La connessione è un po’ ballerina, va e viene mangiando qualche parola qui e là.
… se non xxx dall’età di 7 anni, non sei autorizzato ad andare a scuola, all’università, non puoi avere lezioni di guida. Se non ti adegui xxx, tu non esisti. xxx è come il muro di Berlino.
Se vivo in un paese che non mi consente di scegliere cosa metto xxx, lo stesso regime non mi lascerà avere il controllo di ciò che accade nella mia testa.
Mia sorella voleva forzare me e altre xxx perché è stata educata in un sistema xxx importi xxx con la forza.
xxx deve combattere per riconquistare la sua libertà personale, prima dalla famiglia, poi dalla società ed infine dal governo (1)
Sembra che stiano parlando del Green Pass! Che strano, pensavo di essermi collegata per ascoltare un altro tipo di programma.
Eppure gli elementi ci sono: non accedere alla scuola, non esistere dato il numero di limitazioni selezionate, divisioni in famiglia su schieramenti differenti, forti condizionamenti culturali, pericolo che si ravvisa per la propria libertà personale.
Mi intriga, vado a cercare il pulsante del download così ascolto con calma.
No, mi sono sbagliata, è tutt’altro argomento.
Chi parla è Masih Alinejad, una giornalista ed attivista iraniana che ora vive negli Stati Uniti.
Racconta che cosa significhi la sharia dell’hijab.
Certo che si tratta di due argomenti molto diversi, contesti culturali apparentemente lontani. Eppure, sentire quelle parole mi ha fatto subito avvertire un riverbero. Allora mi muovo per analogie, metafore, immagini…
Lascio ad altri le analisi politico-sociali. A me interessano le reazioni di pancia, quelle di cui possiamo renderci conto soltanto se siamo allenati abbastanza ad ascoltare il nostro intestino. Il mio funziona piuttosto male, quindi sono portata a prestargli molta attenzione, ad auscultarlo, ad esaminare ciò che tenta di dirmi.
È un ottimo esercizio per imparare a percepire le sensazioni che stanno sotto la razionalità logica, certamente indispensabile, eppure ancora tanto debole per farci anche solo intuire che cosa potrà mai voler dire vivere sulla Terra da esseri umani.
Masih Alinejad è nota per il suo impegno affinché le donne iraniane possano indossare ciò che le fa sentire a loro agio, senza imposizioni per legge.
Valutare le cose da lontano, attraverso esperienze di altri, può essere di aiuto per capire meglio cosa succede più vicino a sé. Sappiamo che ci viene più facile vedere negli altri ciò che fatichiamo a vedere in noi stessi.
Noi occidentali ci scandalizziamo contro quei paesi diretti da regimi musulmani in cui si adottano codici di abbigliamento molto restrittivi ai danni delle donne. Mettiamo in campo la violazione della libertà personale. Riusciamo a giustificare l’applicazione di sanzioni pesanti proprio in nome di libertà che sarebbero violate.
Se guardiamo però a cosa abbiamo fatto e continuiamo a fare con gli obblighi vaccinali e l’espediente del Green Pass per la regolamentazione degli accessi ai luoghi pubblici e al posto di lavoro, non me la sento di collocare le scelte governative italiane a troppa distanza da quelle iraniane sull’hijab.
Mettendoci a distanza da teleobiettivo, vediamo delle egoità belliche che desiderano prevalere e dominare, senza tenere in considerazione gli esiti sulla vita delle persone che ufficialmente si vorrebbero tutelare. È la stessa cosa che faccio io tutte le volte in cui alzo la voce, quando pretendo di affermare il mio pensiero, perché di sicuro io ho ragione e l’altro ha torto.
Che si tratti di hijab, Green Pass, accordi di commercio internazionale, mia zia che mi dà sui nervi ogni volta che dice “quella” frase, poco importa. Al fondo, il sotteso è lo stesso io egoicobellico (mutuando la terminologia da Marco Guzzi).
Dentro un’analisi introspettiva seria, scendendo sotto la situazione trigger che ci irrita, ci turba, ci innervosisce, scopriamo che non importa l’episodio da cui partiamo, alla fine troviamo sempre le stesse rabbie, le stesse paure, le stesse strategie difensive, la stessa ombra, troviamo lo stesso piccolo io, quello bellico-alienato.
Ma è proprio questo stato di belligeranza che ha raggiunto il suo culmine. Abbiamo sparato tutte le cartucce, ancora qualche fondo di magazzino fa fuoco, ma siamo destinati ad abbassare le armi, volenti o nolenti, per esaurimento scorte.
È ora di cambiare le lenti, zoomare all’interno per indagarci senza ritrosia, sgominare la banda di emozioni aggrovigliate – rabbie, invidie, paure, angosce profonde – portarle alla luce con delicatezza e iniziare a prendercene cura. Non importa se sono il Premier italiano iraniano una donna tibetana un contadino del Ghana. È l’umano che è comune che chiede cura.
Sgombrare la mente, aerare i locali degli abissi animici: è tempo delle pulizie di Pasqua. Allora quell’io bellicamente distorto può srotolarsi e sperimentare la malleabilità della sua materia in conversione. Levigatura dopo levigatura, la natura relazionale svelerà la sua forma. È Pasqua: morti alla contrapposizione, risorti nella relazione.
Allora non c’è più bisogno di imporre nulla, se acconsentiamo alla vita a cuore aperto, a mani intrecciate, dando credito all’onestà dell’altro prima che alla paura del tradimento.
Non importa se siamo il Premier italiano iraniano una donna tibetana un contadino del Ghana. È l’umano che è comune che chiede cura, ora lo possiamo intravedere con più consapevolezza, senza bisogno di aggrapparci a disposizioni di legge, avendo in noi la costituzione di Agape.
(1) tratto dal podcast Deeply Human https://player.fm/series/deeply-human puntata dal titolo Dress Codes dell’11.03.2022
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