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Potere e obbedienza


17 Gen , 2022|
| 2021 | Visioni

Mai (almeno da 70 anni a questa parte), come in questo tempo della nostra vita quotidiana, abbiamo sperimentato il governo della società, cioè delle nostre vite, come esercizio di un potere fortemente interdittivo, organizzato su divieti, concessioni e controlli. Una prassi di questo tipo porta con sé una trasformazione di fatto: quella da potere funzionale, quale è quello esercitato dagli organismi costituzionali secondo le procedure istituzionali, ad un potere di mero fatto, la cui effettività trascende le forme richieste da quella libertà propria delle democrazie rappresentative, per operare in modo costantemente emergenziale, dove ogni riduzionismo procedurale e contenutistico è ammesso.

In un contesto siffatto, mi sembra opportuno spendere qualche notazione sul “Potere”, in quella sua struttura nucleare, prima di ogni giustificazione retorico – procedurale, che lo ha variamente caratterizzato nei secoli.

Il nucleo del potere è sintetizzabile in una espressione asciutta e semplice: “Io comando e tu obbedisci”. Tale espressione asciutta e semplice in realtà innerva la ricchezza della vita umana, individuale e collettiva, così come essa appare incarnata da un duplice interrogativo che spesso sfugge, e che, invece, è la chiave stessa di ogni azione quotidiana: “A chi obbedire e perché obbedire?”.

La semplicità della proposizione iniziale comincia a mostrare una qualche complessità dopo l’interrogativo “A chi e perché?”. La ragione è anch’essa semplice: quel duplice interrogativo introduce il potere nella vita, poiché con questa il potere condivide proprio il concetto di effettività, e nella sua radicalità. Infatti, così come accade che o si è vivi o morti, altrettanto accade per il potere; o si ha il potere o non lo si ha.

Facciamo allora un passo avanti. Questo ultimo interrogativo si concentra su due termini: “chi” e “perché”. Il “chi” chiama in causa colui che ha conquistato il potere o lo esercita; il “perché” chiama in causa i destinatari, coloro cioè che devono obbedire. E qui si profila un altro passaggio, che spesso sfugge, poiché il ragionamento si concentra prevalentemente sul “chi”, cioè su colui che ha il potere; si tralascia, invece, un profilo decisivo che è quello che riguarda i destinatari. Senza la loro obbedienza, infatti, il potente non è tale; in altre parole, l’effettività del potere, in realtà, dipende dalla obbedienza. In definitiva, il “chi” dipende dal “perché”. Un esempio plastico. Pensiamo all’uomo che ha acquisito il potere ed è innalzato sulle spalle dai suoi sottoposti; se questi mollano il sostegno, il potente si trova sbattuto a terra. Quindi occorre che il potente si immunizzi dalla caduta; si immunizzi cioè dalla disobbedienza.

In tale meccanismo si raccoglie l’intera storia umana e politica dell’umanità.

Innanzitutto il “chi”. Le immagini sono molteplici. Il condottiero che si lancia per primo nella mischia, che rischia al pari dei suoi uomini, ma non viene ucciso; sopravvive sempre alle battaglie. In effetti sopravvive alla morte degli altri. Dunque, è protetto dagli dei o comunque è investito di un destino superiore. Ecco il carisma, avrebbe detto Weber. Non è senza significato l’iconografia che ritrae il condottiero a cavallo con la spada sguainata, oppure il governante (che chiamo genericamente “sovrano”, Re, Imperatore, Capo, Duce e simili) seduto su di uno scranno elevato, un trono, mentre gli obbedienti sono in ginocchio, segno plastico di sottoposizione, soggezione e obbedienza. Il trono rappresenta l’effettività del potere come stabilità, che rassicura chi obbedisce e, inginocchiandosi, si sotto-pone.

Arriviamo così al “perché”. Basterebbe che quegli uomini inginocchiati si rizzassero in piedi che quel trono vacillerebbe; quindi, torno a sottolineare, il potere del sovrano dipende dall’obbedienza dei sudditi. Il passaggio ulteriore è, allora, chiedersi perché gli uomini obbediscono; domanda che può essere rovesciata: in che modo il sovrano si immunizza dalla disobbedienza dei sudditi

Ecco come il potere entra nella vita: attraverso l’obbedienza e le sue motivazioni. Provo ad indicare almeno tre modalità: condivisione di una visione che produce consenso e fiducia; convenienza e utilità, paura.

Lascio da parte il primo profilo, quello del consenso politico, poiché qui l’obbedienza non è avvertita come sottomissione, ma come collaborazione e partecipazione alla realizzazione di un progetto comune.

Il secondo profilo, quello della convenienza. Questo può avere più declinazioni, da quella del non avere “fastidi” ai vantaggi che produce il conformismo in termini economici, lavorativi e di riconoscimento sociale. Insomma, conviene essere allineati e coperti, perché è assai più vantaggioso della dissidenza e della potenziale disobbedienza. La storia recente fornisce validi esempi. Il dissenso è sempre frutto di ristrette cerchie di intellettuali, poiché la libertà appartiene all’intelletto; la società comune preferisce la sicurezza quotidiana, salvo poi scatenarsi contro il potere costituito quando questo perde la sua forza e viene sostituito di fatto da un altro potere. Alcuni esempi noti a tutti, diversi per la qualità sociale degli interessati, ma analoghi per modello comportamentale. Il primo è rappresentato dal popolo parigino, che assiste alla decapitazione di Luigi XVI nel 1793 e solo un anno dopo, e nello stesso luogo, Place de la Concorde, alla decapitazione di Robespierre. Il secondo, la rivoluzione napoletana del ’99; quel popolo che svillaneggiò i “congiurati” in nome del Re borbonico è lo stesso che, qualche decennio dopo, mollò Franceschiello e accoglierà Garibaldi. Un terzo esempio. I dissidenti al regime fascista, incarcerati o inviati a Ventotene, che dopo la guerra divengono fulgidi esempi di libertà intellettuale e politica (Gramsci), fino a ricoprire la massima carica dello Stato (Pertini). Ancora un altro esempio di convenienza obbediente avviene nel mondo colto dei fisici tedeschi; in nome della Fisica del Reich la maggioranza espelle dalle fila della grande fisica tedesca gli studiosi ebrei (un nome per tutti, Einstein), anche grazie alla acquiescenza di alcuni illustri colleghi che, per non essere interrotti nelle loro ricerche, non vi si opposero e rimasero in silenzio.

Vi è poi il terzo profilo: la paura. E’ sempre stato lo strumento di governo di più largo uso nella storia, per la sua maggiore efficacia popolare. La solitudine di Socrate, Gesù, Giordano Bruno, i patiboli e i roghi sono rappresentazioni che hanno segnato la storia del potere sull’umanità ad esso sottoposta. E poi quel fenomeno di massa legato alle diverse pestilenze che possiamo identificare con l’espressione “dagli all’untore”, mescolato con gli aspetti liturgico-religiosi promossi dalla Chiesa, in funzione del suo governo delle anime attraverso la sottomissione dei corpi (l’inquisizione). Al di là degli esempi, la paura diviene oggetto di teoria politica con il pensiero di Hobbes, per il quale il potere assoluto e onnipresente del sovrano deve rassicurare dalla insicurezza interpersonale che regna nella società civile: homo homini lupus. L’effettività del potere implica la sua attualità nel tempo: non basta l’osservanza del momento. Il potere deve pagare, in qualche modo, un “prezzo”: deve, cioè, esibire una permanenza strutturale. Ponendoci dalla parte di coloro che lo subiscono, essi devono essere posti nella condizione di sapere che dovranno stabilmente tenere, in ogni momento, un comportamento di obbedienza. “In ogni momento”: vale a dire, in una temporalità sempre attuale e soprattutto illimitata. Qualora se ne intravedesse un termine, infatti, quel potere tornerebbe ad avere tratti di incertezza e, dunque, non sarebbe più, fin da subito, effettivo. Per raggiungere il suo fine deve affinare il metodo della paura e manipolare con quest’ultima la mente dei sottoposti. Mi spiego. Se la stabilità dell’obbedienza costituisce fattore determinante per la effettività del potere, allora questa non può reggersi solamente sulla razionalità strumentale ed emotivamente instabile della paura. Il potere “deve” accollarsi ancora un altro onere: quello di farsi “sistema”. In altre parole, la paura si fa teoria politica allorché essa si evolve in sistema; dalla paura alla convenienza e, in fondo, alla legittimazione. A questo fine, allora, il potere deve operare in modo che la sua pressione sia avvertita dai destinatari non più come patologica, ma fisiologica (almeno apparentemente e superficialmente) alle dinamiche normali e quotidiane della vita personale e sociale. Deve trasformare le sue “armi” in “strumenti” di persuasione: in generale, alleanze di interessi e condivisione di profitti e soprattutto sicurezza della vita. Deve rendere un po’ infantile la società che intende controllare, orientando finanche la valutazione etica dei comportamenti sociali.

E’ la tradizione del “pensiero unico”, il cui esempio classico più radicale è rappresentato ancora da Hobbes, nella sua teorizzazione dell’unicità della valutazione etica, del tutto ed esclusivamente appannaggio del “sovrano”: qualora, infatti, tra i sottoposti restasse uno spazio privato di valutazione in questo campo, ciò configurerebbe una possibilità di giudizio altro sull’operato del sovrano e, per ciò stesso, aprirebbe un varco razionale alla possibilità di dis-conoscimento. Se il popolo restasse altro rispetto al sovrano, ne conseguirebbe l’esigenza di una indispensabile modalità gestionale: quella della motivazione e giustificazione delle determinazioni della sovranità. Esattamente il contrario di ciò che determina l’effettività del potere, la quale risiede proprio nella emancipazione da pratiche motivazionali e giustificative.

In definitiva, l’uomo di potere deve penetrare ancora più in profondità nella vita del suo popolo: deve agire con lo scopo precipuo di ottenerne la fedeltà, attraverso la conformazione etica, che è l’aspetto di maggiore performatività di un’unica visione del mondo.

Qui torna l’esempio della Chiesa. Con la paura, la Chiesa governava il “popolo di Dio”; occorre aggiungere, con lo sguardo rivolto al nostro tempo, che quel popolo non votava; i governanti di oggi, diversamente, governano “il popolo degli uomini”, che invece, vota. Le domande sono due: che idea hanno dei governati gli attuali governanti? quale è il grado di consapevolezza politica del popolo chiamato a votare? E ancora, guardando all’oggi: quale è il rapporto tra comunicazione mediatica e pensiero unico?

E’ su questi due interrogativi, infatti, che si giocano i due formulati in precedenza: “A chi e Perché?”

Ho cercato di mostrare, attraverso queste notazioni, come la paura non resti solo un momentaneo moto dell’animo umano, ma dia origine ad una serie di derivazioni socio-politiche e antropologiche che si raccolgono nel concetto di sistema. Esso non è da intendersi solo come ingegneria di governo, ma come uni-formazione degli atteggiamenti mentali dell’uomo comune, fino a produrre il conformismo del modo di pensare, che si inoltra in quello dell’etica sia interpersonale che sociale.

In definitiva questi sono i passaggi, ricordati in poche righe, il potere si legittima attraverso la paura, che è il modo più efficace per tutelare la propria costante effettività, immunizzandosi dalla disobbedienza.

Ho ritenuto di svolgere, sia pure per sommi capi, questa disamina sul potere, affinché in un tempo come quello che stiamo vivendo, esaltato dalla contingenza pandemica, di crisi delle istituzioni democratiche, di svuotamento del tessuto ideale della politica, di performatività della comunicazione mediatica; in un tempo, nel quale paura, convenienza, e manipolazione delle menti divengono un tutt’uno con il “sistema” – potere, ciascuno, se vorrà, possa trovare analogie con il passato tempo storico e con le forme di organizzazione umana che vi si sono sperimentate.

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