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Non è così che dalla pandemia si esce a sinistra
Negli ultimi tempi, diverse esternazioni dei dirigenti Pd hanno ribadito un concetto, secondo cui «dalla pandemia si esce da sinistra». Peccato che pare essere più una boutade che un’agenda, dacché nella realtà non sta accadendo nulla che va in quella direzione. Perché «uscire da sinistra» dovrebbe voler dire lasciarsi la pandemia alle spalle migliorando la condizione di chi sta peggio e qui non sembra che ciò stia accadendo.
Da quando i contagi hanno ripreso a crescere, a fine ottobre, per poi raggiungere numeri record, il governo non ha fatto nulla per contenerli, se non continuando ad insistere sulle vaccinazioni, per arrivare addirittura all’obbligo vaccinale per gli «over 50», pur sapendo che non è il vaccino a contenere il contagio ma lasciando credere, con grande risonanza sui media, che questo avrebbe finalmente messo un freno alla pandemia. E, però, se l’Italia è l’ottavo Paese al mondo per decessi da Covid-19 – abbiamo superato i 150.000, ma i giornali non raccontano più le storie dietro a quei numeri, se non sono di irriducibili «no vax» – e tra i primi venti nel numero di morti relativo (peggio di noi, nella UE, i Paesi dell’Est, più poveri), è perché la gestione della pandemia è stata affidata a una medicina territoriale lasciata a se stessa e agli effetti della sindemia – la sinergia di più pandemie.
La «quarta ondata» del contagio ha messo in luce i molti punti deboli del sistema. Migliaia di cittadini in attesa di un contatto – non diciamo di una visita – con il medico curante, di una terapia che non fosse l’inutile «vigile attesa» per farsi poi ricoverare con il virus deflagrato, senza poter accedere né ai monoclonali, alle cure precoci o ad altre terapie (persino Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, è divenuto un solitario «oppositore», enfatizzando l’importanza dei medicinali anti-infiammatori, contro l’approccio delle circolari ministeriali).
Se il nostro computo dei morti è così (più) tragico, però, è per quanto gli osservatori ci vanno dicendo da anni: che questo è un Paese con malattie croniche diffuse accentuate dalle (povere) condizioni di vita. La pandemia, da noi, è stata da subito una sindemia, come già aveva avvertito The Lancet nel 2020.
Peraltro, i dati dell’ISS – pur sempre scarni di informazione – riportano l’alta correlazione tra mortalità da Covid e altre patologie (solo il 2.9% dei deceduti non ne aveva). Eppure, la narrazione dominante nasconde che il coronavirus ha colpito i più fragili, di tutte le età ma soprattutto anziani, che vivono in condizioni abitative e di vita più disagiate, con diete povere, più affetti da malattie croniche non trasmissibili. Perché da noi si vive forse più a lungo ma si vive, in media, peggio. «Uscire dalla pandemia a sinistra» avrebbe voluto dire guardare alla drammaticità della sindemia.
Avrebbe presupposto un rapporto diverso con le Big Pharma dei vaccini – in termini di trasparenza – perché non c’è un solo vaccino, ma ce ne poteva essere più d’uno. Avrebbe dovuto significare non scavare un ulteriore solco nel corpo sociale sfibrato tra vaccinati e non, quando sono le ragioni della fiducia – nello Stato come nell’autorità – a determinarne la cifra, che l’esitazione vaccinale non si vince con l’obbligo ma con le rassicurazioni. In Francia, gli studi rilevano come siano le condizioni di povertà e privazione più correlate con l’astensione vaccinale. In Germania, invece, sono stati anche naturismo ed ecologismo a fare da terreno di coltura al rifiuto. In Italia, i nostri inutili istituti di ricerca sociale non sanno dirci nulla, se non che vi sia una certa «irrazionalità» diffusa a farsi condizionare dalle «fake news». Un composito movimento d’opinione ha però messo in luce criticità e perplessità sui vaccini che sono state derubricate a «fantasie», che lo stesso dibattito scientifico sui vaccini è molto più aperto e articolato di quanto si voglia far credere e che il tema degli «effetti avversi» non può essere ridotto a singolarità ininfluenti, perché è serio.
Il rapporto dell’AIFA di qualche giorno fa ha messo in luce alcuni dati che i più hanno descritto come confortanti ma non lo sono affatto. Secondo il rapporto, nel 2021 vi sono state ben 118mila segnalazioni di reazione avverse (ma sappiamo anche quanto la «vigilanza» sia stata viziata dall’idea che solo i casi «sospetti» andassero monitorati dai medici di base, quando una vigilanza seria avrebbe dovuto riportare tutti i casi), delle quali ben 19mila relative a «eventi avversi gravi» (il 16.2%). Di questi lo 0.7% ha portato a decessi e l’1.1% a situazioni di «pericolo di vita» che, tradotto in numeri, vuol dire 2,124 casi (di cui 758 «fatali»).
Ora, più di duemila casi gravissimi pongono un serio problema per chi ha sostenuto la legittimità dell’obbligo vaccinale. Se infatti il principio deve essere quello della salute pubblica, è anche vero che esso deve rispettare quello dell’incolumità dell’individuo. Se anche, in termini percentuali, il numero è «basso», ciò non toglie che esso sia rilevante. E confrontare il numero dei decessi osservati con quello dei decessi attesi in assenza di vaccinazione (come fa il rapporto AIFA) sposta l’attenzione in modo fuorviante, perché non vi è coincidenza tra i due «bacini» (non è detto che coloro che morirebbero a causa del vaccino siano gli stessi che morirebbero a causa del Covid-19). Chi ha difeso la «costituzionalità» dell’obbligo sulla base del fatto che non vi sarebbe violazione del principio dell’incolumità individuale, sulla base di questi numeri, dovrebbe quindi ricredersi.
C’è poi da aggiungere che il rapporto non analizza i casi avversi gravi – quali sono le ragioni che portano a reazioni negative – che invece, come emerge dalla letteratura scientifica, sono da collegarsi a pre-esistenti condizioni di salute specifiche, che interessano fasce di popolazione più vaste di quanto si voglia far credere. Come non prende in considerazione le reazioni avverse che si manifestano nel tempo (che, a quanto risulta dalle molte segnalazioni di associazioni e siti web, come ad esempio «Goccia a goccia»), limitandosi ai casi incorsi nell’immediato dell’inoculazione.
Invece, facendo il gioco di pochi fanatici «no vax», i media hanno contribuito a farne una guerra di religione, facendo di tutta un’erba un fascio – mettendo insieme «no vax» irriducibili e negazionisti e coloro che possono invece avere serie ragioni sanitarie – quando invece ci sono indicazioni che siano fasce ampie ad esserne interessate, oltre a una minoranza di persone altamente informate e sensibili su temi sanitari per ragioni personali e culturali. Fasce marginali e subalterne, fasce sociali trasversali, che dipingere come «estremiste» e «complottiste» è scorretto. Tra l’altro, se da alcune parti negli ultimi tempi si è detto che «bisogna uscire dalla contrapposizione tra pro-vax e no-vax», si aggiunge poi che si deve rispettare un «principio di verità» e che non si può discutere con chi sostiene posizioni «assurde». Ma così si continua a trattare la questione come se chi si oppone ad un approccio che non ammette contraddittorio è, di fatto, un «terrapiattista», eliminando tutte le posizioni intermedie e critiche.
No, non è così che si «esce a sinistra dalla pandemia». Non lo si fa con un ministro della salute che non risponde nel merito alle mille osservazioni che in due anni gli sono provenute dal mondo medico e scientifico. Non lo si fa con provvedimenti che si contraddicono, che non vengono spiegati, emessi con paternalismo severo per fustigare, come, ad esempio, ha ripetutamente argomentato su Domani Vitalba Azzollini. Perché le tabaccherie? Perché la pensione alla Posta? Persino la multa, pensata come «schiaffo» ai cattivi, quando sono persone le più diverse per estrazione sociale e culturale ad avere ragioni per opporsi. Per non parlare della scuola e di un ministro che – difficile a dirsi – ha fatto solo peggio di chi l’aveva proceduto. O dell’università, dove il 97% del personale era già vaccinato e si è imposto un obbligo – per tutte le età – che comporta la sospensione del docente non inoculato. Che potrà essere sostituito, però, anche da uno non vaccinato. Non è sufficiente il tampone, si è detto: anche se lavora da casa, il ricercatore deve essere vaccinato, mentre per i suoi studenti l’obbligo non vale.
«Uscire da sinistra dalla pandemia» avrebbe voluto dire andare incontro, facilitare, unire e non dividere. Creare decine di hub per i tamponi nel momento in cui è riesploso il contagio, invece di lasciare il tutto in mano alle farmacie, favorire il tracciamento a scuola per evitare la penalizzante «dad», investire sulle aule e le infrastrutture. Non lasciare il cittadino abbandonato, che sopravviverà se ha la fortuna di trovare un medico o un preside serio, non lasciando il Paese a se stesso. E se la preoccupazione è rimasta quella di ospedali «al collasso» o terapie intensive «intasate», è perché in due anni i governi non hanno fatto nulla per aumentare organici e attrezzature, perseguendo le medesime politiche di riduzione della spesa pubblica di sempre.
Secondo l’Unione Europea, «nel decennio precedente l’epidemia Covid-19, la spesa sanitaria italiana è stata nettamente inferiore alla media UE, sia in termini pro-capite che in rapporto al Pil», 8.7% contro il 9.9% nel 2019. E la previsione di spesa contenuta nell’ultima legge di bilancio vede un’incidenza sul Pil sempre minore: 7.5% per il 2020, 7.3% nel 2021, 6.7% nel 2022 fino al 6.1% del 2024, quando la spesa in euro sarà sostanzialmente uguale a quella del 2019, pur in presenza di un aumento stimato del Pil.
Il disastro della sindemia è già apparso chiaro nell’aumento delle povertà – soprattutto tra i lavoratori – e delle disuguaglianze. Senza guardare a come la pandemia ha colpito – per quanto detto sopra – da sinistra si lascia che il governo, con atteggiamento «tecnico», proceda con i suoi provvedimenti. Fingendo però di non sapere che le politiche pubbliche non hanno cambiato verso. Il «Piano di ripresa e resilienza», che avrebbe dovuto essere il terreno di un confronto proficuo si è trasformato in un gigantesco e macchinoso atto tecnico-burocratico, senza respiro programmatico e strategico. Le politiche economiche e sociali hanno trovato contrari appena parte dei sindacati e con milioni di famiglie indigenti e altrettanti milioni di lavoratori precari o poveri non si è stati capaci di avviare un po’ di redistribuzione. Il governo dell’autorevole premier che il mondo ci invidia non ha saputo partorire che una legge di bilancio iniqua come le molte che l’avevano preceduta.
Eppure, tanto il Pd come i partiti e i movimenti di sinistra, dovrebbero saperlo: per uscire «da sinistra» ci vorrà una politica che ripensi a se stessa e a chi si vuole rivolgere. È a loro che ci rivolgiamo: se serve una «agenda sociale» che venga fuori ora, perché il Paese lo avete già perso per una buona metà e dalla pandemia si potrà uscire da quella porta solo se cambierete politiche.
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