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Mattarella e la fisarmonica anelastica


1 Feb , 2022|
| 2022 | Visioni

Il 19 dicembre 1946, la Seconda Sottocommissione per la Costituzione, presieduta dal Presidente Umberto Terracini e incaricata dall’Assemblea Costituente di provvedere alla stesura della parte della Carta attinente l’organizzazione Costituzionale dello Stato e dei suoi organi, si occupò di trattare la carica di Presidente della Repubblica.

In particolare, una volta stabilita in 7 anni la durata del mandato del Capo dello Stato, si votò un emendamento volto a precludere la possibilità di rielezione della prima carica dello Stato per evitare che un mandato di 14 anni (o più) trasformasse di fatto la Repubblica in una sorta di monarchia elettiva. L’emendamento fu, in quella sede, approvato.

Tuttavia, il comitato di Redazione (detto “Comitato dei 18”), incaricato di armonizzare i testi provenienti dalle tre sottocommissioni e di redigere quindi il Progetto di Costituzione, espunse tale divieto di rielezione, lasciando impregiudicata tale possibilità pur ritenendola implicitamente un caso limite da evitare nella prassi.

D’altronde, le risalenti ragioni che sconsigliano, dal punto di vista della tenuta costituzionale e dell’equilibrio tra poteri, una rielezione del Presidente della Repubblica uscente non sono certo sconosciute o ignorate all’interno delle istituzioni. Da ultimo, illuminante risulta la dichiarazione con cui Carlo Azeglio Ciampi rifiutava nel 2006 la possibilità di una sua rielezione al Quirinale:

“Sono profondamente grato per le molteplici dichiarazioni in favore della mia rielezione a Presidente della Repubblica, anche perché esse implicano una valutazione positiva del mio operato quale Capo dello Stato, garante dell’unità nazionale e custode dell’ordine costituzionale. […] Tuttavia tali dichiarazioni mi inducono, per una esigenza di doverosa chiarezza, a confermare pubblicamente la mia “non disponibilità” ad un rinnovo del mandato, anticipata nel messaggio di commiato di fine anno.

   Non ritengo, infatti, data l’età avanzata di poter contare sulle energie necessarie all’adempimento, per il lungo arco di tempo previsto, di tutte le gravose funzioni proprie del Capo dello Stato.

   A ciò si aggiunge una considerazione di carattere oggettivo, che ho maturato nel corso del mandato presidenziale: nessuno dei precedenti nove Presidenti della Repubblica è stato rieletto. Ritengo che questa sia divenuta una consuetudine significativa. E’ bene non infrangerla.

   A mio avviso, il rinnovo di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato.”[1]

Peraltro, la posizione espressa da Ciampi si limitava a ribadire quanto era già pacifico in dottrina e anche nella prassi istituzionale, tanto che già il presidente Segni, nel messaggio alle Camere del 16 settembre 1963, sottopose al Parlamento l’opportunità di introdurre la non immediata rieleggibilità del Presidente, per «eliminare qualunque, sia pure ingiusto, sospetto che qualche atto del Capo dello Stato sia compiuto al fine di favorirne la rielezione». Nello stesso solco si inseriscono anche i tentativi di introdurre un divieto espresso di rielezione del Capo dello Stato, avanzati negli anni successivi dall’allora Presidente del Consiglio Giovanni Leone (il quale nel corso del suo successivo mandato al Quirinale ebbe modo di ribadirne la necessità) e dalla commissione parlamentare bicamerale guidata da Aldo Bozzi.

Tale consuetudine costituzionale si è, in effetti, mantenuta, pur nel silenzio della lettera costituzionale, nel corso dell’intera vita repubblicana per ben 65 anni, fino al 2013. In quell’anno, infatti, fu Giorgio Napolitano a essere il primo Presidente della Repubblica a vedersi rinnovato l’incarico.

Più recentemente, significativo (e allo stesso tempo surreale, visto il seguito) è il d.d.l. di revisione costituzionale degli artt. 85 e 88 Cost. presentato dal Partito Democratico (su iniziativa dei Senatori Parrini, Zanda e Bressa) il 2 dicembre 2021, proprio con il fine di sancire un divieto espresso assoluto di rielezione del Presidente della Repubblica. Nella relazione introduttiva al disegno di legge costituzionale si legge quanto segue:

“Il conferimento, nel 2013, di un secondo mandato al presidente Napolitano […] ha senza dubbio cambiato i termini della questione, che da mera possibilità teorica si è tradotta in precedente, e invita a interrogarsi sull’opportunità di riprendere e tradurre in norma argomentazioni così autorevolmente espresse. È infatti evidente che, se l’eccezione divenisse regola e quella che è stata la regola cominciasse ad apparire come eccezione, l’equilibrio dei poteri delineato dalla Carta potrebbe risultarne alterato. Non è peraltro un caso se gli Stati Uniti, pur in un contesto di elezione sostanzialmente diretta del Presidente, hanno introdotto il divieto del terzo mandato quadriennale solo nel momento in cui l’eccezione avrebbe potuto divenire prassi. Quanto alla presente iniziativa, l’articolo 1 introduce, all’articolo 85 della Costituzione, un divieto assoluto di rielezione del Presidente della Repubblica”

Così arriviamo oggi, con la rielezione di Sergio Mattarella, al secondo “bis” consecutivo. L’eccezione che diventa regola, come suggeriscono clamorosamente gli stessi parlamentari del PD che hanno poi contribuito entusiasticamente al “bis” con i loro voti. Tuttavia, per apprezzare quanto in profondità l’equilibrio costituzionale dei poteri possa risultare “alterato”, è necessario guardare anche all’ampiezza dei poteri esercitati durante il settennato e al contesto politico generale.

Al riguardo, si può notare come lo stesso Napolitano abbia inteso in senso decisamente estensivo le proprie prerogative presidenziali. Nel corso del suo mandato al Quirinale, in vari passaggi cruciali (dalla controversa nascita del governo Monti alla nomina dei cd. “Dieci saggi” a cui affidare la stesura delle principali riforme istituzionali ed economiche), Napolitano esercitò i propri poteri estendendo al massimo la “fisarmonica” dei poteri del Capo dello Stato.

Analogamente, anche durante il primo mandato di Sergio Mattarella, la Presidenza del Consiglio si è contraddistinta per un accentuato attivismo nella vita politica e nella dialettica democratica, tanto da poter far parlare non troppo impropriamente di “partito del Quirinale”. Dal celebre rifiuto della nomina al dicastero dell’Economia di Paolo Savona alla nascita (non meno controversa) del Governo Draghi, non mancano gli esempi in cui, al di là di qualsiasi valutazione di merito, il Presidente della Repubblica si è eretto a paladino difensore del vincolo esterno.

La permanente apertura massima dei poteri a fisarmonica del Presidente, nonché la stessa rielezione di Sergio Mattarella, è stata giustificata dalla narrazione secondo cui il Parlamento (teoricamente cuore pulsante della democrazia costituzionale e principale organo di rappresentazione della sovranità popolare) sarebbe un foro di discussione lento, conflittuale e incapace a decidere nei tempi richiesti (dai mercati).

Il teatrino cui abbiamo assistito in questi giorni non solo conferma l’eccezione della rielezione alla Presidenza della Repubblica (a dispetto della consuetudine), ma tende volutamente a confermare la crisi di credibilità dei partiti e del Parlamento stesso e a legittimare un commissariamento permanente della sovranità popolare che in quest’ultimo organo dovrebbe trovare la sua principale rappresentazione. In questo modo la “fisarmonica” è diventata anelastica.

All’interno di una cornice in cui l’azione legislativa tende peraltro a concentrarsi in maniera sempre maggiore nelle mani del potere esecutivo e in cui il ricorso alla decretazione d’urgenza è divenuto ipertrofico, l’equilibrio tra poteri disegnato dalla Costituzione risulta profondamento alterato: il Parlamento, ormai screditato, delegittimato e svuotato dalla partecipazione democratica popolare (per via della contestuale crisi dei partiti di massa), è sempre più chiamato a essere la “camera di registrazione di decisioni già prese altrove”[2].

A valle di tale processo siamo di fronte al cristallizzarsi di una Costituzione materiale, già da tempo in conflitto con la Costituzione formale, che segna una profonda trasformazione della democrazia costituzionale italiana. Il passaggio ad un semi-presidenzialismo (di fatto o di diritto) già si affaccia all’orizzonte, pur in assenza di un appropriato sistema di pesi e contrappesi. Siamo ad un bivio: assecondare la Costituzione materiale a discapito di quella formale (adattando le norme ai fatti) o continuare a rivendicare quest’ultima come argine alla prima (cercando di adeguare la realtà alle norme)?

Restare impalati di fronte a questo bivio rende la Repubblica preda ancora più ghiotta e indifesa per gli appetiti voraci delle oligarchie finanziarie che già preparano il prossimo avvicendamento al Colle a favore di chi oggi guida il potere esecutivo.

Un sistema di “porte girevoli e durevoli” da cui la democrazia costituzionale rischia di rimanere fuori.


[1] Dichiarazione integrale di Carlo Azeglio Ciampi del 3 maggio 2006, disponibile al seguente link: https://presidenti.quirinale.it/Elementi/188501?fbclid=IwAR1CRG6a9494nh78F1zCborO0SQT3zthMxmvsY-uu8WO25Aooci5Oqy4CN0 . Si ringrazia Giulio Gisondi per il significativo ritrovamento.

[2] N. Bobbio, L’età dei diritti, p. 167

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