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Si vis pacem, noli bellum


22 Mar , 2022|
| 2022 | Visioni

Con lo scoppio del conflitto russo-ucraino, molti sostenitori dell’interventismo stanno rapidamente riscoprendo il motto “si vis pacem, para bellum”, assumendolo come principio insindacabile delle proprie ragioni. Eppure, la genesi della locuzione latina è tutt’altro che lineare.

È arrivato (forse) il momento di ricominciare a temerci l’un l’altro: con la riapertura della voragine argomentativa degli interventisti, stiamo assistendo ad una serie di fenomeni che potremmo definire preoccupanti – per non dire, abissali. Il collega taciturno, la sorella laureata in neuromarketing, il cugino che alle superiori si prodigava nelle affissioni notturne di manifesti politici di estrema sinistra, la casalinga, il professore che teneva il corso di Estetica all’università, il netturbino, il bocconiano: molti, spesso insospettabili (altre volte meno), auspicano un’aggressione rapida contro la Russia, un blitzkrieg opposto e contrario che possa restituirci il nostro paniere ideale: pace e prosperità, valori occidentali e democrazia, consumo e supremazia geopolitica. Tutto. Subito.

Quindi, dicevamo, si sta consumando una guerra civile delle coscienze. Una guerra intangibil-civile, nascosta tra le pieghe della guerra convenzionale ed internazionale (mondiale, per ora, non sembrerebbe). E se è vero che ogni fazione deve disporre di un motto sintetico, ma audace – pena: l’oblio mediatico – ecco che torna a farci compagnia un’antica asserzione latina, ripetuta spesso e volentieri negli ambienti militari, ultimamente molto in voga tra le fila dei liberali che ne subiscono il fascino pragmatico: si vis pacem, para bellum. Tautologica, per incomprensibili e misconosciuti meriti rivelatori, tale asserzione viene spesso adottata mendacemente per rispondere ad una tacita esigenza di giustificare mosse e contromosse militari, de-responsabilizzare gli attori coinvolti, alimentare le mire espansionistiche e le strategie imperialiste, offrire l’occasione a certe eminenze grigie dell’economia e della politica internazionale di mettere mano su qualche risorsa o territorio in più, senza il rischio di inciampare nell’indignazione della società civile.

La convinzione del tautologico universalismo del motto «si vis pacem, para bellum», è estremamente radicata. Ciò vale, nondimeno, per molti motti latini passati alla storia per essere tremendamente aderenti alla realtà e svelatori di certe grinze indicibili della personalità umana. Tuttavia, qui oggi siamo chiamati ad effettuare una decostruzione bella e buona o, come qualcun altro preferisce affermare, un po’ di sano “dovere di cronaca”. Non ce ne voglia Vegezio, che per primo elaborò (con parole leggermente diverse) il motto, contenuto nel prologo del libro III dell’Epitoma Rei Militaris. O ancora Cicerone, che nella sua VII Filippica elaborò una frase che riassumeva lo stesso significato. Non ce ne vogliano, davvero, ma il “dovere di contestualizzazione” è una prassi scientifico-metodologica a cui non possiamo proprio rinunciare.

Sembrerebbe dunque il caso di partire proprio dalle origini: Cicerone e Vegezio, il primo nel I sec. A.C., il secondo tra la fine del IV e l’inizio del V D.C. Andando ad analizzare i testi in cui sono contenute le diverse genesi del motto, possiamo già notare un dettaglio essenziale: il vero padre putativo di tale locuzione, ovvero il primo autore che ha declinato il senso del motto come oggi lo conosciamo, è stato senza dubbio Vegezio. Cicerone, infatti afferma «si pace frui volumus, bellum gerendum est» (Philippicae, VII, 6,19) in un contesto e con un’impostazione profondamente diversa rispetto a quella adottata da Vegezio. Nell’antefatto di tale affermazione, Cicerone afferma che «io che mi nutro, per così dire, di pace; […] io dunque, lo ripeto ancora, io che ho sempre fatto l’elogio della pace, io che ne sono sempre stato il primo promotore, io non voglio che sia pace con M. Antonio» (Philippicae, VII, 6,8). Da questo breve estratto possiamo evincere due prime considerazioni, sparse: anzitutto, che Cicerone non azzarda, da capace oratore quale era, alcun argomento di matrice universalista, che sapeva essere di facile confutazione: ciò che invece afferma, lo afferma in merito alla situazione contingente, null’altro. Secondo, poi: l’apparato retorico, di cui Cicerone si serve, trasuda disagio e tangibile sofferenza. Egli è costretto a farsi promotore di un conflitto civile, la più grande sciagura tra le sciagure (un trauma che il popolo romano aveva già dovuto attraversare in diverse occasioni). In poche parole, il «si vis pacem, para bellum» di Cicerone è sofferto, ha carattere “particolare” e rappresenta un’evidente scelta di “male minore”.

Veniamo a Vegezio ed il suo Epitoma rei militaris, scritto qualche decennio dopo la battaglia di Adrianopoli, dove il vastissimo esercito (si stima fosse composto da circa 15 mila uomini) dell’Imperatore d’Oriente Valente subì una tremenda sconfitta per mano dell’alleanza barbarica. Il testo è una summa di concetti della tradizione militare romana, raccolti da Vegezio per proporre alcune possibili riforme e, in tal modo, rilanciare il decadente esercito imperiale (quello d’Occidente, ancor prima di quello d’Oriente). Trattasi quindi di un’opera militare, scritta per fini militari e di trama marcatamente imperialista: Vegezio auspica a più riprese che, per merito di quanto descritto nel testo che andava plasmando, gli eserciti imperiali potessero ottenere nuova linfa e tornare così ai fasti degli antiquis temporibus. Ciò, come sappiamo, non accadrà mai: di lì ad un secolo, l’Impero Romano d’Occidente cadrà inesorabilmente sotto le aggressioni multipolari dei vari popoli barbarici. Tuttavia, in questa sede, commentare l’esito dell’operazione ci interessa ben poco. Ciò su cui dobbiamo soffermarci è il tono adottato dall’autore e il telos dell’intera opera: il primo è, contrariamente a quanto disposto da Cicerone, un tono universalista e assolutista, scelto per esprimere un insieme di concetti ritenuti “validi in ogni tempo e in ogni luogo”; secondo poi, il telos è, come accennato prima, marcatamente imperialista.

Il confronto tra Vegezio e Cicerone è rivelatore di alcuni fatti. Primo tra tutti, che gli interventisti coevi, seguendo pedissequamente la locuzione «si vis pacem, para bellum», cadono in una fallacia fictae universalitatis: non solo la logica, ma anche la Storia (con la “S” maiuscola, si noti) ci offre diverse prove di quanto dichiarato. Vegezio scrive infatti quell’assunto in un particolarissimo momento storico, dove l’Impero Romano d’Occidente era costantemente minacciato su più fronti: ciò segnò drammaticamente le coscienze collettive, esponendole ad un costante stato di apprensione, crisi ed instabilità. Nel quadro generale l’intellighezia del tempo, vittima di un caso tipico di “sindrome da accerchiamento”, riteneva che solo la guerra potesse offrire uno spunto di rilancio espansionistico e di speranza comunitaria. Pertanto, i testi di quegli anni si riferivano alla soluzione bellica declinandola in un’accezione totalizzante: l’affermazione di Vegezio, per cui la guerra armonizza e non distrugge, si auto-candida a principio regolatore dell’operare umano nella mondanità; pretende dunque di riassumere in poche, pochissime parole una tendenza comportamentale, canonica e meccanica, propria dell’essere umano in senso assoluto. Accezione frutto di un’evidente distorsione, causata dal contesto neo-apocalittico vissuto da Vegezio. Quindi, riassumendo, il contenuto esplicitato dal motto «si vis pacem, para bellum», anche se esposto in senso universalista, non possiede tale validità assoluta, non è una caratteristica intrinsecamente umana e non deve rappresentare la strada prioritaria per relazionarsi con altri individui, gruppi, popoli. Da qui, il secondo fatto: il principio esportato dalla locuzione «si vis pacem, para bellum» è valido solo per spiegare le dinamiche di pacificazione in contesti storici di carattere militaresco e imperialista, quindi in una condizione geopolitica multipolare e caratterizzata dall’incontro-scontro di “massicce concentrazioni d’interesse”, ovvero le superpotenze.

Dal momento che, nella situazione attuale, ci ritroviamo in una condizione che risponde a questi requisiti (mondo multipolare, costellato di varie superpotenze con esplicite tendenze imperialiste) si potrebbe quindi verificare, a nostro discapito, una generica validazione del pensiero di Vegezio. La prospettiva sarebbe: visto che la situazione è questa, è evidente che solo la guerra può assurgere a massimo principio armonizzatore degli equilibri internazionali.

Facciamo, nuovamente, un passo indietro e chiediamoci: e se fosse proprio questa impostazione a reiterare il circolo vizioso imperialista? Un esempio, su tutti, può aiutarci per comprendere questa sfumatura, un esempio che riguarda, nuovamente e non a caso, proprio il motto «si vis pacem, para bellum». Nel 1898 le varie superpotenze si trovarono sull’orlo di una nuova guerra, motivata da vari attriti di natura espansionistica ed economica che ora non staremo ad analizzare. La Germania si stava già affermando, sul panorama europeo, come superpotenza in fortissima ascesa. Pertanto, in chiave anti-tedesca, Russia e Francia strinsero un’alleanza militare e commerciale. Il giorno successivo, la stampa celebrò l’avvenuto incontro tra lo zar Nicola II ed il presidente francese Faure titolando sui giornali, «si vis pacem, para bellum». In effetti i tedeschi, che ancora non si ritenevano pronti per impelagarsi in un conflitto così esteso, repressero momentaneamente le loro mire espansionistiche. A lungo molti storici hanno ritenuto questa alleanza un elemento essenziale di pacificazione, che permise il mantenimento della serenità europea per ulteriori 16 anni, fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Ad oggi, la prospettiva è nettamente mutata: si ritiene che fu proprio quella alleanza una delle varie, e più antiche, cause del primo conflitto mondiale. Si tratterebbe di un caso emblematico di “paradosso della difesa”: una superpotenza A si sente minacciata da una superpotenza B, allora avvia una corsa agli armamenti per “sentirsi più sicura in caso di conflitto”. Davanti al processo di potenziamento militare della superpotenza B, anche la superpotenza A, sentendosi minacciata, inizia la propria corsa agli armamenti, e così via, in una spirale di strategie e scelte mortali. Non solo: si può notare, adottando una prospettiva ampia e sistemica, come l’alleanza franco-russa non abbia minimamente annullato il rischio di una guerra, riaffermando una pace duratura; è anzi evidente come l’alleanza franco-russa abbia innescato un’accelerazione fondamentale nella corsa agli armamenti delle superpotenze europee: la tensione comportò, in ultima analisi, un “effetto ad imbuto”, la cui diretta conseguenza fu il verificarsi di uno dei conflitti più devastanti della storia dell’umanità. Ecco cosa comportò, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, la retorica del «si vis pacem, para bellum».

Tiriamo le fila del discorso. Anzitutto, bisogna scardinare una volta per tutte, nelle menti e nei cuori degli interventisti nostrani, la fallacia ab auctoritate che rende intoccabile e indiscutibile qualsiasi contenuto espresso da una fonte antica, ancor meglio se romana: i romani erano persone, con le loro convinzioni ideologiche e con le loro paure, vissuti in contesti precisi ed irripetibilmente differenti. Peraltro, nella stessa romanità è riscontrabile una forte dialettica politica e filosofica, al cui interno era senza dubbio presente una logica dominante ma, di fianco ad essa, anche molte altre linee di pensiero minoritarie e non allineate. Secondariamente, continuare nella convinzione che non si possa universalmente ottenere la pace senza strumenti bellici, è una logica suicidaria: finché questo approccio non verrà problematizzato, sarà impossibile sottrarsi dal circolo vizioso delle dinamiche imperialiste. Esso funge, ancora oggi, da giustificazione a-morale per reiterare e preservare questo sistema di gestione delle relazioni internazionali, e come strumento di de-responsabilizzazione degli attori internazionali: viene offerto ai “portatori di interessi” istituzionali e privati, che progettano i conflitti per personale tornaconto, una facile scappatoia per poter giustificare le loro scelte in tema di massacri, violenze, barbarie. Diventa facilissimo, quasi lapalissiano, affermare che “la guerra? No, non la facciamo per interesse. La facciamo per ottenere la pace. Perché… (attenzione) non si può ottenere la pace, senza la guerra”. Come evidenziato dall’esempio dell’alleanza franco-russa, non solo il concetto del «si vis pacem, para bellum» non normalizza un bel niente, non armonizza un bel niente. Con un presupposto di questo tipo, possiamo solo aspettarci un incremento delle escalation militari, l’aggravarsi degli equilibri tra i rapporti di forza, una concentrazione sovradimensionata dello stato di tensione e, in estrema sintesi, l’avvio di una guerra infame e spietata che ricadrà, come da prassi, sulle spalle delle classi subalterne.

Occorrerebbe, una volta per tutte, ribaltare la prospettiva e affermare chiaramente, «si vis pacem, noli bellum». In alternativa, per gli amanti della geopolitica, «si vis pacem, para negotium». Siamo tutti avvisati.

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