Circolano alcuni nomi: si parla di borsino dei candidati. Espressione irriguardosa, certo, se si considera che ci si riferisce a chi potrebbe diventare, come si dice, capo dello Stato. Ma espressione anche veritiera perché segnala, con la sua prosaicità, che si sta consumando e si consumerà un rito inadeguato, meglio incongruo rispetto a quel che è, o dovrebbe essere, una res publica. Ma poi ci piacciono i nomi circolanti? Sono di persone che riteniamo affidabili? Consegneremmo loro la cura dei nostri figli e della nostra casa? Una domanda che può sembrare esigere troppo, quest’ultima; ma è ricorrente nei classici del repubblicanesimo.
A ben guardare, un mantra pare guidare la retorica della scelta del candidato presidente: si ripete ad oltranza che debba essere una figura ‘di alto profilo’. Ma in concreto quali requisiti postulerebbe questo ‘alto profilo’? Si risponde, al massimo, che non deve trattarsi di una figura ‘divisiva’. Ma sarebbe sufficiente a garantire la res publica che l’eletto fosse corredato dal sostegno di un’ampia maggioranza parlamentare? Indubbiamente sarebbe qualcosa, ma sappiamo ben come si formano le maggioranze in queste occasioni.
Sicché potremmo concludere che, rebus sic stantibus, si va ad eleggere una persona di cui non si sa molto; e di cui comunque non è poi necessario sapere molto. È così. Per esempio, a una parlamentare importante di un gruppo altrettanto importante fu domandato di esporre la ragione per la quale aveva deciso di votare alla presidenza del senato l’attuale presidente. Risposta: perché è un giudice. Ma la Presidente Casellati non è mai stata un giudice in quanto è un avvocato.
Prova qualcosa quest’esempio? Sì, che ampie maggioranze non assicurano che esse siano sempre sostenute da corredi informativi di cui occorrerebbe essere dotati quando si compia una qualunque scelta, specie se non irrilevante. Ma si insinua un dubbio un poco inquietante (e sappiamo che esso spesso è realtà): che queste ampie maggioranze criptino intrighi di palazzo, cioè spartizioni di potere o di poteri in funzione di interessi particolari o particolarissimi. Antropologia naturale di qualunque assemblea, diciamo composta da membri non educati o non sufficientemente educati secondo un profilo non dico alto, ma di elementare etica istituzionale: quella che, per esempio, ci rappresenta Rousseau nel Contratto quando riduce all’essenziale e scrive che il decisore pubblico, dunque in un’assemblea parlamentare, chiamato alla votazione, dovrà sempre e solo domandarsi se il suo voto «torna a vantaggio dello Stato» o, invece, «di quella tal persona o di quel tal partito». Ma quanti dei cosiddetti grandi elettori avranno letto Rousseau? Quanti saranno comunque sufficientemente attrezzati in etica istituzionale?
Si ha l’impressione che ‘alto profilo’ sia quello portato da chi rivesta o abbia rivestito una carica istituzionale di vertice: un ‘alto profilo’, è indubbio, potrebbero esibire anche uomini e donne privi di quest’esperienza verticistica, ma averla parrebbe come avere una specie di briscola, una carta che chiude ogni discussione in quanto garante di un certo pedigree. Ma se è così, un lume per orientarci ce lo porge proprio la Costituzione all’art. 54 che prescrive (sì, prescrive) che «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». A questo punto possiamo comporre una sequenza a cui corrisponde un criterio di valutazione: se il candidato presidente è stato – che so – presidente del consiglio dei ministri o presidente del senato, i grandi elettori hanno il dovere di riscontrare nei fatti se egli si sia condotto come indica, anzi impone, l’art. 54.
Qui si apre la metodica che dovrebbe guidare verso la scelta migliore: partire non dai nomi – vale a dire non dai vari circuiti di potere, quasi sempre autoreferenziali, che confliggono per il proprio interesse – ma dai requisiti che un candidato presidente deve avere. Questi requisiti – che si traducono in una gamma di interrogativi, di indagini e di risposte – non stanno scritti in alcun testo normativo, ma sono patrimonio della tradizione delle repubbliche e delle democrazie occidentali.
In essa si trova, ad esempio, che un elettore, maxime un grande elettore, dovrebbe sapere come il candidato sia entrato in politica e come egli si porti una volta entratovi: atteggiamenti opportunistici e menzogneri indurrebbero a valutazioni negative. Lo stesso se il candidato abbia approfittato della propria posizione: esistono e si formano giri strani per cui si ottiene una carica importante o una cattedra universitaria e, in cambio, si promuove la carriera dei figli di chi abbia favorito la presa della carica o della cattedra. È poi accettabile che un candidato serbi una condotta privata diciamo ambigua? Oppure è da pensare che uno, pur comportandosi inadeguatamente nella sfera privata, possa tenere una condotta irreprensibile esercitando una funzione pubblica?
Se diamo un’occhiata ai Praecepta gerendae rei publicae di Plutarco, un trattatello breve, scopriremo parecchie avvertenze: che «i politici non sono chiamati a render conto soltanto di quel dicono o fanno in pubblico»; che il loro dire deve essere «di carattere schietto, di sostanza vera»; che la loro guida, il loro mentore, non può essere «semplicemente un personaggio famoso e potente, ma chi sia tale anche per virtù»; che essi hanno da «dimostrare considerazione all’inferiore … usare affabilità e sollecitudine nei riguardi di tutti» ed essere egualmente alieni da «bramosia di onori» o «avidità di denaro»; che essi debbono godere di buona fama per «dirittura morale» e «senso di giustizia» et alia.
Pedanterie? Può anche essere. Ma non basta dire repubblica, democrazia, stato di diritto: queste sono parole che in sé non significano più di tanto. A rigore si tratta di fatti istituzionali che non possono essere veramente compresi in assenza di una certa educazione: di certe letture, di certe meditazioni, di certe esperienze. Si tratta di una delle ragioni per cui le democrazie sono quasi sempre rappresentative: se i cittadini non hanno un acculturamento sufficiente, c’è chi ce l’ha per loro e che per questo li rappresentano ai vari livelli istituzionali.
Però Rousseau diffidava dei rappresentanti perché essi tendono ad espropriare il popolo e a impadronirsi della sovranità per la realizzazione dei propri interessi particolari. Oggi dobbiamo aggiungere che troppi di loro non sono, e si mostrano, non istruiti, né culturalmente né eticamente. Così disposti essi sceglieranno il futuro presidente della Repubblica italiana senza avere mediamente i mezzi per riscontrarne l’adeguatezza; e in ogni caso resta che sono mediamente disinteressati a questo tipo di indagine. Né l’informazione pubblica, per varie ragioni, indaga e, dunque, informa sugli studi, la carriera, la vita dei vari candidati presidenti: si tratterebbe di influenze indebite? Ma può funzionare o funzionare bene una democrazia in difetto di trasparenza? I cittadini hanno o non hanno il diritto di sapere? Non ha forse scritto Kant la formula trascendentale del diritto pubblico secondo cui «una massima che io non possa rendere pubblica … che deve essere assolutamente segreta per riuscire», questa massima, cioè quest’intrigo, è causa di ingiustizia per tutti.
In questo contesto, con questa qualità di rappresentanti, con questa bramosia di vantaggi corporativi, con questo agere in negatoria dell’interesse comune, non farebbe meglio il popolo? Non sarebbe più affidabile la sua scelta? Non si potrebbe sperare di accrescere in tal maniera la sensibilità democratica quale antidoto a scelte arbitrarie e politicamente faziose? Se il Parlamento è luogo di congiure, è doveroso restituire al popolo il potere di scegliersi il presidente che voglia: la repubblica parlamentare ha fallito non perché il modello sia in sé sbagliato, ma in quanto gli artefici – cioè i parlamentari – hanno dato prove reiterate di non essere all’altezza. A monte c’è un problema di educazione politica che è divenuto drammatico una volta scomparse le grandi scuole politiche: è tempo di prenderne atto attraverso una rottura e un cambiamento che solo i cittadini potranno avviare attraverso un moto spontaneo. Ma occorre che si abbia il coraggio di aprire una discussione finalmente libera da paradigmi che si sono rivelati pregiudizi, spesso rottami storici, paralizzanti.
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