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I dilemmi della guerra e le miserie del pensiero
Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri a morire
J.P. Sartre
Analogamente a quanto accaduto per la pandemia da Covid-19, anche il conflitto in Ucraina ha prodotto una divisione manichea all’interno del dibattito che va articolandosi nel nostro paese. Si possono registrare, però, alcune differenze in un analogo clima di esasperazione dei toni e delle posizioni. La prima è che, a differenza della fase pandemica, voci dissenzienti trovano un maggior spazio nell’arena mediatica, non solo in quella della rete che per vocazione accoglie ogni opinione. La seconda è che, in merito alla guerra, non si può pretendere il monopolio della parola in capo agli esperti di geopolitica, affari internazionali e militari. Anche se qualcuno prova a delegittimare il dissenso richiamando implicitamente il paradigma pandemico che chiede il buon senso di non avventurarsi su terreni intrigati e inesplorati. È quanto ha provato a fare Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali di Roma che, nella puntata di Piazza Pulita, ha provato a sminuire la posizione del fisico Carlo Rovelli che argomentava la sua contrarietà all’invio di armi in Ucraina. Eppure, se anche le opinioni degli esperti sono fondamentali per chiarire il quadro, non si può delegittimare il parere di chi esperto di affari internazionali non è ma ha una visione in merito alla guerra. Gino Strada non era un esperto di geopolitica, ma possiamo dire che non conoscesse gli effetti drammatici della guerra? La sua era una posizione legittimata dallo stare in trincea, non per uccidere ma per salvare vite umane.
La scelta di agire l’opzione della violenza non è affatto una questione tecnica, coinvolgendo l’esistenza della popolazione intera. Pensare di relegare gli argomenti che attengono alle decisioni belliche agli esperti fa parte di quello stesso inganno che scambia problemi che richiedono una scelta eminentemente politica con questioni tecniche. Tali problemi, in realtà, riguardano la scelta dei mezzi per raggiungere in modo efficace ed efficiente scopi decisi proprio dalla politica. La guerra è uno di quegli argomenti che appartengono alla sfera dell’alta politica; per citare un famoso aforisma, la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Parafrasando l’aforisma, potremmo aggiungere che la guerra è la prosecuzione della lotta di classe con altri mezzi. Ogni guerra è una guerra civile; questa, ricorda Marcello Musto su «il manifesto» del 20 marzo scorso, è l’assunto che sta alla base della grande lezione di civiltà del movimento operaio. E questo perché coloro che sono chiamati a combattere la guerra e che ne subiscono le conseguenze più drammatiche non la decidono. Di converso, coloro che la decidono, in genere, non la combattono né la soffrono. E lo si vede in questi giorni, in cui la popolazione civile ucraina è quella più esposta al fuoco dei bombardamenti; in Ucraina come in Afghanistan, in Iraq, in Siria, in Libia, in Yemen e in Jugoslavia, solo per citare alcune scenari di guerra in cui le popolazioni sono state e sono carne da macello.
Quello che si sta giocando ora è un confronto tra Stati Uniti e Russia, in stile XX secolo, con i primi che hanno preparato accuratamente l’innesco della bomba e la seconda che ha premuto il bottone che l’ha fatta saltare. Il popolo ucraino è la vittima sacrificale. Non solo dell’autocrate russo. Biden, che offre il volto umano e presentabile della ferocia dei regimi a capitalismo avanzato e che si ritengono liberaldemocratici, ha analoghe responsabilità di Putin. Gli Stati Uniti, dopo il crollo del sistema sovietico, hanno mirato a una globalizzazione e egida nordamericana. Ma poiché hanno visto venir meno la propria egemonia mondiale a livello economico e culturale, dato che l’ideologia neoliberale ha rivelato tutte le proprie contraddizioni, non è rimasta loro che conservare una supremazia militare anche nei confronti degli alleati (si considerino le riflessioni di Giovanni Arrighi ne Il lungo XX secolo). L’Europa svolge un ruolo dipendente dagli Stati Uniti, dimostrando ancora una volta di essere un gigante economico ma un nano politico, priva di una propria visione di politica estera, incapace di tenere il pericolo lontano dai propri confini. Con buona pace dei benpensanti delle democrazie occidentali, democrazie all’interno ma imperi al di fuori dei propri confini, di fronte alla guerra, se si ha a cuore la vita umana, l’unica cosa da fare è impiegare ogni energia affinché la guerra cessi. Di fronte alla drammatica ipotesi di una guerra totale, occorre provare con forza ogni tentativo che porti a un accordo.
Se le democrazie occidentali fossero davvero tali, alle loro popolazioni si dovrebbe chiedere ciò che si chiede alla popolazione russa. Ossia di opporsi alla guerra, e nel nostro caso, di chiedere con forza di non fomentarla attraverso l’invio di armi. La popolazione russa non riesce ad opporsi, dato il carattere repressivo del regime. Quella occidentale ne avrebbe la possibilità teorica ma, vittima della propaganda pervasiva e dell’assenza di spirito critico, si adegua alle scelte di regime. E ciò nonostante in gioco ci sia la sopravvivenza di gran parte del genere umano. Esiste qualche ideale più grande da difendere? Credere che le armi portino pace in Ucraina è velleitario. La sola cosa che possono fare è inasprire gli animi e incrementare i profitti dei produttori di materiale bellico e delle compagnie militari private. Si rilancia così quel warfare state (come lo definisce James O’Connor in La crisi fiscale dello stato) che ha contribuito in maniera fondamentale al processo di accumulazione capitalistica. E contemporaneamente si recita il de profundis del welfare state, o del simulacro che ne resta, cui si imputano surrettiziamente troppe spese e l’incremento dell’indebitamento pubblico.
Chi reclama la pace, ponendosi in modo equidistante tra i due belligeranti, e che viene per questo etichettato come filo-Putin, in realtà analizza la complessità della situazione internazionale e pone al centro del dibattito proprio l’ipocrisia dell’Occidente. Questo non si fa scrupolo di esportare una precaria e traballante democrazia a suon di bombe e segue le stesse logiche imperiali che imputa agli avversari. Non si tratta di benaltrismo, ma di inquadrare i problemi nel solco di una tradizione aliena dalle sirene della propaganda nazionalista e bellicista. Chi, invece, richiama la gravità dell’atto compiuto, concentrandosi sulla pressione esercitata sul pulsante senza preoccuparsi della preparazione dell’innesco, rifiuta analisi complesse finalizzate a capire come si sia giunti all’atto. In buona o cattiva fede, opera un’imperdonabile semplificazione.
Con la guerra pare riproporsi il dramma di un pensiero che ha definitivamente smarrito i sentieri della critica. Persino un pensiero che dovrebbe essere complesso, come quello degli analisti di settore, sembra essere viziato, tranne rare eccezioni, in senso ideologico. Se volessimo definire quel tarlo che dall’interno ha consumato gli impianti categoriali e discorsivi del pensiero critico, vanto di un certo modo di pensare in occidente, si è trattato del pensiero binario che ha via via annichilito quello della complessità e ha condotto il pensiero ad un solo apparente sicuro approdo. Si tratta infatti di quella forma semplice di pensiero, secondo taluni primitiva, che è scaturita dall’interazione immediata con l’ambiente naturale, da cui ha tratto spunto per la sua logica di tipo duale. Essa serve a contrapporre e differenziare le cose e le persone, in analogia con luce e tenebre, giorno e notte, terra e cielo fino ad arrivare a buoni e cattivi. Il limite strutturale di un simile approccio è quello di non essere minimamente in grado di cogliere la densità storica che la guerra contiene, al pari della storicità di qualsivoglia accadimento che riguarda il mondo umano. Viceversa, questo metodo, se dispiegato, può al massimo distinguere come detto i buoni dai cattivi coi primi che ovviamente sono dalla parte di chi opera la distinzione. Il limite consiste nell’evidente assenza di una struttura autoriflessiva che non concede ai presunti buoni uno specchio cui riflettersi. Si è in presenza di una sorta di ritratto di Dorian Gray, di una narrazione ideale per chi detiene saldamente nelle proprie mani rapporti di dominio a cui è concesso, in questo modo, un’autorappresentazione celebrativa.
Peccato solo che l’Europa, che qui intendiamo come un aggregato instabile di stati quali nei fatti è, non possa vantare simili rapporti di forza a suo favore e, pertanto, occorre che si doti quanto prima, di un proprio pensiero strategico, quantomeno nelle principali cancellerie. Così da tener conto dei reali rapporti di forza che sconsigliano di adottare lo stesso racconto ideologico d’oltreoceano che avrebbe senso se servisse, come si diceva, a giustificare un predominio di forze.
Il pensiero complesso o sintetico, come pure meriterebbe di essere appellato, comportando il coinvolgimento del soggetto che narra non è propriamente un metodo, che sconterebbe in quanto tale una irriflessività (da evitare come la peste) e richiede la problematizzazione del principio logico di identità e non contraddizione, puntando sulla connessione e non sulla semplice giustapposizione degli elementi. Costringerebbe, ad esempio, a pensare, oltre alle differenze tra le superpotenze, anche alle analogie di azioni e finalità tra quelle pur schierate su fronti opposti quali Russia e Stati Uniti. Il pensiero complesso, poi, riconosce alle civiltà millenarie e alle culture secolari sempre un ruolo importante nell’interpretazione degli accadimenti storici, compreso le guerre. Perché reputa che più del principio di causa e delle interminabili catene mezzi-scopi, ciò che spinge i popoli e fa la storia in ultima istanza sono le grandi visioni e i fini, che non a caso sono a fondamento delle diverse religioni e continuano a condizionare mentalità e condotte in modo diversificato di miliardi di persone.
Per le ragioni richiamate, il pensiero complesso è da privilegiare rispetto al pensiero binario, pur contenendolo ed avvalendosene in un certo senso. Questo perché l’analisi e, dunque, il momento della distinzione è indispensabile alla successiva sintesi. Solo non è esaustivo, piuttosto è il trampolino di lancio per mettere in connessione quei dati ed in un certo senso animarli con il respiro storico che si conferisce all’intera costruzione. Con l’intima convinzione che solo in questo modo si comprende meglio quello che è accaduto e si può provare a riappropriarsi di una prassi trasformativa e non più solo adattiva. Certo, occorre rifuggire in pari tempo dalla tentazione giustificazionista insita nell’approccio storico-realistico che tiene in debito conto i rapporti di forza, non dovendoli per questo assolutizzare, dando di fatto ragione sempre al vincitore. Se si risale al nucleo essenziale della civiltà occidentale, e non solo, si scopre che il messaggio nella bottiglia che le varie epoche hanno consegnato a quelle successive è una costante domanda di crescente libertà, intesa come autonomia del singolo ed autodeterminazione delle comunità. E questa, se non ridotta alla libertà solo economica, come pure si è provato a fare negli ultimi decenni, si ricongiunge indissolubilmente all’uguaglianza. È del tutto evidente che si è liberi solamente quando tutti e ciascuno saranno considerarti eguali nella sostanza, nelle condizioni finali e non solo nelle pari opportunità iniziali, tra l’altro anch’esse ampiamente disattese e tradite nel presente. Ecco se si riuscirà a dare questo tipo di interpretazione alla storia presente e futura, allora vorrà dire che un discreto passo avanti si sarà compiuto per liberarsi dell’incubo atroce della guerra.
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