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Progressività fiscale e riforma IRPEF: verso una flat tax per i ricchi?


13 Dic , 2021|
| 2021 | Visioni

La legge di bilancio 2022 che il Governo Draghi presenta in questi giorni alle Camere porta con sé importanti novità in ambito fiscale. È, infatti, all’orizzonte una riforma dell’Irpef, cui il Governo assegna 7 degli 8 miliardi di Euro destinati dalla manovra al taglio delle tasse. Si prevede, infatti, una complessiva rimodulazione degli scaglioni impositivi e delle relative aliquote.

Come mostrato dalla tabella 1, nell’attuale Irpef, le aliquote di prelievo sono le seguenti cinque: 23% sui redditi fino a 15mila Euro; 27% tra 15 e 28mila; 38% fra 28 e 55mila; 41% tra 55 e 75mila; 43% per i redditi oltre i 75mila Euro. Se la proposta governativa dovesse essere approvata senza sostanziali modifiche nel passaggio parlamentare, da un lato, le aliquote si ridurrebbero a quattro con eliminazione dello scaglione con l’aliquota al 41%, dall’altro, si avrebbe la contestuale riduzione delle aliquote del secondo (dal 27% al 25%) e del terzo scaglione impositivo (dal 38% al 35%).

Progressività fiscale e riforma IRPEF: verso una flat tax per i ricchi?

Com’è ormai consuetudine dall’insediamento del cd. “Governo dei migliori”, anche la riforma IRPEF inserita nella manovra finanziaria 2022 ha riscosso il plauso tanto unanime quanto acritico della (quasi) totalità delle forze politiche parlamentari e dei media mainstream che la hanno veicolata semplicisticamente come il tanto agognato taglio delle tasse. Ciononostante, prendere la Costituzione sul serio implica soffermarsi sulle implicazioni che si prospettano in termini di progressività fiscale, in vista dell’obiettivo, sempre sbandierato e mai attuato, di ridurre delle disuguaglianze socio-economiche (quali “ostacoli” che, secondo l’art. 3 della Costituzione, la Repubblica dovrebbe impegnarsi a rimuovere). Peraltro, quest’ultimo aspetto assume diretta rilevanza costituzionale anche ai sensi dell’art. 53 Cost. che dispone quanto segue: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”

Per progressività di un’imposta si intende il graduale incremento della percentuale di prelievo fiscale (aliquota) all’aumentare della ricchezza oggetto di prelievo (base imponibile). Ovviamente, tanto più un’imposta è economicamente progressiva, tanto maggiore è l’effetto redistributivo e perequativo sulle disuguaglianze.

Ebbene, vista con questi lenti, l’impostazione complessiva della riforma IRPEF varata dal Governo Draghi risulta economicamente regressiva sia in termini di risparmio per le diverse fasce reddituali oggetto di imposizioni, sia in termini di destinazione delle risorse finanziarie necessarie a coprire le minori entrate.

Sotto il primo profilo, secondo una stima elaborata dal Sole24Ore, la riforma IRPEF andrà a produrre un risparmio d’imposta massimo da 707,2 euro nella fascia di reddito fra 40 e 45mila euro, mentre “tra 45 e 55mila la riduzione vale in media 677,8-679,8 euro all’anno, per poi ridursi progressivamente al crescere del reddito fino ad attestarsi a 298,3 euro dai 75mila lordi annui in su”[1]. Il risparmio si riduce, però, drasticamente anche per gli scaglioni di reddito inferiori: esso passerebbe a 371 euro per i redditi fino a 35.000 euro, arrivando a soli 142 euro annui per i redditi fino a 25.000 euro, attestandosi, infine a soli 62 euro annui per i redditi fino a 15.000 euro.

Analogamente, in termini di distribuzione delle risorse di bilancio, ne risulta un’articolazione che tende a favorire in maniera accentuata i redditi medio-alti:

  • 1,1 miliardi per lo scaglione di reddito IRPEF fino a 15mila euro
  • 2,2 miliardi per lo scaglione da 15mila a 28mila euro
  • 2,7 miliardi per lo scaglione tra 28mila e 50mila euro
  • 1 miliardo è destinato ai redditi oltre 50mila euro

Pertanto, ben lungi dal porsi in concreto l’obiettivo di appianare le crescenti disuguaglianze socio-economiche con gli strumenti fiscali, la riforma fiscale varata dal Governo Draghi si inserisce a pieno titolo nel solco delle politiche fiscali neoliberiste, già sperimentate negli ultimi 30/40 anni, che hanno conseguito principalmente due obiettivi dal grande portato ideologico: l’appiattimento della progressività per le imposte dirette e l’aumento del peso delle imposte indirette.

Si considerino in particolare le due imposte che generano il maggior gettito fiscale: l’IRPEF e l’IVA. Sotto il primo profilo, si è passati inizialmente dai 32 scaglioni del periodo 1974-1982 (con aliquote che variavano dal 10% al 72%), ai 9 scaglioni del periodo 1983-1985 (con aliquote dal 18%, per i redditi più bassi a partire dagli 11 milioni di Lire, al 65%, per quelli più alti oltre i 500 milioni di lire). Nel successivo periodo compreso tra il 1986 e il 1988, gli scaglioni sono rimasti 9, ma con l’applicazione di aliquote più pesanti per i redditi più bassi (12% per i redditi fino a 6 milioni di lire e del 22% per i redditi compresi tra 6 e 11 milioni di Lire) e più leggere per i redditi più elevati (l’aliquota più alta si abbassa dal 65% al 62% per i redditi sopra i 600 milioni di Lire). Tale trend si è ulteriormente accentuato negli anni compresi tra il 1989 e il 1997, con l’ulteriore riduzione del numero di scaglioni, che da 7 passarono a 5 (con aliquote comprese tra il 10% e il 50%). Negli anni successivi, il numero di scaglioni è rimasto lo stesso, ma si è assistito ad un ulteriore appiattimento della progressività dell’imposta: dal 1998 al 2000 l’aliquota più bassa era fissata al 18,5%, mentre la più alta al 45,5%; mentre, i 5 scaglioni, in vigore fino al 2021, prevedono, come si diceva, aliquote comprese tra il 23% e il 43%. La prospettiva storica permette così di meglio apprezzare la parabola di (regressivo) appiattimento della progressività dell’IRPEF che ha contribuito a ridurre drasticamente gli effetti redistributivi del prelievo fiscale sul reddito.

Anche per ciò che concerne l’IVA, imposta per sua natura economicamente regressiva, si è potuto assistere ad un percorso normativo che è andato nella medesima direzione. L’aliquota ordinaria dell’IVA (del 12%, nell’anno in cui tale imposta è stata introdotta) è, infatti, costantemente salita negli anni successivi al 1980 (in cui era del 15%) fino ai giorni nostri (dal 2013 ammonta al 22%). L’effetto combinato di tali interventi normativi si è riverberato anche nel bilanciamento tra imposte dirette e indirette sul gettito fiscale totale che, com’è ovvio, influisce sulla progressività complessiva del sistema fiscale. Se nel 1983 le imposte dirette generavano introiti fiscali pari al 12% del Pil e le imposte indirette un gettito di solo 8,5% del Pil, ad oggi, la forbice si è parecchio ristretta: nel 2019 il prelievo diretto su redditi, profitti e plusvalenza vale il 13% circa del Pil, solo un punto percentuale in più del gettito generato dalle imposte indirette (12%). In conclusione, i dati odierni suggeriscono che vi è una ripartizione tendenzialmente paritaria del contributo apportato sul gettito fiscale complessivo da imposte dirette (53%)3 e indirette (47%), la quale determina esiti nefasti in termini di uguaglianza e perequazione, ulteriormente aggravati dalla riduzione della progressività delle stesse imposte dirette.

Infine, già da qualche anno, l’imposizione fiscale è “piatta”, ossia proporzionale, per le Partita IVA con redditi fino a 65mila Euro ai quali si applica un’aliquota fissa del 15%.

Così, con la nuova IRPEF 2022, si naviga a vele spiegate verso una flat tax anche per i ricchi capace di offrire una riscrittura (regressiva) dell’art. 53 Cost.:

 “Tutti [i lavoratori] sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche [a prescindere] dalla loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di [proporzionalità]”

Per opporsi a questa deriva, uno sciopero generale è più che necessario, è il minimo sindacale.


[1] https://24plus.ilsole24ore.com/art/nuova-irpef-quattro-aliquote-ecco-mappa-tagli-e-detrazioni-AEbr9z0

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