Su Facebook di recente si fa un gran parlare di itanglese, perlopiù in chiave critica, non di rado aggressiva o sarcastica. Per quanto mi riguarda, appartengo alla numerosa compagine di “nuovi italiani”: di lingua e cultura d’origine diversa ‒ nel mio caso francese ‒, naturalizzati chi prima chi dopo, integrati certamente ma conservando un cervello e un occhio stranieri. Qui parlerò come docente universitario di Dialettologia araba a La Sapienza da trentasette anni, con una formazione da linguista e da dialettologo. Aggiungo di essere cresciuto comunista e quindi antifascista convinto e militante.
Sarà bene sottolineare in via preliminare gli atteggiamenti da evitare, al fine di rendere quest’invito a una conversazione ‒ cui accetterò con piacere ogni sorta di reazione ‒ atta a rivelarsi una critica costruttiva e una sensibilizzazione a una questione che molti italiani vivono come un non problema. Mi sforzerò di evitare con cura gli atteggiamenti non costruttivi:
‒ la spocchia del francofono impenitente quale sono per motivi genetici; forse sarà bene aggiungere che oltre al francese, al còrso e all’italiano appresi durante l’infanzia sono fluente anche in inglese ‒ che da buon francese detesto dover parlare ‒, tedesco, spagnolo, arabo ed ebraico;
‒ lo sdegno per una cultura italiana “calpestata” o dileggiata;
‒ un moralismo fuori luogo.
Ma andiamo passo per passo (itanglese step by step)
1. Che la Francia sia un Paese linguisticamente “fascista” o quanto meno “ridicolo” nell’imporre con leggi severe e sanzioni la traduzione francese di termini come computer, lockdown, hardware, software e tant’altro è un cliché che va non ridimensionato ma negato con categoricità. Il francese parlato è ricco quanto volete di franglismi (franglais) di ogni tipo, ma in qualsiasi situazione un minimo formale vengono evitati con cura, non come parolacce ma come inadatti alla circostanza. C’è “spocchia” in questo? Al mio modo di vedere no. Mario Draghi ‒ da millantato anglofono provetto ‒, che pur si è interrogato sul “perché usiamo tante parole inglesi?” nondimeno usa smart working pronunciato [zmɑɹtwǝɹkiŋg] (pronuncia corretta [smɑɹtwǝɹkiŋ]).
2. In Italia dove vivo e lavoro mi impegno a fare lo stesso. A lezione dico “in linea”, “nome utente”, “parola d’ordine” ‒ esattamente come in Spagna dicono en línea, nombre de usuario e contraseña, in Francia en ligne, nom d’utilisateur e mot de passe ‒ e molti non mi capiscono, altri si interrogano sulla mia intenzione comunicativa, pochi finiscono per adeguarsi. Figuriamoci se mi scuso per uno sbadiglio sfuggitomi spiegando che non mi sono ancora ripreso dal mal di fuso (itanglese jet lag, wikipedia mi propone anche discronia o disincronosi circadiana!) dopo il mio ritorno da Tbilisi, se racconto che il parco naturale Molentargius di Cagliari è una delle mete preferite dagli ornitologi dilettanti, (itanglese birdwatcher, pronuncia berduòccer, se non birduòccer), o che mio figlio lavora a tempo parziale (itanglese part time) in un centro chiamate (itanglese call center).
3. Già negli anni Ottanta il linguista italiano Arrigo Castellani denunciava quello che chiamò un morbus anglicus (invece di itanglese/itangliano/itanglish), trattandolo per quello che è: una patologia. Peter Doubt, di padre britannico e madre italiana, illustra quotidianamente su Facebook quanto in prima pagina de La Repubblica brulichino tra gli ottanta e i novanta anglismi (non di rado presunti, vedi smart working, green pass ecc.). Da nemmeno due settimane la terza dose del vaccino anticovid, da “richiamo” è diventato “booster”, usato perfino dai nostri ministri e giornalisti, da cui nuova necessità di prenotarsi al vaccinodromo (intanglese hub).
4. Ma prendiamo il toro per le corna: “Gli italiani sono negati per le lingue”. È proprio vero? Con fortunate eccezioni, certo. Confessiamo che, tra docenti non italiani che insegnano in Italia – rientro nella suddetta categoria –, nel caso di pause-caffè consecutive a lezioni un po’ cariche, ci capita non di rado di bofonchiare questa frase, guardandoci di sottecchi e con il senso di colpa di chi sa di procedere a una dichiarazione apertamente razzista, ma, ahimè, dolorosamente prossima a una sconsolante realtà. In una delle sue battute storiche, Tullio De Mauro (1932-2017) – senz’altro il più grande linguista italiano del Novecento – spiegò che, dal Dopoguerra in poi, gli italiani erano stati troppo impegnati a studiare… l’italiano, per avere tempo ed energia da dedicare ad altre lingue. Certo, la lotta contro l’analfabetismo e per la diffusione di una lingua comune, in una popolazione i cui parlanti unicamente dialettofoni rasentavano in misura insidiosa il cinquanta per cento, assunse una priorità urgente e per certi aspetti un po’ isterica. I risultati furono ottimi, sebbene ci siano voluti cinquanta (se non settanta) anni, ma ebbero effetti fortemente destrutturanti e non di rado disastrosi sulla sicurezza linguistica degli italiani.
5. In Francia, se correggo un parlante sulla pronuncia, sull’uso improprio di un’espressione o di un costrutto sintattico, mi guarda storto per qualche secondo e finisce per uscirsene con un “Io dico così!”, invitandomi in tono più o meno esplicito a raggiungere un luogo di decenza. Se faccio lo stesso con un italiano, reagisce come un bambino sorpreso con le dita nel barattolo di marmellata, e articola qualche borboglìo di scusa. Ognuno sa che Washington si legge (più o meno) Uàscinton. Ma se stasera al telegiornale un giornalista se ne esce con Uèscinton, tutti a dire Uèscinton dal giorno successivo. Se l’italiano medio ha difficoltà con le lingue, uno dei motivi è che ancora oggi è molto insicuro della propria lingua. Quindi figuriamoci con altre. Gli italiani non sono propriamente “negati” per le lingue. Sono inibiti in loro presenza. Da cui il salvifico itanglese come immunità di gregge (belante).
6. Quando arrivai in Italia da bambino nei primi anni Sessanta, moltissimi italiani conoscevano il francese e lo parlavano con proprietà di linguaggio, e se sapevano un’altra lingua quella era il tedesco. Altri non lo parlavano ma lo capivano. Negli anni Settanta i liceali “facevano” inglese e francese ma erano incapaci di formulare un enunciato in queste due lingue. Negli anni Ottanta della mia formazione universitaria, i nostri professori davano per scontato che leggessimo inglese, francese e tedesco, e molti ci spronavano a metterci al russo. Oggi se esorto un mio studente a leggere un testo in francese (lasciamo proprio stare il tedesco), reagisce nel più dei casi come se gli avessi ingiunto di affrontare un trattato in birmano. Oggi come oggi, tutto quanto non sia italiano non può essere altro che inglese. Il mio nome è da tempo diventato Òliver, quello di mia nipote Sophie Sòfi, l’aeroporto parigino Charles de Gaulle Ciòrls Degòl, lo scrittore ginevrino Joël Dicker Giòel Dìccher, la località francese Saint-Raphaël Seint Ràffael, quella spagnola San Sebastián (con tanto di á!) San Sebàstian, e mi dicono che il Palacio del Generalife di Granada per i turisti italiani è gèneral làif .
7. Oggi è dunque rimasto l’inglese. Sorvoliamo la pronuncia. “Thank you for traveling with Trenitalia, goodbye”: Teng iù for tràvelin uid Trenitalia, gubbài. Esiste ormai un Italian English (smart working docet, appunto!) come esiste l’italiano svizzero, che chiama il computer “ordinatore” e la patente di guida “licenza di condurre”.
8. Ora, perché francesi, spagnoli, tedeschi, arabi e israeliani ‒ e tanti altri! ‒ si premurano di tradurre i concetti nuovi inglesi (se davvero li hanno inventati gli anglosassoni) nella propria lingua (ordinateur, ordenador, Rechner, حاسوب [hasùb], מחשב [makhshèv]? Tutti fascisti, ridicoli e snobboni? Non sarà piuttosto gli italiani ad avere un qualche problema culturale, se non esistenziale? Una malattia autoimmune (cioè caratterizzata da una disfunzione del sistema immunitario che induce l’organismo ad attaccare i propri tessuti), non gravissima, ma dell’entità di una psoriasi: anglismi inutili e deturpanti che ci si appiccicano come foruncoli infermicci?
8. Noi nuovi italiani italianizzati e fieri di essere anche italiani assistiamo all’itanglomania con reazioni che vanno dal sorriso ironico all’incomprensione, dal fastidio allo sfottò. Un’altra affissione (itanglese post) divertita su Facebook ha di recente dimostrato che un britannico non capiva nemmeno una di una quindicina di espressioni itanglesi. Personalmente trovo stomachevole quanto il ketchup sui maccheroni devolution “decentramento istituzionale”, newtown “piano di ricostruzione edile provvisoria”, ticket “tassa sulle prestazioni sanitarie”, austerity “austerità”, spending review “tagli sulla spesa pubblica”, JOBS act (acronimo di Jumpstart Our Business Startups Act) “riforma del diritto del lavoro” ‒ spesso scritto Job’s act “atto di [un misterioso] Giobbe” ‒, per non parlare di un recovery fund “fondo di recuperi” di cui molti non capiscono neppure il significato. Eh, ma troppo lungo, in italiano! Allora viva la neologia e gli scorciamenti: decentramento, neocittà, sanitassa, austerità, tagli, e visto che DPCM non ci spaventa perché non RDL?
9. Qualcuno mi dirà che anche marocchini, algerini, tunisini e libanesi fanno su e giù con arabo e francese. Ho chiamato il fenomeno transglossia, ovvero un modo di esprimere a voce alta il proprio bilinguismo e biculturalismo. Ma questi arabi sono tutti perfetti bilingui in entrambe le lingue, che le scuole locali insegnano sin dalle elementari, se non dall’asilo. Sono di cultura araba ma anche francese. Quanti italiani possono dirsi realmente bilingui con italiano e inglese? E non soltanto: meno lo sono più usano l’itanglese.
10. Amici italiani doc, ve lo dico in tutta amicizia: parlando itanglese vi illudete di planare (itanglese surfare) sulla cresta dell’onda della contemporaneità e di un futuro aureolato da anglismi, veri o presunti. A nome di tutta la comunità di nuovi italiani, unanime nel giudizio che sto per darvi, vi rendete in realtà totalmente ridicoli, anzi grotteschi, e al limite della cafonaggine. Siete convinti di sprovincializzarvi farcendo il vostro italiano di parole ed espressioni inglesi, mentre in realtà non fate in questo modo altro che accentuare gravemente il vostro provincialismo. Mi dispiace, ma quest’itanglofilia strisciante e ormai proliferante è una sindrome, preoccupante, di depauperamento di una cultura italiana sempre più mèdiocre, e i tanti che difendono l’itanglese come necessario, inevitabile, ormai irrinunciabile mi fanno soltanto cagare. Ve la ricordate la canzone Tu vuò fa l’americano di Renato Carosone, del 1956? Allora, che cosa stigmatizzava, quella canzone? La persona che, a torto o a ragione, si sente provinciale, e cerca di rimediare a tale condizione assumendo una serie di comportamenti vari ‒ whisky and soda e rock and roll… ‒, con tuttavia il risultato che così facendo non fa altro che accentuare il proprio aspetto provinciale. Moralità della favola: Sient’a me, chi t’o fa fà?
11. Di là dai prestiti nudi e crudi, si sono da tempo acclimatate traduzioni approssimative a livello lessicale, ad es. le manifestazioni (politiche) sono diventate “dimostrazioni” (demonstrations) e i manifestanti “dimostranti” (demonstrators), le prove “evidenze” (evidences), e sintattico, ad. es. “Ci vediamo prossima settimana” (next week) o “mia mamma” (my mum). Gli aggettivi in italiano vanno collocati dopo i sostantivi (tranne “grande” e “bello”, “un grand’uomo” non è la stessa cosa di “un uomo grande”), ma da decenni nessuno più si stupisce nel leggere “L’incredibile avventura” o “Un esilarante racconto”, secondo il modello anglosassone. Trattasi in termini tecnici di interferenza linguistica. In simili casi, è la scuola a latitare. Ora se perfino i miei colleghi del Dipartimento di Studi Orientali, tutti distinti linguisti, parlano di online, deadline, assessment, over 40, depository, templato et similia, c’è poco da sperare.
12. Nessuna lingua è “pura”, e sono il primo a dire okay con buona coscienza, fast food per riferirmi a un modo di mangiare indecoroso, jeans per un capo di abbigliamento comodo e valorizzante per le donne, più o meno come farei in francese. Mi rallegro del fatto che ciao, pizza e spaghetti siano ormai diventati internazionali, e per converso accetto ben volentieri déjà vu, ça va sans dire, divertissement, j’accuse o joie de vivre. Insomma, un purismo eccessivo può rivelarsi pedante e stucchevole.
13. Quante volte sento dire che, eh sì, l’inglese è più “stringato” dell’italiano, ricorre a meno parole per dire le stesse cose… Che lingua agile e sciolta…! Facciamo un esempio. Salgo su un qualsiasi aeromobile di Alitalia, e mi siedo al posto assegnatomi. Sullo schienale della poltrona di fronte a me leggo la seguente scritta bilingue:
Life jacket under seat
Il giubbotto salvagente si trova sotto la propria poltrona
Ebbe’, sì… quattro parole inglesi contro nove italiane… bisogna riconoscere… in effetti… Qui ci vuole un excursus storico e linguistico. In base a direttive rivolte alla lotta contro l’analfabetismo, sin dagli inizi del Novecento gli Stati Uniti hanno deciso di ricorrere il meno possibile a segnali, preferendo loro ingiunzioni scritte. Laddove in Italia abbiamo un cartello circolare azzurro con una freccia bianca rivolta verso destra, in America troviamo la scritta “turn right”. Ora, turn right si legge e assimila in fretta. Ma un’indicazione più articolata, come Attenzione al pericolo di smottamenti improvvisi, tenersi rigorosamente sulla destra e moderare la velocità, può rivelarsi controproducente, in quanto l’automobilista intento a decriptare tutto con attenzione si distrae dalla guida e fa largamente in tempo a finire contro un palo o in fondo al burrone. Questo ha portato gli americani a “limare” quanto più possibile le segnalazioni, stradali o altre. Life jacket under seat, letteralmente “salvagente sotto sedile”, non è inglese né letterario né colloquiale, che direbbero piuttosto the life jacket is under your seat, sette parole: sempre meno di nove… In Italia non siamo abituati a queste potature sintattiche. Bisogna spiegarci tutto. Del salvagente viene precisato che si tratta di un giubbotto salvagente, affinché qualcuno magari non immagini una ciambella con la papera. Si trova, nel senso che occorre cercarlo. Sotto la propria poltrona, altrimenti l’italiano lo va a prendere d’istinto sotto il sedile che ha davanti a sé. È così che, alcuni anni fa, apparve sulle portiere posteriori dei tassì italiani, in corrispondenza della maniglia, la scritta bilingue:
Chiudere piano
Close soft
All’attenzione di quei clienti zelati che sbattono la portiera come se dovessero schiaffeggiare un ippopotamo. Ora, a parte il fatto che close soft in inglese significherebbe “chiudere con dolcezza”, o “delicatezza”, premura tutto sommato eccessiva nei confronti di una carrozzeria d’acciaio temprato, sulle portiere dei tassì britannici leggo:
Please, do not bang the door
Con tanto di please, di virgola e di do not anziché don’t: questa volta, due a sei per l’italiano. Ma l’inglese è più “pragmatico”, sento spesso affermare: si fa prima a dire jetlag e feedback che “mal di fuso” e “ritorno d’informazione”. Allora proponiamo fusopatia e un semplice ritorno risemantizzato (che peraltro sento in bocca alla mia salumiera a proposito dei commenti dei clienti su dati prodotti). Per stalking esiste uno splendido assillo, e quanto al computer ormai inestirpabile ‒ anche se qualcuno lo chiami ancora calcolatore ‒, in Svizzera lo chiamano ordinatore. Volere è potere.
14. Esistono anche parole italiane oggi in totale disuso che potrebbero essere riattualizzate, come stazzone (maschile o femminile, stessa etimologia di stazione), che si riferiva alla bottega (e spesso abitazione) dell’artigiano, per workshop. Lo ha fatto l’arabo in diversi casi: nella lingua standard attuale l’automobile e il treno sono chiamati sayyāra e qiṭār, che oggi significano soltanto questo, ma in antico arabo erano il “dromedario da corsa” e la “carovana di montagna” con i dromedari in cordata come vagoni.
15. Usare l’aureolante itanglese, che per molti italiani è vissuto come un non problema, viene sbandierato come “più moderno”. Ora la domanda è: chi è più moderno, chi affronta la modernità adeguandovi la propria lingua, o chi opta per aggrapparsi a un’altra lingua? “Modernizzarsi” significa rinunciare alla propria identità culturale? Così pare di capire, e con buona pace dei francesi snob e spocchiosi.
16. Per concludere: se di patologia si stratta, come guarirla? Più che di patologia, a mio modo di pensare, vi vedo un tic (voce onomatopeica, di cui ticchio rappresenta una variante ricercata e più elegante). Per i tic, l’unico medicinale è l’autodisciplina. Piantiamola una buona volta di toccarci il pisello o grattarci il culo davanti a tutti con l’itanglese!
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