi illegali. L’Italia, in base alla Costituzione, non avrebbe dovuto averci nulla a che fare. Un corollario di tale tendenza è il continuo riarmo che si registra in pratia in tutti i Paesi del mondo. Persino durante il 2020, l’anno in cui più è infuriata la pandemia del Coronavirus, le spese militari globali sono cresciute del 2,6%.
Uno dei grandi problemi, a questo riguardo, è l’atteggiamento delle potenze e della superpotenza Usa in particolare. Che fare se una di queste nazioni considera una minaccia (degna quindi di una guerra di difesa) ciò che avviene in un Paese altrui, magari lontanissimo? Se la Russia ritiene una minaccia al proprio benessere quanto avviene in Siria e decide, teoricamente per difendersi, di entrare in guerra? Se gli Usa considerano una minaccia ciò che la Cina fa nel Mar cinese meridionale? O ciò che la Germania decide di pattuire con la Russia quanto a gasdotti? E ancora: che succede se ciò che per noi è “universale” per altri popoli o governi non lo è? Se ci sono civiltà, per esempio, che non considerano la parità tra uomo e donna un valore ma piuttosto un disvalore?
Siamo tutti freschi delle immagini in arrivo dall’Afghanistan, che per questo tema è quasi un caso di scuola. Oggettivamente, l’invasione del 2001 poteva essere considerata una guerra di difesa. L’Afghanistan era diventato la base di Al-Qaeda, ovvero di un’organizzazione terroristica che aveva già colpito molte volte in diverse parti del mondo, non solo in Occidente. Negli attentati delle Torri Gemelle, l’11 settembre, morirono circa 3.000 persone che erano originarie di 90 Paesi diversi. L’intera comunità internazionale era coinvolta. Difendersi dallo stragismo qaedista sotto l’egida delle Nazioni Unite aveva un senso.
Ma poi? I successivi vent’anni? Come si concilia l’idea della pace e della giustizia con il tentativo di imporre (verbo forte, si può discuterne) valori e costumi (quelli che noi consideriamo universali) a un popolo palesemente renitente? E la guerra di difesa non diventa di offesa quando il suo prezzo si fa troppo alto (ricordiamo il debitus modus di Tommaso d’Acquino, concetto ripreso pari pari nel Catechismo della Chiesa cattolica là ove si parla di guerra e conflitto)? In Afghanistan, anche senza contare le decine di migliaia di morti tra soldati stranieri, soldati afghani e guerriglieri islamisti, ci sono stati almeno 300 mila morti tra i civili, secondo le statistiche più affidabili al 40% circa dovuti alle azioni di coloro che erano venuti a liberarli. E non è un caso isolato.
Pensiamo all’Iraq del 2003, con un milione di morti negli anni immediatamente successivi all’invasione “umanitaria” anglo-americana. Alla Libia del 2011. Se esiste una responsabilità nei confronti dei popoli privati dei diritti e dei valori che riteniamo universali, non dovrebbe esistere anche una responsabilità nei confronti dei popoli ai quali abbiamo fatto promesse di pace e di giustizia? Non è forse che la teoria dell’ingerenza umanitaria, manipolata dalle cancellerie, è arrivata a sfiorare una forma di neocolonialismo per cui chi pratica tale ingerenza gode a sua volta di diritti particolari e di una sorta di generale impunità? Pensiamo ai diversi destini di certi politici. Slobodan Milosevic, responsabile del tentativo di pulizia etnica in Kosovo, è stato processato da un Tribunale speciale. George Bush e Tony Blair, che inventarono di sana pianta le ragioni per invadere l’Iraq nel 2003 (e anche quella, nelle loro ragioni, era una guerra di difesa rispetto alle presunte armi chimiche di Saddam), godono tuttora di tutti gli onori e le prebende del caso.
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