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Nel sottosuolo di Dostoevskij


6 Mar , 2022|
| 2022 | Visioni

Proviamo a leggere Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij incentrando sul concetto di volontà. La volontà di vivere di schopenhaueriana memoria, la volontà di potenza nietzscheiana, la volontà del singolo contro il sistema, contro la struttura. La volontà del singolo si scontra con le leggi di natura; la volontà di errare, di deviare, si scontra con il positivismo imperante verso la metà dell’Ottocento. La prima parte è una voce monologante: una prima persona riflessiva in cui la selezione dei pensieri non si tramuta in flusso di coscienza, è piuttosto un’invettiva contro il progresso. L’incipit presenta direttamente il protagonista-narratore, senza tuttavia – come si direbbe oggi – metterlo in scena. Dunque, non lo rappresenta, lo presenta e basta.

Io sono un uomo malato… astioso. Sono un uomo malvagio. Credo di essere malato di fegato. Del resto non ne so un accidente della mia malattia e non so neppure esattamente cosa mi faccia male. Non mi curo e non mi sono mai curato sebbene abbia rispetto per la medicina e per i medici. Inoltre sono anche estremamente superstizioso: insomma quanto basta per tenere in considerazione la medicina. (Sono abbastanza colto per non essere superstizioso, ma sono superstizioso.) No no, io non voglio curarmi per rabbia. Questo voi, certamente, non lo capirete. Be’, io invece lo capisco. Naturalmente non sono in grado di spiegarvi a chi precisamente la farò pagare, in questo caso, la mia rabbia; so perfettamente che neanche ai medici potrò recar danno se non mi curo di loro; so meglio di chiunque che in questo modo danneggio unicamente me stesso e nessun altro; eppure, se io non mi curo, è solo per rabbia. Ho mal di fegato? Tanto meglio, mi faccia ancora più male!

È un pezzo che vivo così: saranno vent’anni. Ora ne ho quaranta. Prima ero impiegato. Ero sgarbato e ci provavo gusto.

(Fedor M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Bur, 2004, pp.19-21)

Nella seconda parte, A proposito della neve fradicia, il narratore esce dal pensiero monologante e va nel mondo. Un senso di abiezione, odio per sé stesso, incomprensione lo assale. Il narratore spiega sin dal principio di voler arrecare danno a sé stesso. Nel dispiegare la propria volontà – sebbene assurda, malata, antieconomica, contro le leggi di natura – è libero, o si illude di esserlo. Si tratta di una sfida, una sfida che l’uomo del sottosuolo rivolge a Dio, alla Natura, all’Umano. Gli episodi che narra sono avvenuti in passato – circa vent’anni prima rispetto al momento in cui racconta dal sottosuolo –, e sono precisamente tre.

Nel primo gli accade di entrare in una sala da biliardo e essere spostato di peso da un ufficiale che era lì a far baldoria con gli amici. Lo incontrerà ancora lungo la Prospettiva Nevskij, e ogni volta l’ufficiale lo urterà senza accorgersi della sua presenza. Essere ignorato è per lui una ferita assai più grave che essere preso a pugni. Torna il tema della volontà, ma assieme si palesa anche un’altra sottotraccia: l’autorevolezza, in relazione alla classe sociale. Ora, il nostro protagonista è un impiegato, lavora all’interno del complesso meccanismo burocratico russo, ma è un semplice impiegato. Il fatto di essere urtato – per sbaglio, forse, ma chissà, tutto ci fa credere che l’altro non lo abbia neppure visto – proprio da un ufficiale, dunque da un uomo appartenente a una classe sociale più alta, è per lui un’onta. Per cui, chiederà in anticipo il salario, comprerà un nuovo cappotto, tenterà di mostrarsi in tutto e per tutto alla pari del suo momentaneo nemico, fino al momento in cui sarà pronto, sulla Prospettiva Nevskij, per affrontarlo. E lo farà. Ha persino pensato di sfidarlo a duello ma, trovando poi la cosa del tutto ridicola, deciderà solo di non scostarsi, e urtarlo anche lui. Qui il nostro protagonista vanterà una vittoria. Ma è solo una piccolissima vittoria, un avanzamento minimo; tale piccola e insignificante vittoria renderà più amara la sua sconfitta. L’insignificante vittoria gli è servita a tornare a trovare i compagni di classe, che si riuniscono a casa di Simonov. Ovviamente, non è in buoni rapporti con loro, li odia, e loro lo disprezzano; sin dai tempi della scuola l’uomo del sottosuolo amava dissacrare ogni cosa e scontrarsi con l’idolo della classe Zverkov.

Monsieur Zverkov era sempre stato anche mio compagno di scuola. Io avevo cominciato a detestarlo decisamente nelle classi superiori. Alle inferiori era soltanto un ragazzo simpatico, vivace, amato da tutti. Io però non lo potevo soffrire anche alle inferiori, proprio perché era simpatico e vivace. Andava sempre male a scuola e man mano che si procedeva, peggiorava sempre. E tuttavia terminò la scuola con successo perché aveva degli appoggi.

Poi seppi dei suoi successi di ufficialetto in caserma e nella crapula. Poi giunsero altre voci sulle sue qualità in servizio. Per strada ormai non mi salutava più e io sospettavo che avesse paura di compromettersi con una persona insignificante come me.

(Fedor M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Bur, 2004, pp. 137-139)

Il protagonista-narratore impone la sua presenza e continua a polemizzare con Zverkov e a farsi detestare da tutti fino a che, giunto al parossismo dell’umiliazione dichiara, in preda a una crisi di nervi, di aver solo desiderato di essere loro amico. Siamo in una locanda, un ristorante, e si festeggia l’avanzamento di posizione di Zverkov, divenuto appunto ufficiale. Per cui capiamo che lo scontro-vittoria con l’ufficiale precedente non era che lo spettro del nemico reale del nostro protagonista, lo spettro di Zverkov.

Cacciato, allontanato e umiliato, non riesce a levarsi di testa l’obiettivo di vendicare l’onta, di riscattare un’intera esistenza. Li segue in un bordello per concludere i festeggiamenti, qui però li perde di vista e gli viene data in pasto la giovane prostituta Liza. Il nerbo sta tutto nello scioglimento del tema, il tema della volontà; il tema – filosofico – di fare il male per dimostrare d’esistere, andare contro natura, contro la vita. Solo adesso scorgiamo nel protagonista un fondo di umanità, di tenerezza, persino di bontà, di cui non l’avremmo creduto capace. Si palesa in pieno il classico personaggio dostoevskiano, che è buonissimo nella sua cattiveria o cattivissimo nella sua bontà. Parte un dialogo tra i due, in cui lui cerca con tutti gli argomenti possibili di redimere la giovane Liza, che ha cominciato a prostituirsi da appena due settimane.

Mi girai con disgusto. Ora non ero più un freddo raisonneur. Io stesso cominciavo a sentire che mentre parlavo mi scaldavo. Ero già vogliosissimo di esporre le mie quattro idee segrete che hanno preso forma nella mia tana. Qualcosa cominciò a bruciare dentro di me, all’improvviso, era “comparsa” una specie di meta.

(Fedor M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Bur, 2004, p.199)

Non la sfiora neppure e, quando crede avviato in lei un principio di mutamento, va via lasciandole il suo indirizzo. Dopo alcuni giorni la ragazza si presenta da lui e avviene il peggio. Una vendetta la otterrà ma non su Zverkov, non sul suo vero nemico, quanto su di lei, su un essere più fragile, più in basso. La umilia, rivelandole di aver voluto solo illuderla. Abusa di lei. E, infine, per completare l’umiliazione e il ribrezzo, le lascia dei soldi. Eppure, proprio mentre compie simili azioni, lui stesso si odia, si disprezza e riesce perfettamente a immedesimarsi nella povera Liza, cui ha spezzato il cuore. Torna quindi nel Sottosuolo, e resta nella sua tana da topo, nel suo sottomondo, nella sua abiezione, per il resto del tempo. Ma poi in fondo cos’altro ha fatto se non constatare quelle stesse leggi di natura contro le quali sbraitava in principio?

Il meccanismo dell’abuso è più volte inscenato nei romanzi di Dostoevskij, ma analizzando a fondo la psiche del protagonista stesso rintracciamo una pulsione originaria nell’uomo, o forse potremmo definirla inclinazione – dato che l’uomo non dispone di istinti specializzati, cosa invece propria agli animali, e non è tutt’uno con la natura, cosa propria al resto del senziente. Tale inclinazione non è che la sua miseria, la miseria del vivere umano, in cui nulla è acquisito e tutto deve venir più volte messo in uso per poter essere davvero nostro. Nulla ci appartiene, neppure la vita; siamo noi ad appartenerle, e lei si fa beffe di noi. Il rispecchiamento è spesso a somma zero, qui lo è di certo. Resta la coscienza della somiglianza, una somiglianza che si fa specchio coperto, poiché il protagonista-narratore copre lo specchio che gli rivela la fragilità di Liza. Il maschile e il femminile sono maschere atte a mettere in scena l’urlo del libero volere, laddove libertà somiglia a prigionia. Il sottosuolo, appunto.

Una lettura peculiare è fornita da René Girard che in Menzogna romatica e verità romanzesca paragona l’uomo del sottosuolo al narratore-protagonista della Recherche proustiana e a Madame Bovary, evidenziandone somiglianze e differenze. Tutto ruota intorno alla dualità sogno-desiderio. Maggiore è il sogno, minore è il desiderio, e viceversa. In una lettura lacaniana – a suo modo rovesciata – per cui il desiderio dell’uomo del sottosuolo è così grande da non avere oggetto, da non permettere alcun sogno, alcun rapporto; perciò egli lo soddisfa nell’abuso, ovvero nell’assenza pressoché completa di relazione, ribaltando il mondo, estinguendo ogni volontà.

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