È l’interpretazione a dare valore ai dati. Una nozione tragica, giacché impone, o meglio sovrappone, la fatica del concetto alla seccatura del fact checking. Una seccatura che, di questi tempi, un fanatismo epistemologico ingenuamente “realista” vorrebbe intendere come sufficiente.
Quanto sta accadendo in Ucraina ci impone entrambi i compiti. Raccogliere dati, facendo attenzione alle differenti propagande e alla strutturale incertezza dei momenti di crisi. Rispondere alla domanda pratica “che succede?”. Allo stesso tempo dedicarsi alla domanda teorica: “come si interpreta una guerra?”. Domanda tanto più astratta quanto più opportuna, per due ordini di ragioni. Nell’immediato, è imperativo garantire uno schema interpretativo che sia più esplicito possibile onde evitare che a modellare le opinioni individuali siano piuttosto schemi impliciti, insidiosi. “Ciò che è noto non è conosciuto” scriveva Hegel, e nel noto e nell’ovvio si nascondono le maggiori insidie. A lungo termine, quanto stiamo vivendo offre l’occasione di imprimere, per quanto si può, una maggiore consapevolezza strategica nella società civile, la cui spendibilità possa tornare utile in futuro. Approfittare del risveglio (momentaneo?) dal sonno post-storico per ricordare all’Europa che le guerre esistono, e che hanno una propria razionalità.
Nel nostro paese, i fondamenti dell’approccio geopolitico sono divulgati da anni da molte realtà vivaci e significative, prime tra tutte la rivista Limes. Si tratta quindi di dire qualcosa di già noto: la differenza sta nel dirlo adesso.
Il primo e più radicato pregiudizio che detta il tempo alla nostra percezione della guerra è quello economicistico. In breve, esso è la postura che tende ad attribuire le cause dei conflitti a moventi economici, ora legati alla competizione commerciale, ora all’accaparramento delle risorse, ora alla vendita di armi. Un pregiudizio forte e diffuso a livello popolare e, in ambito intellettuale, tanto in area liberale quanto in area marxista, con la seconda che merita una piccola riflessione a parte.
Criticare l’economicismo non significa negare il ruolo dell’economia e delle tensioni economiche nelle guerre, la cui importanza va in ogni caso commisurata alle priorità particolari dei singoli Stati. Significa però, a livello teorico, segnalare l’autonomia dell’ambito del Politico, del quale la guerra rappresenta la logica estrema e il concetto limite. Cos’è il Politico? L’ambito di significato che intende come essenziale la distinzione tra Amico e Nemico. Chi è il Nemico? L’Altro, un altro che incarni un’alterità tale da rendere possibile la guerra come modalità di soluzione di un conflitto slegata dal riferimento a norme “terze”. Non deve esservi la guerra perché vi sia il Nemico: è sufficiente che questa sussista in quanto possibilità. Al Nemico non si chiede il rispetto delle condizioni: gliele si dettano. Il Politico è un ambito autonomo nel senso che è vuoto, formale; piuttosto che i suoi contenuti, sono i mezzi della sua riproduzione ed esistenza concreta a determinarne la struttura. Sono semmai i contenuti particolari a diventare politici. Scrive Schmitt: “Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici”[1]. Un ambito il cui contenuto minimo corrisponde alle proprie logiche immanenti, dunque. Che non è informato, ma piuttosto informa i contenuti e i contrasti particolari che, congiunturalmente, lo occupano. È ovvio che a prima vista possa sembrare una tautologia. Uno Stato che si assicuri il monopolio del Politico inseguirebbe quindi logiche di guerra virtuale, che volgarmente potremmo definire “securitarie”, solo al fine di magnificare la propria potenza tramite l’annichilimento del Nemico? Non è forse un gioco a somma zero, una tautologia? Non dovremmo semmai considerare la logica securitaria come un artificio retorico, volto semmai ad oscurare le reali ragioni – economiche, nella fattispecie della postura economicistica – delle guerre? Come è possibile conciliare la contraddizione tra una società dei fini, che siano economici o di altro tipo, come quella che riempie di senso ogni esistenza statale, con una logica complessivamente autocentrata, centripeta, fine solo a sé stessa? La risposta che si vuole suggerire è che non esiste alcuna contraddizione tra una logica generale di potenza e una logica economica particolare. Non solo: ma che queste due logiche possono benissimo coesistere, come di fatto fanno, entro la loro specificità, senza alcuna contraddizione. Affermare che tale coesistenza non sia contraddittoria non significa che non sia comporti contrasti, anzi. Una dualità (per non dire una pluralità) di logiche alla guida dell’agire di una soggettività politica non è certo un segno di schizofrenia o irrazionalità, e tuttavia presenta, nell’equilibrio di tali razionalità, la possibilità concreta del prevalere dell’una sull’altra. La possibilità, dunque, di un genuino prevalere di logiche di tipo securitario su logiche di tipo economico. Una possibilità che già rappresenta la confutazione di ogni economicismo. Che queste logiche confliggano, inoltre, non significa che non esista tra di esse un rapporto simbiotico, che semmai ne vivifica la pluralità e la coesistenza. Le forze produttive trovano garanzia di esistenza nella corretta amministrazione delle logiche securitarie; da ciò consegue che non tendano ad appropriarsene e snaturarle ma piuttosto che, al contrario, ne rispettino l’autonomia e siano pronte, all’occasione, a sacrificare la propria razionalità specifica, a piegare la propria esistenza concreta alla difesa delle sue precondizioni. In questo senso, va integrato il pregiudizio marxista(-leninista) rispetto alla spiegazione geopolitica dei conflitti, che si traduce nel tentativo di analizzare grandi interessi economici dietro i movimenti degli Stati. La famosa continuità leninista tra capitalismo ed imperialismo, con il secondo che diviene una tecnica del primo e che ne assorbe i contenuti traducendoli nella prassi dell’accaparramento di risorse e, più peculiarmente, nella conquista di mercati di sbocco delle merci. È giusto ribadire che sarebbe semplicistico liquidare le spiegazioni economicistiche di tutte le guerre, specialmente nel caso delle analisi marxiste, che tendono ad intercettare movimenti affatto reali e interessi affatto concreti. Tuttavia, si tratta di eventualità, di possibilità che, per quanto fondate, non devono essere intese come legittimazione di un riduzionismo teorico fuori luogo. In aggiunta, è opportuno notare che pur potendo parlare di una solidarietà teleologica entro le differenti razionalità specifiche, in ogni caso in cui venga messa in discussione, nel presente o in prospettiva, l’esistenza stessa di una soggettività geopolitica, le logiche securitarie tendono immancabilmente ad imporsi. Una problematizzazione dell’esistenza che, ribadiamo, emerge già in tutta la sua concretezza quando la minaccia è virtuale. Nel caso della corrente guerra, ad ogni modo, va detto che il pregiudizio economicistico non ha monopolizzato che una piccola parte del dibattito pubblico, concentrandosi perlopiù sulle risorse presenti in Ucraina. Un significativo passo in avanti, del quale resta tuttavia difficile determinare longevità e pervasività sociale.
Un secondo pregiudizio che inficia un’interpretazione matura e strategicamente significativa della guerra è rappresentato dalla lettura pseudo-millenaristica e moraleggiante che, anche per comprensibili motivi di compattezza interna, è diffusa da una gran parte dell’apparato mediatico, dall’opinionismo e dalla politica. Se è possibile sperare che, almeno retoricamente, si incontri un certo favore nazionalpopolare all’idea di evitare una militarizzazione della cultura, è evidente che non vi sia la medesima attenzione nell’evitare una culturalizzazione della guerra. Spiegare il conflitto secondo schemi culturali, resuscitando ambigui e vetusti dualismi tipicamente occidentali come quello tra democrazia-libertà-pacifismo contro dittatura-oppressione-bellicismo, rappresenta una bestemmia contro il metodo geopolitico e denota un puerilismo di fondo. Nulla di nuovo sotto il sole, sicuramente, e tuttavia resta un’ulteriore occasione per offrire quantomeno alcune precisazioni. In primis, invertire i termini: la pace non è prodotto della democrazia, ma è la democrazia il prodotto della pace. Sebbene siamo inclini a pensare che la condizione politica e istituzionale dell’Europa sia la norma, alla quale si sottrarrebbero una manciata di Stati-canaglia, la verità è che l’Europa rappresenta un’eccezione, non la regola. Un’eccezione che poggia le proprie basi in primissimo luogo sulle condizioni securitarie garantite dall’ombrello atomico americano. L’Europa non ha bisogno di fare la guerra, per cui non ha bisogno di una meccanica decisionale particolarmente autoritaria, propria di uno Stato in mobilitazione permanente o semipermanente. Ciò non significa che il sistema istituzionale degli Stati europei sia un orpello moralistico. Significa però comprendere che le sue condizioni di esistenza, senza fare gretto materialismo, trovano più solido fondamento nel centinaio di testate nucleari americane schierate in Europa[2] e nei circa 70000 militari americani di stanza nel Vecchio Continente – tanto per scegliere qualche dato – che negli illuminati costumi che noi europei, con intermittente tono razzistico, ci raccontiamo di avere. La democrazia è un complesso strumento che si può costruire solo in un ambito di stabilità, e stabilità significa innanzitutto assicurazione da ingerenze esterne.
La Russia, così come ogni altro paese, non sposta le proprie truppe dove sente di individuare una controparte culturale (con la quale, anzi, tende ad amoreggiare laddove possibile). Non rischia con una guerra la stabilità interna e rispettabilità internazionale per dar seguito a una non meglio definita vocazione bellicistica che sarebbe intrinseca a chissà quale forma istituzionale se va bene o “carattere nazionale” se va male. Opera dove crede che i suoi interessi siano o saranno minacciati. Disumanizzare il nemico rende solo difficile il compromesso e infinita la guerra. Con un nemico disumano non esiste pace, ma solo tregue più o meno lunghe.
Un terzo pregiudizio non è strettamente legato alle relazioni internazionali, sebbene queste rappresentino un’ottima casistica per la sua emersione. Le realtà caratterizzate da un approccio geopolitico che abbiamo citato in apertura parlano ora di “mito del leader” e ora di “approccio storiografico classico” per indicare la posizione che vede nella persona del leader l’origine causale degli eventi storici. Un approccio con origini nobili e antiche: la storiografia classica ha spessissimo inteso la Storia come res gestae. Così come la scienza politica è stata lungamente intesa come precettistica del Principe. Ciò nondimeno, è un approccio sicuramente infantile per un’epoca che dovrebbe almeno aver acquisito maggiore consapevolezza della propria razionalità, delle proprie dinamiche. Ed è un approccio che può essere più facilmente eradicato offrendo una sponda, per quanto apparentemente dogmatica, che ne condensi e ne contrasti le contraddizioni. È necessario affermare esplicitamente che non esiste alcun rapporto di proprietà tra il leader e lo Stato. Il vertice di un’entità statale non ne è il proprietario e non ne dispone a piacimento. Ciò almeno in due sensi. In primo luogo, cifra assolutamente fondamentale della tarda modernità è lo stabilirsi di moderni apparati amministrativi, di una moderna burocrazia. La burocrazia, movimento reale di spersonalizzazione del potere, rappresenta la traduzione in forza sociale della Ragion di Stato, il cui esordio (tanto teorico quanto pratico) secentesco già segna un’asimmetria inguaribile tra monarchia e monarca. Prima nella teoria politica e poi nella composizione sociologica, in un percorso che va da Bodin a Weber, la persona del monarca – e successive laicizzazioni – diventa un ingranaggio nella macchina. Una cosa tra le cose. Certo, più o meno significativa, abile, decisiva. Ma senza dare luogo ad alcun rapporto di trascendenza tra persona e macchina, quel rapporto che è il presupposto di una relazione di proprietà e che è il sottotesto di un approccio che confonde Governo e Potere, Governo e Stato, Leader e Governo.
Il secondo senso, più filosofico, per cui pensare il rapporto tra leader e Stato come un rapporto di proprietà e di utilizzo strumentale è fuorviante, riguarda il corretto rapporto che intercorre tra leaders e comunità. Il Principe non produce la propria comunità, non giunge come deus ex machina, come un novello Mosè, a costituirla. Il leader è significativo nella misura in cui riesce ad intercettare ed incarnare le dinamiche e le aspirazioni del proprio tempo. Quando non riesce, muore. Il condottiero è l’epifenomeno della Storia, non la Storia la diaristica del condottiero. Napoleone è lo Spirito del Mondo a cavallo finché ha rappresentato il saggio amministratore delle urgenze e delle velleità della Francia rivoluzionaria. Il Principe non è il proprietario della comunità – e dunque delle forme organizzative entro le quali la comunità si dà: è piuttosto il suo ermeneuta
Infine, è necessario prestare parecchia attenzione a non tradurre la guerra presente in una fattispecie giuridica. Come si è detto, le dinamiche securitarie godono di una logica a sé stante, per cui applicare categorie giuridiche, per quanto possa sembrare umanitariamente inevitabile, produce solo una pericolosa confusione che indirizza gli animi non già all’accordo e al compromesso quanto piuttosto alla punizione. Nel caso presente, i più attenti avranno notato che entrambe le forze in gioco fanno uso di categorie giuridiche. Si accusa l’avversario di comportamenti non semplicemente ostili, ma criminali. Putin parla di genocidio silenzioso in Donbass, Zelensky parla di genocidio per le azioni militari degli ultimi giorni. Parole non scelte a caso, perché riconosciute come casistica criminale dalla Corte dell’Aia. Ancora nel Concetto di Politico, Schmitt aveva parlato della forzosa traduzione delle logiche belliche in logiche giuridiche, che risulta con l’intendere la pace come punizione ad oltranza, ovviamente ai danni del vinto. È evidente che si tratti di una tendenza di lungo periodo, che non è certo possibile riassumere in questa sede. Ciò nondimeno, ha senso offrire uno spunto di riflessione rispetto alla problematicità di questo paradigma, che anche in questo caso sta trovando un’eco spaventosamente grande. Una cosa è condannare moralmente, dall’esterno, la guerra; altra cosa è pretendere che delle rivendicazioni etiche trovino la propria applicazione concreta in un provvedimento giuridico o pseudo-giuridico. Infatti, se la giuridificazione della guerra ha un proprio significato storico autonomo, a livello di percezione pubblica essa è intesa come semplice traduzione di un vettore morale cui viene riconosciuta assoluta legittimità. Ma cosa significherebbe incastrare la morale dentro le logiche delle relazioni internazionali? Perseguire tutti coloro che muovono guerra? E quando inizia una guerra? Degli scontri a bassa intensità o una dichiarazione di secessione sono già l’inizio di una guerra? Ricordiamoci che in un mare di teatri internazionali esistono scontri a bassa intensità. Chi decide quando si aprono le ostilità? Una parte in causa? Non è possibile: verrebbe meno l’intero fenomeno di giuridificazione. Noi occidentali? In virtù di quale patente? Per non parlare delle guerre preventive: se una potenza investisse gran parte del proprio bilancio in un riarmo? È da considerare un atto di ostilità o una scelta economica? E come intervenire? Con le sanzioni, di cui molti media non propriamente eversivi hanno sottolineato l’effetto in ogni caso devastante per le fasce popolari, e che dunque sarebbero da applicare con il contagocce? Con un intervento militare, come qualcuno paventa in maniera più o meno ambigua in questi giorni? E se un intervento militare dovesse produrre una reazione a catena di guerra e devastazione, non sarebbe un atto immorale? Allora su che base fare le valutazioni: su basi tattiche o etiche?
Non ci sono risposte per questi interrogativi, né ha senso immaginarle. La domanda ha un valore intrinseco, un valore critico. Un valore ribelle, siccome ricolloca la guerra (bellum) laddove era inteso assicurare una pace, nel caso specifico una pace culturale. Domandare è tanto più lecito quanto più la posta in gioco è alta, eppure è un esercizio quantomai in disuso. Della guerra non si parla mai: si chiacchiera solamente. Con la parola che è il faticoso tentativo di ricomporre il dissenso, e la chiacchiera che è il vile tentativo di esorcizzarlo.
[1] C. Schmitt, “Il Concetto di Politico”
[2] Stime del Center for Arms Control and Non-Proliferation
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