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L’asse Londra-Washington contro il multipolarismo. Le implicazioni per lo spazio continentale ed il Mediterraneo


31 Dic , 2021|
| 2021 | Visioni

Le profonde trasformazioni degli equilibri globali stanno segnando il lento declino di vecchie egemonie – o almeno, il loro ridimensionamento – e l’affermazione di nuove. In questo scenario, le rotte che lo attraversano e le faglie di instabilità che lo circondano fanno del mare in cui si protende l’Italia uno tra gli spazi marittimi più importanti del pianeta.

Per dare la misura dell’importanza del nostro paese basterebbe tenere a mente il fatto che nessuno tra i principali attori internazionali può permettersi di trascurarne il ruolo, o almeno di rinunciare ad esercitarvi una qualche forma d’influenza (culturale, economica, militare). Un’importanza rispetto alla quale la classe dirigente italiana si è dimostrata non di rado indifferente.


A pesare sull’Italia, è la mancanza di una visione d’insieme che sappia interpretare l’identità, il ruolo e l’assetto del paese nell’attuale configurazione internazionale e che sappia dimostrarsi adeguata per profondità di riflessione, realismo e lungimiranza. In linea generale, le maggiori potenze occidentali non vedono con interesse un possibile rafforzamento del nostro paese, della sua solidità e della sua indipendenza confidando piuttosto nel fatto che l’Italia mantenga un certo grado di debolezza e vulnerabilità: questa geometria può certamente assumere delle specifiche momentanee e peculiari, ma conserva, tuttavia, una validità tendenziale.

Al contrario, molti attori al fuori dell’ambito occidentale hanno tra le corde dei propri interessi quello che l’Italia si irrobustisca e massimizzi il proprio livello di indipendenza, acquisendo contestualmente un maggiore grado di influenza internazionale. Una differenza di approccio rintracciabile sia in questioni estremamente materiali che nelle peculiarità culturali di paesi-chiave dell’attuale scenario globale.

Malgrado i toni di certa stampa, né da parte di Mosca, né da parte di Teheran, né da parte di Pechino può sussistere l’interesse a destabilizzare l’Italia: ripetere il contrario non cambierà in alcun modo la realtà del nostro paese e dei suoi problemi. Potrà al massimo continuare a tenerlo lontano dalle possibili soluzioni di questi.

Mentre gli Stati Uniti si trovano a fare i conti con la peggiore crisi politica della loro storia, l’egemonia internazionale di Washington tende al ridimensionamento. Washington e Londra continuano ad essere ossessionati dalle idee descritte da Halford Mackinder: lo scenario che sembra inquietare Washington e Londra si configura infatti come la progressiva integrazione economica e politica dello spazio continentale che si estende da Lisbona a Shangai. Gli Stati Uniti potrebbero dimostrarsi disposti a tutto pur di scongiurare uno scenario di questo genere, eventualmente rinnovando il principio della “destabilizzazione permanente” come pilastro della propria strategia di contenimento, volta a rallentare l’affermazione di nuove egemonie.

Da parte della Gran Bretagna e degli Stati Uniti c’è un’evidente scommessa sull’aggressività contro Pechino e Mosca, partorita dalla convinzione che questa possa costituire un freno alla decadenza dell’egemonia globale angloamericana, ed in particolare del presupposto unipolare di questa. I rischi di un protrarsi sine die di questa aggressività sono incalcolabili, soprattutto per un paese-cerniera come l’Italia.

Ben visibili, anche nelle vicende di queste settimane, sono i rischi connessi alla crisi energetica, con cui un paese povero di risorse energetiche come l’Italia fa i conti.

Una crisi in buona misura prodotta da un lungo corso di scelte ben lontano dagli interessi del nostro paese.

Parallelamente alla crisi energetica si consuma la crisi d’approvvigionamento di semiconduttori, componenti essenziali nel campo dell’elettronica: una vera e propria offensiva condotta da Washington contro l’arcinemico cinese e la sua poderosa capacità produttiva.

Quella che sottende l’espressione “Gran Bretagna globale” è la più ambiziosa strategia su cui Londra abbia scommesso sin dalla fine della seconda guerra mondiale.
Nonostante le relazioni economiche che legano Londra a Pechino e Mosca, tutta la strategia della cosiddetta “Global Britain” si impernia sul presupposto antirusso e anticinese.

Insieme alla guerra mediatica e alla guerra cibernetica, il sanzionamento economico si profila come uno dei principali strumenti di guerra ibrida utilizzati dalla Gran Bretagna, reso possibile dal ruolo esercitato da Londra nelle dinamiche finanziarie globali.

                                                                     
Inutile poi meravigliarsi se i paesi che pagano lo scotto di queste azioni, finiscano talvolta per ritenere opportuno reagire con gli stessi strumenti.

Annoverabile tra questi, è anche la recente minaccia di disconnettere Mosca dal sistema SWIFT: una scelta, che se attuata, oltre ad avere conseguenze potenzialmente disastrose per l’economia del nostro paese, finirebbe per incentivare l’integrazione di Mosca e di Pechino e la creazione di un sistema alternativo a SWIFT, già progettato dai due paesi.

Nella cornice della “Global Britain” la “Perfida Albione” appare strategicamente complementare a Washington: l’incertezza domina la politica statunitense sul piano interno così come sul piano internazionale. Quella che il mondo ha sotto gli occhi è la più profonda crisi di identità della storia statunitense. Una crisi con cui la presidenza Biden-Harris si trova costretta a fare i conti, nonostante le colossali immissioni di liquidità messe a disposizione della società americana. Immissioni peraltro non scevre da altrettanto colossali rischi inflattivi.


Mentre l’Unione Europea appare quanto mai debole, palesando invece, in ogni passaggio fondamentale la propria sostanziale disomogeneità l’Italia si trova a fronteggiare problemi critici su vari fronti. In primo luogo sul fronte meridionale – quella che fu la Quarta Sponda – dove l’Italia continua a fare i conti con la propria peggiore sconfitta consumatasi dopo la fine della seconda guerra mondiale. Fin troppo evidente è come una Libia instabile renda vulnerabile l’Europa, soprattutto meridionale.

Ogni mossa rilevante degli Stati Uniti che interessi lo spazio geopolitico compreso tra lo stretto di Gibilterra e il Mar Cinese Meridionale sembra volta a produrre un effetto destabilizzante. Nessuna di queste mosse sembra infatti volta a risolvere problemi particolari: tutte sembrano invece concepire la destabilizzazione come un fattore di contenimento da contrapporre alle egemonie emergenti che né gli Stati Uniti né la Gran Bretagna sembrano disponibili ad accettare.

Trent’anni fa, nella foresta di Bielowiza, l’Unione Sovietica cessava ufficialmente di esistere: quello che ne consegui fu uno stravolgimento geopolitico di portata epocale, definito efficacemente come una vera e propria catastrofe. Proprio nella porzione di confine di quella foresta tra Polonia e Bielorussia si consuma, in queste settimane, una delle tante crisi prodotte dall’onda lunga di quell’avvenimento e dai suoi riverberi.

Nonostante l’antagonista sovietico sia scomparso da trent’anni né gli Stati Uniti né la Gran Bretagna sembrano disposti a rinunciare alla logica della guerra fredda e della tensione permanente: una scelta che appare metodica e volta a tenere l’Europa sotto scacco.

Le tensioni permanenti interessano un’area vastissima che va dall’Artico al Mediterraneo passando per il Mar Nero: da un lato le aree “di pertinenza” statunitense, dall’altro il territorio russo e la sua area di influenza. A dividerle i contrasti che attraversano l’area baltica, la Bielorussia, la Crimea, il Donbass. Oltre i Carpazi prosegue ormai da oltre sette lunghi anni una guerra a bassa intensità in cui l’esercito ucraino e i paramilitari ultranazionalisti – sostenuti dall’Occidente – si contrappongono agli insorti di Lugansk e Donetsk – sostenuti da Mosca.

L’Ucraina è oggi un paese economicamente al collasso, dipendente pressoché in toto dai sistematici prestiti occidentali: già prima dell’emergenza Covid, i dati del Fondo monetario internazionale avevano confermato il fatto che l’Ucraina fosse diventata il paese più povero d’Europa, con un reddito pro capite medio inferiore ai 3.000 dollari annui. Il conflitto, già costato oltre 14mila vittime, è proseguito in questi anni senza suscitare grandi attenzioni da parte dell’Occidente, trasformandosi in una lunga guerra di nervi e di logoramento. Le periodiche discussioni nel “formato Minsk” e nel “formato Normandia” non hanno, di fatto, prodotto alcuna soluzione concreta del conflitto, riuscendo al massimo a stemperarlo. Non dissimile, il risultato della cosiddetta “formula Steinmeier”. Dopo aver ripreso possesso della Crimea – 2014 – ed una prima fase di appoggio attivo agli insorti del Donbass, negli ultimi anni il Cremlino ha evitato in Ucraina ogni genere forzatura, tanto da suscitare l’insofferenza di non pochi dei propri militari.

Benché descritti come “temporaneamente occupati” né la Crimea né il Donbass hanno una concreta possibilità di ritornare sotto controllo ucraino, meno che mai con l’uso della forza. Malgrado l’oltranzismo ostentato, né a Kiev né a Washington sembra mancare la consapevolezza di ciò. Né, forse paradossalmente, sembra mancare la volontà di mantenere vivo il conflitto “sine die”: per gli Stati Uniti una spina nel fianco del Cremlino, per gli oligarchi ucraini una lucrosa opportunità. Per lo spazio continentale, uno dei principali fattori d’instabilità.

Il raddoppio del gasdotto North Stream rende possibile l’arrivo in Germania del gas russo senza che questo attraversarsi né l’area baltica, né la Polonia, né l’Ucraina, alfieri della strategia statunitense in Europa centrorientale: la sua entrata in funzione è al momento sospesa. Troppo forti le pressioni statunitensi nell’incerta fase post-Merkel, con una cornice politica ed economica nient’affatto positiva per la Germania.

Le sanzioni antirusse costituiscono uno degli elementi della strategia sostenuta dagli Stati Uniti e della Gran Bretagna: il sanzionamento economico è infatti uno dei principali strumenti per mantenere l’Europa divisa, e quanto più lontana da Mosca e Pechino. Dal 2014 ad oggi le sanzioni imposte dall’Unione Europea alla Federazione Russa – con il sostegno di Roma – e le controsanzioni russe sono valse all’Italia un danno economico pari ad almeno quattro miliardi di euro l’anno. A questi danni, già ingenti, si deve sommare il danno economico delle sanzioni – primarie e secondarie – sostenute attivamente o passivamente dall’Italia contro Siria, Venezuela, Nicaragua, Cuba ed Iran. Una politica poco auspicabile sia per le conseguenze di carattere umanitario nei paesi colpiti – e tanto più nel bel mezzo di una pandemia – sia per l’impatto sull’economia italiana.

Malgrado i contorni di certe narrazioni trionfalistiche, e la distanza di queste dal paese reale, un’analisi seria della situazione in cui l’Italia si trova non può sorvolare sulle questioni attinenti la vulnerabilità del paese in ambito produttivo ed industriale.

A questo proposito non posso nascondere la mia costernazione per il fatto che gran parte delle forze politiche presenti nel nostro Parlamento stiano ostacolando la costruzione di un sistema normativo che punisca la delocalizzazione di aziende produttive con bilanci in attivo presenti nel nostro paese: un passo necessario per impedire che l’ossatura industriale d’Italia si spezzi.

Il rischio che la guerra globale combattuta a pezzi presto o tardi travolga anche la vecchia Europa non è zero: in uno scenario di questo tipo per l’Italia è quanto mai importante compiere ogni sforzo possibile per tendere alla neutralità, riscoprendo la bussola dell’interesse nazionale e la propria natura di “paese cerniera” per gli equilibri internazionali.

I risvolti sanitari, sociali e politici dell’era pandemica pongono la necessità di ricostruire una visione del sistema-paese e della sua politica estera. L’assenza di una visione di profondo respiro costituisce infatti per l’Italia il principale elemento di debolezza. Questa grave mancanza dovrebbe essere ragionevolmente considerata, insieme alla mancanza di una politica industriale adeguata, come una delle principali minacce alla sicurezza nazionale, così come gli inquietanti livelli di disoccupazione giovanile ed i preoccupanti indici di povertà: per l’ISTAT sono stati un milione i posti di lavoro persi in Italia nel 2020.

Quanto più l’Europa si trova ad essere ostaggio della tensione permanente impressa da Washington, tanto meno consistente appare la politica estera italiana, ridotta a sistematiche dichiarazioni di fedeltà incondizionata.

Nel tentativo di imporre una “conventio ad escludendum” – antirussa e anticinese – persino sul tema dei vaccini anti-Covid si riverbera la strategia degli Stati Uniti e la debolezza di un’Unione Europea burocratica e corporativa. Piaccia o non piaccia, l’era pandemica ha dato conferma di come il perimetro nazionale non possa in alcun modo venir trascurato, né in materia sanitaria, né in materia economica.

Un paese che non coltiva la propria identità è un paese destinato alla disgregazione e al declino: non esiste, nei fatti, alcuna politica di prospettiva senza una visione del paese e della comunità su cui questo si regge.  E per questo che l‘Italia deve riscoprisi nazione, e riscoprire il significato democratico e progressista di quest’ultima, per gli affari interni così come per quelli internazionali.

Riscoprire l’identità mediterranea e di paese-cerniera scrollandosi di dosso quel “complesso d’inferiorità” descritto da Enrico Mattei è oggi per l’Italia una priorità inderogabile, necessaria per gettare le basi di un reale rilancio economico e di una nuova fase politica.

Solo su questi presupposti sarà possibile costruire il nuovo Risorgimento di cui il paese ha bisogno.

“Noi italiani dobbiamo toglierci di dosso quel complesso di inferiorità che ci hanno insegnato, ovvero che gli italiani sono dei bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno le capacità della grande organizzazione industriale. Ricordatevi, amici di altri Paesi: sono le cose che hanno fatto credere a noi e che ora insegnano anche a voi. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio. Dovete avere fiducia in voi stessi, nelle vostre possibilità, nel vostro domani; dovete formarvelo da soli questo domani.”

Enrico Mattei, 1961.

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