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Il doppio standard sul nazionalismo: ci piace solo se piace alla NATO
Gli ultimi dieci anni in Europa sono stati caratterizzati dalla presenza di diverse risposte alla crisi economica e alle politiche di austerità che sono state comunemente definite – sia in ambito accademico che soprattutto giornalistico – come movimenti populisti. Se l’attenzione è stata concentrata soprattutto a destra (Le Pen, Salvini, Farage, Orban per citare alcuni nomi) non è mancata una lettura del fenomeno del populismo di sinistra (Mélenchon, Podemos, Syriza fino ad una certa fase e alcuni elementi della direzione di Corbyn del Labour Party). A livello accademico c’è stata un’attenzione a questi fenomeni non esclusivamente delegittimante, in particolare in certe frange del pensiero radicale: Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, ovviamente, che li hanno sostenuti attivamente, ma anche molti allievi soprattutto in Spagna, Inghilterra, Grecia (per rimanere in Europa) e altri studiosi di diverso orientamento teorico come la teorica critica femminista Nancy Fraser, per fare un esempio. Ovviamente questo è stato accompagnato, in particolare nel mainstream delle scienze sociali da un atteggiamento di rifiuto fondato su di un approccio tipicamente liberale, che ne ha messo in luce gli elementi antidemocratici, leaderistici, irrazionalisti, e il pericoloso accostamento con elementi nazionalisti propri della destra radicale e del nazionalpopulismo. Per quanto riguarda il mondo giornalistico la cosa è stata ancora più netta: i populisti, tutti, erano nazionalisti, quindi finivano inevitabilmente nel nativismo, nella xenofobia, nel razzismo, nello sciovinismo ecc… Se questi tratti erano individuati con chiarezza a destra (dove in effetti sono spesso presenti) l’argomentazione rispetto ai populismi di sinistra è stata che per imitazione, assumendo una posizione patriottica, euroscettica, basata su un discorso più rivolto a suscitare passioni che ragionamenti razionali, sarebbero finiti a portare acqua al mulino delle destre nazionaliste. Questo argomento – che, come abbiamo detto, era dominante nei media e altamente diffuso nel mainstream delle scienze sociali – era la versione più educata di questa critica: le truppe corrazzate del liberalismo e dell’europeismo, nelle loro versioni più agguerrite (liberal, radical, conservatrici ecc..) emettevano più rozzamente la sentenza di delegittimazione: tutti fascisti. Nel caso di Corbyn, per fare un esempio, è stato attaccato pesantemente con false accuse di antisemitismo.
In effetti nel discorso dei populismi di sinistra c’era una dimensione patriottica: Pablo Iglesias parlava di Patria y Soberania (patria e sovranità) in Spagna, di ridare potere ad un popolo governato da élites anti-popolari. Il referendum vinto e poi disatteso di Tsipras in Grecia puntava molto su di una retorica della dignità del popolo greco, vittima delle politiche di austerità comunitaria e della necessità di una liberazione nazionale. Allo stesso modo Mélenchon, usando in realtà un patriottismo diffuso in Francia puntava su di un’idea giacobina di nazione connessa con quella di Repubblica. Beninteso: tutti questi discorsi politici non si fondavano minimamente su una concezione essenzialista, nativista, esclusiva, sciovinista della nazione. Al contrario si trattava sempre di un patriottismo democratico e progressista, fondato sulla cittadinanza (e sull’apertura di questa agli immigrati) e non sull’ethnos. Un’idea aperta e plurale di popolo e nazione (in Spagna a difesa dello stato plurinazionale, ad esempio, contro il centralismo delle destre e della Corona), la cui dimensione di protezione era legata alla questione dell’uguaglianza sostanziale e dei diritti sociali e non alla caccia dell’immigrato.
Il pedigree di sinistra di questi partiti e movimenti (che infatti spesso sono tornati all’interno del bipolarismo tradizionale, nel centrosinistra) non bastava a tranquillizzare lo zelo antinazionalista e soprattutto europeista dei liberali. E infatti il punto era proprio questo: il decennio populista europeo è stata una fase che ha avuto al centro del discorso politico i rapporti fra la tecnocrazia dell’Unione Europea e i tentativi nazionali di riappropriazione di spazi democratici. In sostanza quindi l’antinazionalismo di media, accademia e politica che vedeva un Orban in un Mélenchon non era altro che la difesa dell’Unione Europea, e di rimando della sua collocazione atlantista.
Questa cosa l’abbiamo vista in parte anche in Italia: forse molti non se lo ricorderanno, ma prima di dare alla Repubblica il Ministro degli Esteri più atlantista della storia il Movimento Cinque Stelle era accusato di fascismo, populismo, nazionalismo, di essere filorusso ecc… da tutti i media e politici dei partiti tradizionali. Stessa sorte toccata ai timidi tentativi di alcuni micro-soggetti come Senso Comune o Patria e Costituzione, che quando non ignorate venivano direttamente accusate (da centrosinistra e sinistra radicale) di nazionalismo, di imitare le destre ecc…
In tutto ciò poi non abbiamo fatto riferimento al richiamo costante del pericolo fascista, guardando a destra (salvo poi fare governi con Salvini). Insomma, per un lungo periodo in Italia non si è potuto parlare di patria o di interesse nazionale senza essere accostato alla più grande minaccia per la nostra democrazia: il fascismo dilagante e il razzismo.
Ma veniamo all’attualità: il presidente ucraino Volodomyr Zelensky è intervenuto ieri di fronte alle Camere riunite, accolto come un eroe, osannato quasi unanimemente dal nostro Parlamento. È da circa un mese infatti che – con la guerra russo-ucraina – il nazionalismo in Italia è tornato di moda.
Le stesse persone che ci dicevano che il nazionalismo è superato dalla storia come i confini e che il fascismo è un pericolo grave per le nostre democrazie oggi sostengono con l’elmetto in testa il nazionalismo ucraino e la sua difesa strenua della sovranità territoriale, che ha fra le sue componenti ideologiche elementi tratti direttamente dal nazismo, e fra i suoi bracci armati – non ora, dopo l’invasione di Putin, ma da Maidan in qua – milizie (poi in parte integrare nell’esercito) che si richiamano direttamente al nazismo.
Qui non si tratta ovviamente, come penseranno subito i guerrafondai per la pace, di difendere il nazionalismo russo, l’ingiustificata aggressione militare che è una palese violazione di ogni regola di convivenza internazionale, né di essere filoputiniani. Ma chiedersi in che modo si concilino queste posizioni diverse sul nazionalismo presunto di casa nostro e su quello Ucraino.
È infatti noto che Zelensky abbia fatto della legittima difesa dell’Ucraina una guerra santa contro la Russia, rispetto alla quale è disposto a sacrificare il suo stesso popolo. Ha accolto l’idea di una lotta finale antirussa, dove questi sono nemici metafisici della nazione ucraina. Chiede periodicamente una no fly zone, sapendo che sarebbe l’innesco di una guerra mondiale: ma la difesa del sacro suolo patrio non tollera limiti di prudenza. Per fare questo è sceso a patti con settori del paese che legano il nazionalismo ucraino con elementi di continuità con il nazismo, facendo di Stepan Bandera, collaborazionista del regime hitleriano un eroe nazionale. Zelesky e Poroshenko prima di lui hanno portato avanti una politica di “ucrainizzazione” delle minoranze russofone cercando di estirpare la lingua russa e combattendo una lunga guerra civile nel Donbass contro le repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk (dove in prima linea c’erano proprio i neonazisti citati, ora assediati a Mariupol). È stato messo al bando il Partito Comunista dell’Ucraina nel 2015, e ora, durante la guerra la stessa sorte è toccata a altri undici movimenti considerati filo-russi (molti solo di sinistra).
Non è qui il punto giudicare una situazione estremamente complessa di un paese in guerra che deve prendere decisioni difficili, o negare le ragioni della lotta di difesa ucraina. Ma quello che abbiamo notato è che le nostre classi dirigenti e la stampa sono passate direttamente da una condanna del nazionalismo ad abbracciare la narrazione del nazionalismo ucraino senza nessun tipo di approccio critico. In uno stato di eccitazione bellica il nostro Presidente del Consiglio e il Ministro degli Esteri spingono sempre più per l’inasprimento della guerra attraverso l’invio di materiali militari offensivi, e dichiarano senza mezzi termini che in Ucraina si combatte una battaglia di civiltà che non si può perdere, perché capitolata la nazione ucraina sarà il turno di tutta l’Europa. Uno scontro in cui europeismo, occidentalismo, democrazia e nazionalismo ucraino creano un unico amalgama militarista, guerresca contro il vecchio nemico del dispotismo orientale.
Come è successo che da antinazionalisti siano diventati tutti nazionalisti? Come è successo che anche solo parlare di patria contro le tecnocrazie europee avrebbe interrotto i famosi settanta anni di pace, mentre oggi si accoglie con tutti gli onori, nella maniera più acritica possibile, l’esponente di un nazionalismo – aggredito, questo è chiaro – ma che subordina alla difesa piena dell’integrità del proprio territorio nazionale la sicurezza globale e la vita dei propri cittadini? Non erano una cosa vecchia i confini? Come è successo che invece di abbassare i toni di uno scontro estremamente pericoloso gettiamo benzina sul fuoco dello scontro di civiltà?
La risposta in realtà è semplice. Il patriottismo inclusivo del populismo di sinistra era antioligarchico (sì, ci sono oligarchi anche a occidente) ed euroscettico, quando non – moderatamente – critico della Nato. In questo caso la rivendicazione di sovranità nazionale veniva intesa per dare ai nostri popoli più democrazia reale, più libertà ed uguaglianza. Erano contro il vincolo esterno. Il sostegno al nazionalismo ucraino invece al contrario, è il sostegno ad una nazione ed un popolo lontano (abbiamo esternalizzato anche il nazionalismo), non difende la libertà del nostro popolo, ma lo tiene sotto il giogo dell’Unione Europea (che si rafforza nella sua funzione ipocritamente civilizzatrice) e dell’alleanza atlantica – due istituzioni, del resto, che da sempre stanno in un rapporto solidale, per finalità geopolitiche che avvantaggiano soprattutto gli Stati Uniti. Per non parlare del fatto che non si tiene minimamente in considerazione quello che è il nostro interesse nazionale, per seguire i diktat – ancora – di chi ci comanda. Insomma, sostenere il nazionalismo ucraino è un altro modo per difendere l’imperialismo statunitense e il vincolo esterno: è una servitù volontaria sotto altra forma. Il nazionalismo che ci piace, è quello che piace alla Nato.
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