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Una pace radicale: dalla storia d’Italia al confronto interiore
Nel Libro dei Proverbi c’è un versetto che può aiutarci a comprendere meglio di molte analisi politologiche il comportamento del governo italiano in questo preciso momento storico. È il versetto 15,1 che recita in latino: «Responsio mollis frangit iram; sermo durus suscitat furorem». Che tradotto in italiano corrente sarebbe all’incirca così: una risposta gentile calma la collera; una parola dura eccita l’ira. Ora, se provassimo a trasferire l’insegnamento profondo di queste antiche parole nella realtà politica contemporanea (una realtà che ci vede sostanzialmente co-belligeranti in una guerra che minaccia di essere mondiale e nucleare) cosa potremmo riscontrare? Di sicuro la prima cosa che verrebbe naturale constatare è che non stiamo affatto seguendo il “saggio consiglio” di questa perspicua frase biblica. Anzi, se si vuol essere ancora più precisi, dovremmo dire che si sta procedendo esattamente nella direzione di una parola dura che eccita l’ira, come indicato dalla seconda parte della formula sapienziale.
Infatti la durezza e la sprovvedutezza delle parole che vengono proferite dalla maggioranza dei ministri che compongono questo pessimo governo, non solo fa crescere la rabbia delle forze belliche ormai già scatenate nella rissa sanguinolenta, ma ciò che è più preoccupante è che rischia di far infuriare le menti dei dominatori di questo mondo (per restare nel linguaggio biblico) che, essendo completamente obnubilati dalla loro mania di grandezza, non si sa quando decideranno di fermarsi. Ebbene sì, uso con cognizione di causa questo verbo al plurale: fermarsi. Perché si è colpevolmente in errore quando si fa finta di non vedere che questa guerra non è iniziata con l’invasione di Putin il 24 febbraio di quest’anno, ma è invece uno scontro aperto fra la Russia e la Nato che dura da quasi un decennio e che minaccia di durare per altrettanto tempo.
A questo punto una domanda di senso nasce spontanea: cosa c’entriamo noi con questa nuova guerra fredda? Ma soprattutto: come mai è così difficile parlare autonomamente, piuttosto che seguire ad occhi chiusi le logiche atlantiste? Come possiamo sottometterci ai diktat che arrivano da oltreoceano quando sappiamo tutti che questi condurranno a un affossamento inevitabile del nostro Sistema Paese? Nel porci seriamente queste radicali domande pacifiste, riaffiorano dal dimenticatoio della storia d’Italia le parole di Harold Macmillan, il più accorto esponente del partito conservatore nonché alto commissario alleato nell’Italia meridionale nel 1944, il quale ebbe a scrivere, in tempi non sospetti, che gli italiani avevano «avuto la duplice esperienza di essere occupati dai tedeschi e liberati dagli Alleati»; concludendo poi dicendo che «è difficile dire quale dei due processi fu maggiormente penoso e sconvolgente”».[1]
Oggi, forse, possono suonarci meno iperboliche queste affermazioni estreme di Macmillan, dato che il nostro rapporto con gli Alleati risulta essere palesemente un rapporto di sottomissione, di sudditanza nei confronti del potere egemonico americano. Ecco allora spiegato il perché della nostra inconsistenza culturale sui temi di politica estera e di cooperazione internazionale; ecco allora comprensibile l’eco preciso delle dichiarazioni di Biden che l’Italia trasmette al mondo intero senza nessun imbarazzo, nemmeno nei confronti della – fino all’altro ieri – amica Russia.
La situazione contemporanea sta facendo riemergere dal pozzo dei ricordi tutte le ferite rimosse tenute all’oscuro e che abbiamo fatto finta di non vedere. Ciò che accadde in Italia dal dopoguerra a oggi non è qualcosa di lineare e di facilmente decifrabile. L’interconnessione fra le nostre forze interne e le potenze economico-politiche transnazionali, come sappiamo dai molteplici documenti storici, non è avvenuta in modo pacifico e naturale. Dalla rivendicazione dell’Italia da parte degli americani e degli inglesi già nel 1943 al più recente riposizionamento dovuto al fenomeno della globalizzazione a inizi anni ottanta, tutto ciò è stato vissuto come un trauma ancora mai elaborato. Quelli che noi chiamiamo Alleati in realtà – come sottolinea anche Dario Fabbri in una recente intervista realizzata da noi de L’Indispensabile[2] – sono i nostri egemoni, che ci trattano quindi da coloni e da territorio satellite. Questa, per chi conosce la storia, non è certamente una novità. Ciò che però oggi risulta essere nuovo è il carattere incontestabile e nichilisticamente fatalista di tale rapporto di subalternità. Un asservimento totale dell’Italia alla potenza dominatrice – in questo caso gli Stati Uniti – non si era davvero mai visto. Nessuno infatti prima del governo Draghi era riuscito a cancellare ogni voce di dissenso nei confronti delle decisioni prese da Washington, e quindi a parlare come un pappagallo non a nome degli europei ma direttamente a nome degli americani.
Dov’è finito il nostro pur minimo senso di orgoglio? Come possiamo farci zerbini in questo modo?
Per evitare di essere troppo patriottico dirò subito che le nostre colpe sono molte. Infatti per cantare la pace in modo serio e credibile occorre prima di tutto promuovere un vero e proprio esame di coscienza. Le nostre sbagliate selezioni delle classi dirigenti, il nostro scarso sentire comune e la nostra debole formazione artistica e culturale degli ultimi decenni se da una parte è il frutto del progressivo smantellamento del nostro Stato sociale, causato delle strette logiche del vincolo esterno, dall’altra parte è pur vero che come popolo abbiamo dormito sonni tranquilli.
La cultura del narcisismo ben descritta nel famoso libro di Christopher Lasch è riuscita a insinuarsi dentro le coscienze di ognuno di noi, mettendo in “fuga dal sociale” l’individuo atrofizzato e disilluso. Adesso è arrivato il tempo di svegliarsi. Questo sistema corrotto e ipocrita sta mostrando la corda. Da qui fino alle prossime elezioni nazionali dobbiamo riuscire a ridestare l’entusiasmo della critica e la volontà della ragione, contro ogni forma di vittimismo e di rabbia disperata. Sono proprio i tempi più critici, come sappiamo anche osservando le nostre vite private, che ci permettono di rientrare nella storia con nuovo slancio e nuove idee politiche. Cerchiamo insieme di valorizzare l’immenso patrimonio creativo che ci contraddistingue tanto sul piano politico quanto su quello culturale, e approfittiamo di questo tragico declino momentaneo per prendere coraggio e costruire una dimensione di alleanze – vicine e globali – che siano governate dal senso di comunità umana e non dal solito meccanismo di competizione e di predazione, spacciato come funzionale da chi fa della menzogna il proprio metodo di governo.
[1] Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 1989 pag. 46
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