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Contro l’ideologia della resilienza
Solo se ciò che c’è si lascia pensare come trasformabile, ciò che c’è non è tutto
T.W. Adorno, Dialettica negativa
L’ideologia si sa, perlomeno nella sua versione negativa di falsa coscienza, è far passare la parte per il tutto, secondo l’adagio marxiano sempre attuale che «le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante» (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma 1983, p. 35).
Ciò comporta sistematicamente un cambiare di significato alle parole, trasferendole all’interno di impianti discorsivi e categoriali convenienti per i dominanti e che hanno poco o nulla a che fare con quelli originali. È il caso del termine resilienza che in realtà dalla sua origine metallurgica era già da qualche tempo transitato all’ambito psicologico. Così dal significare la qualità di taluni metalli di subire urti senza snaturarsi, trasferito all’ambito dell’umano, pur conservandone il timbro metaforico, aveva cominciato a descrivere, a fronte di malattie gravi o lutti, la complessa strategia di mobilitazione delle risorse interiori atte a fronteggiarle, per evitare l’irreparabile.
Ebbene, da vent’anni circa a questa parte la nozione ha subito un vero e proprio rovesciamento semantico, divenendo l’imperativo categorico invocato dai governanti in Occidente per predicare a moltitudini, già passivizzate, spirito di sopportazione e capacità adattiva. Attraverso la resilienza, propagandata a reti unificate, si intende veicolare l’idea che non un singolo evento tragico, come può essere una perdita dolorosa o un male incurabile, ma che la realtà storica nella sua totalità – sociale, politica ed economica – esige una postura dell’adeguamento permanente. L’uso dilagante del concetto è la spia di due processi in corso altrettanto inquietanti. Il primo riguarda l’apparecchiarsi di uno spazio sociale e politico sempre meno desiderabile che richiede perlopiù sopportazione e che per giunta, e siamo alla seconda ricorrenza, risulta sempre più impersonale e automatizzato. Il mondo storico che abitiamo finisce per apparire fuori dalla comprensione e dalla portata trasformativa delle soggettività – e qui le tecnologie elettroniche con l’accelerazione spinta hanno giocano, in negativo, un ruolo decisivo. Se ne ricava che non siamo gli abitatori del migliore dei mondi possibili, ma solo, apparentemente, del più intrasformabile della storia. La prescrizione della resilienza, dunque, nei vari ambiti del vivere sociale può essere letta da un pensiero critico appena avvertito come presagio sinistro di una crisi irreversibile dell’attuale sistema che ci governa.
Del resto il nesso che Klaus Schwab, maestro di cerimonie dell’aristocrazia finanziaria globale, istituisce tra resilienza e lockdown non lascia scampo sul senso nefasto da attribuire a questo inedito criterio unico di condotta: «Come tutte le buone pratiche, la resilienza comincia a casa con noi, cosicché possiamo verosimilmente assumere che nell’era post-pandemica saremo collettivamente più consapevoli dell’importanza della nostra propria resilienza fisica e mentale» (K. Schwab, T. Malleret, Covid-19: The Great Reset, 2020, p.82).
Il primo riflesso dello stravolgimento semantico del concetto, come accennato, consiste nell’attribuire un carattere di necessità a situazioni sociali e politiche che per principio dovrebbero essere sempre aperte alla possibilità. Ma la conseguenza più subdola è nel ricodificare in chiave soggettivistica condizioni che attengono alla sfera collettiva, sino al punto di arrivare alla pretesa assurda, come sottolineava acutamente il sociologo Ulrich Beck, di ricercare «una soluzione biografica a contraddizioni sistemiche» (Ulrich Beck, La società del rischio, Roma 2013, p. 137). Ovviamente questa riconversione e riduzione sul terreno delle singolarità non rimane priva di riflessi. I gravi scompensi del sistema in questa prospettiva diventano «disagio psicologico» da curare o, più spesso, «dissonanze cognitive» da correggere, non a caso espressioni ricorrenti nel lessico del nostro presente.
Ancora una volta, dunque, si scambia la parte con il tutto. La resilienza da contromisura specifica esistenziale da praticare in alcuni casi limiti, assurge a criterio universale di azione da adottare al cospetto di un mondo storico concepito evidentemente come un solido cristallo impenetrabile. Ciò significa predisporsi ad un atteggiamento sostanzialmente passivo in un contesto di preponderanza dell’oggetto (mercato, agenzie di rating, spread, guerre ecc.). Alla ideologia della resilienza corrisponde dunque una filosofia dell’intrasformabilità del reale a cui bisogna semplicemente adeguarsi.
E’ a queste altezze ontologiche,di concezione della realtà in quanto tale, che occorre spingersi per provare ad incidere sui processi attualmente in corso. Forse sono maturi i tempi, oltreché urgenti, per una ripresa in grande stile del pensiero idealistico e dialettico in particolare, a cominciare da uno studio accanito di una filosofia gigantesca quale quella di Antonio Gramsci. La scoperta sconvolgente che compie l’idealismo classico tedesco è la seguente: per paradossale che possa apparire, la verità è più rintracciabile nello svolgimento della storia anziché nei laboratori delle scienze naturali. Nel farsi storico non vi è un residuo fattuale esterno irriducibile, per cui si può ambire, nel suo svolgimento, ad una sempre maggiore coincidenza, per il tramite della prassi, delle oggettività storiche (società, economia e politica) con le soggettività che le hanno poste. In ossequio alla nota formula hegeliana secondo cui «la sostanza è il soggetto», le configurazioni storiche oggettive altro non sono che le nostre provvisorie oggettivazioni di cui poter prendere individualmente e collettivamente coscienza ed agire su di esse per renderle aderenti «ai desideri di migliori libertà» di tutti e di ciascuno.
Solo pensando in termini di unità, quanto meno potenziale, di soggetto ed oggetto, che come detto può valere per il solo mondo storico di cui siamo artefici, è possibile rimettere al centro una politica della prassi emancipatrice. Certo, a patto di concepire la verità come un processo e non come un mero enunciato. D’altronde che la verità fosse una questione eminentemente pratica più che teoretica ce l’aveva precocemente spiegato nelle Confessioni, molto prima di Marx, Agostino secondo cui «la verità è un fare».
L’eredità più grande di quel grandioso sistema di pensiero è stato concepire il reale in quanto tale come il regno della possibilità e mai della necessità, terreno fertile per sperimentazioni acquisitive di maggiore consapevolezza ed autonomia. La realtà nei sui interni squilibri offre alla dialettica «servo-padrone» di ogni epoca sempre occasioni di riscatto da poter cogliere, un’eccedenza di giustizia sociale da poter realizzare. Come ci ricorda Hegel nelle sue inequivoche lezioni sulla filosofia del diritto il servo «ha il diritto in ogni momento di spezzare le sue catene: anche se nato da schiavi, anche se tutti i suoi progenitori erano schiavi, il suo diritto è imprescrittibile» (G.W.F. Hegel, Propedeutica filosofica, Firenze 1977, p.28). Perlomeno fino a quando sussisterà un’umanità dolente tagliata fuori in linea di principio dai circuiti del riconoscimento.
Nelle pieghe della realtà ci sono tante e tali potenzialità inespresse che tocca ad una soggettività corale consapevole, da costruire in fretta, far giungere a maturazione e porre in atto.
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