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All’origine … ma del virus (e di altro ancora)
È stimolante e in larga parte condivisibile quanto si legge in un volume appena uscito da Mondadori e dal titolo un po’ misterioso, All’origine. Ne è autore il Presidente dell’Aifa, Giorgio Palù, virologo di fama internazionale. L’origine ricercata è naturalmente quella di Sars-Cov-2, «agente eziologico della pandemia Covid-19». Ma nel libro si va a più a fondo; e la ricerca si allarga perché dalla malattia si procede ad analisi, e a valutazioni, di altra specie, investendo il ruolo della comunicazione pubblica, l’evoluzione dei principi e dei valori occidentali, l’ascesa della Cina, lo smarrimento dell’Occidente, l’insostenibile leggerezza dell’Italia.
Il libro assume perciò una cifra non settoriale (il virus), ma culturale: il desiderio, nemmeno tanto celato, dell’Autore è di manifestare la propria opinione sull’assetto politico delle nostre società (teoricamente) liberali e democratiche, nella convinzione che, per noi, la storia abbia intrapreso un percorso di decadenza. Ovviamente Palù ci intrattiene con competenza anche sul virus, sulla famiglia a cui appartiene, sulla novità di Sars-Cov-2, su come possa infettare le cellule umane ecc. Ma noi siamo stati coinvolti, e forse travolti, dal contesto pandemico che si è venuto a creare: l’esito è stato il nostro progressivo smarrimento, un esito probabilmente scontato in quanto eravamo già smarriti essendo da tempo deprivati delle fondamentali coordinate spazio-temporali almeno per tentare la decifrazione del momento storico nel quale ci siamo venuti a trovare.
Da smarriti nemmeno ci siamo posti alcune domande fondamentali e una su tutte: dove mai sia sorto questo virus. Sembra incomprensibile che ad oggi nessuno, o quasi, si ponga, e ci ponga, questa domanda. Eppure milioni di persone sono morte, le vite degli individui sono state stravolte, gli Stati occidentali hanno patito danni enormi. Ma ci si ostina a non voler spendere una parola sull’origine e, ancor meno, sull’eventuale responsabilità.
Giorgio Palù è, tuttavia, uno che non si sottrae e ci dà una risposta che non sembrerebbe lasciar dubbi: per lui il virus è cinese ed è venuto da Wuhan, anche se non si può dire se quest’insorgenza sia da imputarsi a «uno o più eventi naturali […] occasionalmente intervenuti»; oppure se vi sia stata «la mano dell’uomo». Palù esclude, però, in questa seconda evenienza, il dolo, cioè la macchinazione ordita dai cinesi per danneggiare, si intuisce, l’Occidente: l’attività del laboratorio di Wuhan, l’unico in Cina con BSL-4 (il massimo livello di biosicurezza), era autorizzata a lavorare con coronavirus del pipistrello, ma esisteva una rete di collegamento tra questo laboratorio e il mondo della virologia; e la responsabile, la dottoressa Shi Zhengli, collaborava regolarmente con i principali virologi che, nel mondo, studiano coronavirus. Più probabile dunque che la fuoriuscita, se mai vi sia stata, sia dipesa da qualche disattenzione.
Virus cinese allora, pervenuto a noi secondo una o l’altra di queste modalità: tertium non datur, conclude Palù, che mette in fila alcuni fatti – o verità di fatto – per invitarci alla riflessione. Ne indico qualcuno:
– il gran movimento intorno al laboratorio di Wuhan, catturato dalle immagini satellitari, a partire dall’ottobre 2019;
– la scomparsa della dottoressa Shi durante la fase critica dell’outbreak e la sua ricomparsa solo a luglio 2020;
– il totale silenzio serbato dai cinesi sull’insorgenza del focolaio pandemico e il conseguente ritardo nel darne notizia al mondo, dovuto anche all’opzione di cercare di mettere in sicurezza prima di tutto il loro Paese;
– il gran divario tra il danno subito dal resto del mondo rispetto a quello patito dalla Cina.
Vi sarebbe dell’altro da aggiungere. Ma questi fatti non avrebbero giustificato una reazione dei paesi occidentali se non altro per reclamare la necessità di avviare serie indagini sull’accaduto a partire dalla Cina? È mai possibile che ci abbia tiepidamente provato solo Trump?
Non è così facile trovare una possibile ragione di questo silenzio, anzi di quest’omissione. Una potrebbe essere una sorta di timore reverenziale verso il gigante cinese; probabilmente anche paura. Timore e/o paura che, alla loro volta, hanno motivazioni di vario genere, in primis economiche e commerciali (il che evidenzia ancora la debolezza dell’Occidente, ma particolarmente dell’Europa). Un’altra ragione la individuerei nella cultura oggi imperante in Occidente. Contro il politically correct si pronuncia ripetutamente Palù, ma qui vedrei l’influenza soprattutto delle nuove frontiere della responsabilità che hanno condotto alla (quasi) negazione della stessa responsabilità sulla base dell’assunto che, in fondo, siamo tutti responsabili di quel che accade: la ricerca della colpa apparterebbe a una visione arcaica, non evoluta e rozza, mentre conterebbe soprattutto rimediare al male e al danno con il contributo di tutti. Ma sul principio di responsabilità si sono costruiti il diritto e l’etica occidentali: Aristotele, Cicerone e il diritto romano sono là a dimostrarcelo.
Allora, nel contesto pandemico, ci siamo scoperti non solo smarriti, ma anche confusi e la confusione è progressivamente aumentata a causa del cattivo governo della comunicazione pubblica. Qui il Presidente dell’Aifa è severissimo; e non ha torto. Ci si è consegnati o, meglio, il sistema mass-mediatico ci ha consegnato a una massa infinita di messaggi a getto continuo di provenienza e fattura disparate, troppo spesso funzionali alle esigenze dell’audience e molto poco suffragati da «dati oggettivi» e rappresentativi di «fatti e circostanze con interpretazione responsabile, ricorrendo, se necessario, al parere di veri specialisti». Inevitabile la confusione. Ma inevitabili pure gli errori indotti nel pubblico e, su tutto, l’insostenibile incertezza nella scelta delle condotte corrette a livello di singoli, di comunità e di istituzioni. Per la verità televisioni, radio, giornali, social hanno sentito il parere degli esperti. Ma sono così scesi in campo personaggi che, a guardar bene, sono piuttosto pseudo-esperti o, senz’altro, finti esperti: Palù ce ne indica alcuni – ormai notissimi – e, se evita di chiamarli per nome e cognome, ne offre però un identikit che non lascia margini a dubbi; e però «tutti trasformati in guru della comunicazione per accreditamento mediatico e apparizioni».
Tuttavia la questione si è solo resa più evidente – o evidentissima – nel contesto pandemico. Il difetto di competenza degli esperti chiamati alla ribalta mass-mediatica è vizio inveterato della comunicazione pubblica, e privata, di questi ultimi decenni: la vetrina è composta da gente che quasi mai rappresenta il meglio dei vari settori, trattandosi piuttosto di individui, talora vagamente titolati, ma propositivi di sé stessi, smodatamente ambiziosi, nient’affatto indipendenti in quanto spesso vicini a partiti o correnti politiche, comunque desiderosi di contatto con i centri di potere e, a loro volta, determinati a conquistare pezzi di potere, oltre che visibilità. In quest’esposizione aiutano cariche e carichette temporaneamente ricoperte, il modo accattivante o curioso di proporsi, l’aspetto fisico, specie per il genere femminile. La conseguenza è che i più bravi e i più seri non vengono mai consultati; anzi, non si sa nemmeno che esistono, anche se passano la giornata nei laboratori di ricerca o tra i libri disseminati su scrivanie e tavoli.
Di chi è la colpa di tutto ciò? Ma primariamente dei responsabili della comunicazione a cui manca, a loro volta, il livello culturale che sarebbe indispensabile; e – sottolinea bene Palù – anche un corredo etico perché in operazioni del genere è determinante che l’agente avverta di avere una responsabilità non indifferente ed erga omnes. Certamente aiuterebbero molto questi (ir)responsabili dell’informazione lo studio e la pratica della vetusta e sana retorica che insegnava proprio a comporre discorsi ordinati all’acquisizione di conoscenze attraverso vari criteri tra cui quello della congruenza e della pertinenza: con la conseguenza che non tutte le vie sono consentite a chi parla e ragiona in quanto talune sono da escludere perché fallaci. E se il discorso deve essere congruo e pertinente è evidente che chi parla o scrive deve sapere quel che diffonde.
È vero che l’eclissi della cultura classica e l’ignoranza o, addirittura, il disprezzo della storia sono lacune irrimediabili: la confusione è effettivamente «conseguenza di una vera abdicazione alla cultura classicamente intesa». In essa erano fondanti il sapere, la gerarchia dei sapienti, la responsabilità di chi agisce, il disvalore verso l’ambitio smodata; e molto altro ancora. Ciò implica che, almeno nella repubblica della conoscenza, uno non vale uno; e questo, nell’Occidente uniformato al pensiero unico politicamente corretto, non è più accettato. Ma anche questi sono i valori (di natura meritocratica) con cui l’Occidente è stato guidato durante la sua lunga, e luminosa, storia. Qui il discorso si farebbe più intricato e ancor più delicato: perché non è poi così facile individuare i principi e i valori dell’Occidente. O consideriamo tali solo quelli novecenteschi o, più selettivamente, quelli che si sono diffusi a partire dal secondo dopoguerra? Se fosse così, dovremmo concludere che prima, cioè per oltre duemila anni di storia, la funzione di guida sarebbe stata assunta da principi e valori non occidentali, probabilmente da annoverarsi come ispirati da qualche oscuro signore. È che la cultura dell’Occidente, diciamo la sua identità, è molto più ricca e complessa di quel che oggi si vuole fare apparire.
In limine una nota critica all’ottimo libro di Giorgio Palù. Nutro qualche dubbio che i governi italiani durante il tempo pandemico siano esenti da colpe: ne vedo più di qualcuna, anche grave; e ho qualche dubbio anche sull’operato della Regione Veneto che non mi è parso sempre limpido.
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