Non voglio parlare della Grande Mistificazione. Bugie, contraddizioni, opacità, presunte verità “scientifiche” spacciate per assoluti indiscutibili e poi rinnegate (facendo finta di niente) sono squadernate davanti a noi. Del resto, la neolingua del potere – e della pseudoscienza fattasi potere – è eloquente. Chiunque abbia occhi per vedere non può non chiedersi perché stia accadendo tutto questo. Quali siano le cause di questa cieca e furente isteria fomentata dall’alto, nel seno dell’Occidente, e in particolar modo nel centro dell’Europa.
Voglio parlare della fuga dalla libertà, che è anche fuga dalla giustizia e dalla democrazia. Come chiariva Piero Calamandrei, sulla rivista Il Ponte, nel 1945: “La giustizia sociale non è pensabile se non in funzione della libertà individuale”. L’Evento che in questi giorni, in virtù del nichilismo in atto, non può essere realmente celebrato, ma solo rinnegato dalle istituzioni (tra cui la Chiesa stessa), proprio in quanto “forza del passato”, attraverso una via complessa, fatta di contaminazioni e transiti post-tradizionali, serba una promessa di liberazione forse non esaurita. Grazie a un lascito teologico-politico in perenne dialettica, contraddittoria ma generativa, con la modernità, il principio della soggettività, l’idea stessa di una mitigazione post-sacrificale del potere. L’Incarnazione come premessa dell’autoaffermazione del soggetto, che deve però rimanere capace di trascendere l’immanenza materiale degli interessi, la pretesa di assolutezza dell’economicismo. Il neoliberismo (esiste, eccome se esiste…) ha generato la perversione di quella spinta – di per sé legittima – auto-affermativa, creando le condizioni di un nuovo asservimento di massa, algoritmico. È di questa estremizzazione perversa che occorre liberarsi, perché distruttiva.
L’Evento del Natale, quest’irruzione del teologico nella storia, è un rivolgimento radicale, che avviene nella semplicità più pura e marginale. Nella nascita del Bambino, è come se ciascuno di noi potesse vedere la possibilità di ripartorirsi, di rinascere. Questo forse è ancora possibile individualmente. Ma il mondo delle relazioni sociali, della comunità di individui, di cui si sono appropriate forze ostili all’eredità al contempo emancipativa e catechontica della secolarizzazione cristiana e della trascendenza laica dell’immanenza, forze che oggi si presentano esplicitamente in forme anticristiche, è divenuto un mondo rovesciato, asociale, rispetto alla promessa custodita nell’Evento del Natale. L’isteria, la sofferenza psichica e la rassegnazione delle persone sono frutto certamente del terrore creato ad arte dai governi e dalle loro micidiali politiche di divisione sociale. Ma hanno trovato terreno fertile nell’incapacità di elaborare il lutto, di pensare la perdita e la stessa condizione umana, di aprirsi – appunto – all’Evento – tanto religioso quanto laico – come fonte perenne di rigenerazione spirituale. L’irresistibile pulsione a discriminare, a creare capri espiatori – riemersa ferocemente nel seno di ordinamenti sulla carta costituzionali – è il segno di una crisi antropologica radicale, che è al contempo la vera origine e la posta in gioco dei governi dei sepolcri imbiancati che imperversano in molti paesi occidentali. Liberarsene, di tali sinedri farisaici, comprenderne e superarne le cause, è dunque una questione, oltre che politica, spirituale e antropologica. Per venirne a capo, occorre un lavoro di fondo.
La libertà costituisce, insieme al principio repubblicano, a quello democratico e all’eguaglianza (formale e sostanziale) dei cittadini, uno dei cardini dell’orizzonte simbolico nel quale vale ancora la pena riconoscersi, sebbene sia stato rimosso da chi doveva custodirlo. Come il lavoro è il fondamento sociale della Repubblica, così si potrebbe dire che la libertà ne costituisca il fondamento etico. Il rispetto e la tutela della persona umana ispirano e permeano di sé l’intera trama assiologica della nostra Carta costituzionale. Del resto, quale valore aveva conculcato prioritariamente il fascismo? La libertà, nelle sue plurime configurazioni: personale, spirituale, associativa, politica. A quale modello si contrappone la Costituzione, rovesciandone la logica? All’autoritarismo fascista. La valorizzazione del concetto di “persona”, sulla quale hanno trovato una preziosa convergenza le forze del cattolicesimo sociale (da cui la nozione originariamente proviene) e quelle di ispirazione socialista, ha consentito di assumere l’eredità più significativa della tradizione liberale (il suo nucleo umanistico, non economicistico, che ha un valore generale), e di corroborarlo di una visione concreta, incarnata e relazionale del soggetto di diritti.
Siamo qui in presenza di un principio fondamentale del costituzionalismo: l’intangibilità fisica e morale della persona, la cui antica origine è l’Habeas corpus: concepito come scudo rispetto agli arbitri coercitivi del potere che dispone della forza pubblica, si estende oggi al rispetto della dignità della persona nel suo complesso, della sua integrità psico-fisica. Nessuno può coartare senza limiti, manipolare indiscriminatamente il corpo e la mente di un altro, neppure il potere legittimo, neppure a fini (veri o presunti) di pubblica utilità. La libertà può conoscere delle restrizioni, ma solo entro precisi binari e sulla base di inderogabili garanzie. Certo non in virtù di una condizione di gruppo, e in assenza di precisi obblighi, divieti, sanzioni. In ogni caso, le restrizioni della libertà (la più pesante delle quali è il carcere) non possono mai oltrepassare il limite del rispetto della persona umana e della sua dignità. Pur su un altro piano, emerge qui la logica costitutiva dell’età dei diritti, che ispira ad esempio il divieto di torturare e schiavizzare: il presupposto dei diritti è il soggetto libero. Esso non è un’astrazione formale, che può occultare discriminazioni ed esclusioni di fatto, ma l’individuo in carne e ossa, concretamente considerato nella rete delle sue relazioni sociali. Il diritto a non essere torturato e quello a non essere reso schiavo debbono essere considerati “assoluti” o “privilegiati” (Bobbio), e pertanto non bilanciabili con altri diritti o interessi, perché la loro violazione significherebbe transitare dalla sfera della libertà a quella della manipolabilità, della strumentalizzazione del soggetto. Pertanto tortura e schiavitù non sono mai ammissibili, neppure in parte e a buon fine (ammesso che possa mai esistere un “buon fine” nel torturare, magari per estorcere una confessione coatta). Ora, indurre surrettiziamente a scelte non dovute che incidono in modo pesante sulla dignità, la vita sociale e il lavoro, come accade con il green pass più che saudita adottato in Italia, rientra nell’ambito della manipolazione arbitraria della soggettività, significa trattare la persona (anzi, peggio, un’intera “classe” di persone, individuate come categoria da sottoporre a un regime speciale) come un mezzo e non come un fine. Con il mega, super, ultra green pass, il cittadino non vaccinato viene considerato dalle istituzioni un soggetto di diritti perlomeno dimezzato, da espellere ai margini della comunità degli auto-investitesi Eletti. Facile che divenga oggetto di stigmatizzazione e campagne d’odio, peraltro fondate sulla menzogna.
Secondo la logica ferrea che lega tutti i diritti fondamentali l’uno all’altro, se si attaccano le libertà civili, in particolar modo in un regime politico di massa che ambisca a definirsi costituzionale e democratico e non plebiscitario (magari di un nuovo plebiscitarismo tecnocratico), è facile che anche la libertà politica sia a rischio: nel “trentennio inglorioso” del neoliberismo e del globalismo si è cominciato con l’attacco ai diritti sociali, al Welfare e al lavoro, si è proseguito con la messa fra parentesi della sovranità democratica in nome delle emergenze (prima finanziaria, oggi sanitaria), per arrivare alla messa in questione dei diritti di libertà. Tra cui, oltre a quelli civili, tradizionalmente liberali, figurano anche quelli di partecipazione politica, associazione ed espressione del dissenso. Siamo al punto che il Ministro dell’Interno vieta in modo generico e indistinto, in nome di una nozione molto dilatata di emergenza, il diritto di manifestare. Un divieto di manifestare generale e non circoscritto, per un periodo temporale aperto, che potrebbe anche essere indefinito, e comunque rimesso all’arbitrio del governo, non solo è gravissimo in sé, nell’immediato, ma lo è ancor più minacciosamente per quello che preannuncia, per il “principio” che viene sdoganato. Di fronte a conflitti sociali futuri, legati magari a nuove politiche di austerità, inaspriti dal possibile aggravamento della crisi economica, cosa si farà, si manderanno i carrarmati? Si sparerà sui manifestanti, come ai tempi del governo Tambroni? La pretesa di neutralizzare definitivamente il conflitto – pretesa che è la vera ratio dell’emergenzialismo e della tecnopolitica – , è in sé eversiva e antidemocratica. Il primo pericolo per la democrazia proviene oggi dall’alto, dai poteri costituiti. Un capitolo estremo di quello che Gramsci chiamava il sovversivismo dall’alto delle classi dirigenti: le attuali élites neoliberali, alle strette per la crisi del paradigma antipopolare e antisociale che hanno perseguito pervicacemente da almeno un trentennio e perciò incattivite, sembrano pronte a tutto. Gli apprendisti stregoni dell’emergenza permanente e della prevenzione assoluta rischiano di evocare, con l’uso disinvolto dello stato di necessità come eccezione giustificata, potenze incontrollabili, alimentando il caos, producendo anomia. Che forze le quali dicono di ispirarsi a un ormai vago “progressismo” si rendano disponibili per tali operazioni, e anzi ne siano le mosche cocchiere, è triste ma del tutto coerente con le scelte e l’impostazione culturale della ex-sinistra nell’ultimo trentennio.
Michel Houellebecq in Sottomissione immagina, con notevole intuizione letteraria, che gli uomini d’Occidente (i cittadini francesi, nello specifico della storia che racconta), in cambio di protezione e sicurezza, per illudersi di tornare a provare il senso di una comunità perduta, siano disposti a rinunciare alla libertà. Immagina che si possa abiurare a “liberté, egalité, fraternitè”, alla modernità stessa, perché ormai deviata, finita fuori strada, aderendo a una sorta di paradossale teocrazia islamica “moderata”, blandamente tollerante. Una finzione di comunità, di comodo, perché riassegna agli uomini (soprattutto ai maschi) un ruolo sociale stabile. Forse il rischio è che vada persino peggio di così. Perché oggi il contraccambio della libertà perduta non è il ritorno a una teologia politica sostanzialista, ma un ordine caotico e nichilista degli algoritmi, nel quale dell’Occidente resta solo il finanzcapitalismo della prevenzione e della sorveglianza, e le soggettività sono annichilite in una somma di funzione omologate. Un incubo spacciato per resilienza, nel quale i legami sociali sono annullati o ridotti al minimo, gli individui sono atomi di un pulviscolo senza senso né radici, l’unica salvezza è l’adesione al culto ripetitivo del tecno-capitalismo e l’unica fede è quella, disperata, nel corpo senza qualità, nella sopravvivenza della mera vita. L’opposto di una forma di vita “politica”. L’opposto della libertà in relazione. L’apoteosi della spoliticizzazione perseguita dal neoliberismo. Un’intollerante teologia tecnopolitica, il cui unico fine è la negazione della politica come conflitto, auto-trascendenza, apertura al possibile. Nessun vincolo interno, nessun patto costituzionale con noi stessi sarebbe allora più possibile. Sono convinto che il compimento della transizione alla forma di governo tecnopolitica implichi una transizione postumana. Ma, finora, non è mai stato possibile schiacciare l’umano fino al punto di esaurirne integralmente la spinta a trascendersi, a cercare alternative. Questa è l’unica fonte di speranza che abbiamo. Perciò è possibile provare a resistere, a fare l’esatto opposto dell’essere “resilienti” (che significa adattarsi in modo subalterno alle logiche neoliberali che si dovrebbe contrastare). Anche se dovremo combattere a mani nude, a fronte di una sproporzione di forze disarmante, varrà la pena. La domanda fondamentale che abbiamo di fronte è chiara, se solo la si voglia vedere: quando smetteremo di fuggire dalla libertà?
I miei auguri impossibili di buon Natale (a dispetto dell’UE), i quali possono confidare solo nella luce della grotta, che nel nostro tempo azzerato appare spenta, sono affidati alle parole di chi per tempo aveva intuito, con la forza profetica della poesia:
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
Pier Paolo Pasolini
Poesie mondane, 10 giugno 1962
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