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Le armi come fondamento della civiltà umana
La crisi ucraina ha riportato in auge il dibattito sulla funzione degli armamenti e sul ruolo del possesso degli arsenali come deterrente nei confronti del nemico. Quali sono i rapporti tra immaginario, diritto, violenza e armi? Al di là di una ingenua rinuncia alle armi, che utilità possiamo trarre da una riflessione di ordine sociologico, antropologico e filosofico sul tema?
A seguire un estratto di VIDEO WEB ARMI. DALL’IMMAGINARIO DELLA VIOLENZA ALLA VIOLENZA DEL POTERE (Rogas, 2021) di Alessandro Alfieri
La sociologia intende da sempre spiegare le dinamiche collettive nonché individuali partendo dall’analisi dei contesti storicamente e topograficamente determinati. È innegabile che forme determinate come il linguaggio e soprattutto l’immaginario abbiano contribuito a rispondere all’annosa domanda: si obbedisce e si mantiene l’obbedienza dei sudditi solo quando la logica della forza impositiva viene trasfigurata nelle forme di vita, ovvero diviene “abitudine” (habitus) del comportamento. Con l’azzeramento dello iato della coscienza del suddito, ovvero operando nella piena identificazione di comportamento e pensiero, diventa superflua qualsiasi forma esibita di violenza. L’obiettivo dei totalitarismi, obiettivo asintotico, è il raggiungimento di tale stato, che può essere conseguito solo insistendo sulla piena identificazione di politica e vita quotidiana, o di politica ed estetica ad esempio. Qualsiasi principio assume l’autentico valore veritativo e legittimo solo quando non viene riconosciuto neanche più in quanto principio, perché già riconoscere l’autorità del principio significa ammettere, seppure lievemente e allo stato originario, l’incrinatura del cristallo perfetto e della piena identificazione – per questo Pol Pot negli anni Settanta metteva i kalashnikov in mano ai bambini di otto anni affinché li puntassero contro i genitori, perché secondo la sua terrificante e mostruosa convinzione i bambini erano gli unici ancora non totalmente contaminati dal sistema che si voleva annientare, e perciò gli unici a poter aderire totalmente e spontaneamente al nuovo ordine, senza dubbi né domande, con una totale e piena adesione di azione, pensiero, credenza.
Poniamo l’interrogativo in altri termini: il potere è stato mai in grado di fare totalmente a meno del controllo concreto delle forze “armate” e delle forze di polizia, e perciò stesso dei tribunali e dei codici legislativi che di fatto hanno valore ed efficacia a partire dalle armi? A questo punto, si apre lo spazio della dimensione “empirica” e “analitica”: empiricamente, il principio di ragione ci dice che si obbedisce alla legge per paura della sanzione amministrativa. La paura è l’altra faccia però dell’immaginario, e restiamo ancora lontani dalla svolta radicale sul tema. L’approccio empirista rileva che il potere si ottiene e si preserva grazie alla forza. Il passaggio ulteriore e di tipo “analitico”: la tradizione della filosofia analitica ha ottenuto storicamente particolare rilevanza nell’ambito della logica e dell’estetica, e forse in quello della morale, ma sicuramente la filosofia analitica ha sempre avuto poco da dire a proposito di politica. Forse perché la politica è tacciata dagli analitici da subito come “metafisica”, proprio per le ragioni che abbiamo descritto fino a questo punto. Ma chiediamo allora a un analitico: perché esiste il potere? O ancora meglio, perché tu obbedisci a certe cose e non ad altre? Perché riconosci l’autorità, ammettendo che non riconoscere l’autorità significa trarsi fuori dal consorzio umano determinato dal contesto nel quale si vive?
Il filosofo analitico potrà dire che i simboli, i riti, le immagini, il linguaggio sono a fondamento dell’obbedienza e perciò del potere, ma questo lo sostengono “egregiamente” già i sociologi, i fenomenologi, gli empiristi persino. Il filosofo analitico ama la radicalità del pensiero, ed è questa radicalità che può essere utile, anche quando si rifiutano i bizantinismi sofistici delle argomentazioni analitiche. Non è vero che la forza agita è secondaria rispetto all’immaginario, è vero bensì il contrario: immaginario, simbolismo, ritualità hanno senso solo col sostegno di un esercito che convalidino l’istituzione. Una massa non si rivolterà contro il potere e i suoi simboli se non armata, e a sua volta alimentata da un’altra serie (avversa alla prima) di simboli e immagini, ma comunque armata (armata anche della non-violenza, sia chiaro). Per questo che risalire al principio analitico significa flirtare con l’antropologia: cos’è infatti l’esercito? I militari fanno giuramento di servire le istituzioni, ma non è un caso che le rivoluzioni e il sovvertimento degli ordini costituiti partano sempre da organi militari che violano il giuramento, rinunciando all’obbedienza per un capo e volgendo invece le loro armi a favore di qualcun altro. Perché a fare un esercito non sono solo “uomini”, ma “uomini armati che sanno usare le loro armi”: come per i mezzi di produzione della filosofia marxiana, eccolo il nucleo autentico del potere, ovvero le armi. Chi detiene le armi? Chi le sa usare? E come si pone l’equilibrio tra forze armate opposte, quando esistono?
Avere un’arma più potente, o avere il monopolio della sua capacità d’uso, significa ottenere una posizione di forza; avere una posizione di forza significa da subito mettere a repentaglio il riconoscimento dell’autorità dominante. È a questo punto, ma solo a questo punto, allora, che la trasfigurazione diventa simbolica e ci si affida al pensiero, alle idee, alle narrazioni e al desiderio. Così, circolarmente, il possesso delle armi diventa il principio analitico che regola i rapporti di forza, l’immaginario è l’elemento intermedio che anima lo spirito del “nuovo esercito” avversario, che poi torna nuovamente all’atto violento nell’insurrezione armata.
L’ “invenzione” o sarebbe meglio dire la “scoperta” della clava, ovvero di un bastone o di un osso come strumento di attacco o di difesa – messo in luce nella celeberrima ellissi temporale di Stanley Kubrick in 2001. Odissea nello spazio, dove la nascita dell’umano e della coscienza umana determinate dall’intervento dell’intelligenza aliena si esprime proprio nell’azione violenta e irosa dell’australopiteco che inveisce sulle ossa in maniera furente – assieme all’ “amigdala” (pietra di forma appuntita ottenuta attraverso l’urto con un’altra pietra che scaglia la prima), anticipano di gran lunga la nascita dell’organizzazione politica nonché la nascita delle immagini parietali che segnano il sorgere della sensibilità artistica (disinteressata e defunzionalizzata rispetto alla creazione di strumenti legati a un principio di uso specifico, come appunto le armi). Quell’animale manchevole e condannato all’incompiutezza che è l’uomo, privo delle protezioni e degli strumenti di difesa di cui dispongono in particolar modo i predatori (artigli e fauci), secondo Arnold Gehlen sopperisce in maniera mai definitiva a tale mancanza strutturale, provando l’esigenza di amplificare tale funzione tecnico-creativa fino a proporzioni distruttive incalcolabili[1]. La millenaria storia dell’antropologia umana, con le connessioni tra la sviluppo della tecnica e il progresso, non potrebbe in alcun modo escludere un’attenzione specifica all’evoluzione delle armi, fino ad arrivare alla sproporzione infernale tra i mezzi di distruzione di massa e le stesse facoltà cognitive ed etiche dell’uomo[2]. D’altronde, tale sproporzione non è specifica esclusivamente all’epoca moderna, e neppure all’invenzione delle armi in genere, ma riguarda in senso più ampio l’intero orizzonte di creazione di media da sempre: se i media, ovvero i mezzi, sono protesi dell’uomo, estensioni delle sue facoltà e dei suoi organi originari, da un lato tutti i media sorgono sotto il segno della sproporzione processuale dettata dall’indeterminato e continuo rilancio dell’umano ridefinito eternamente dalle sue invenzioni tecniche; dall’altro lato, l’uomo si dimostra sempre arretrato rispetto alle sue invenzioni ed estensioni tecniche, anche perché tutte le tecnologie create dall’uomo possono venire interpretate come “armi”.
Jared Diamond si chiede perché furono gli europei a possedere le armi e le strumentazioni utili al dominio, proponendo una ricostruzione della “sequenza”; in prima battuta, l’aggressività si esprime prima ancora della fabbricazione delle armi, e probabilmente la fabbricazione delle armi deriva da una chiara predisposizione culturale – Diamond fa l’esempio degli indigeni moriori, pacifici e innocui, che vennero sopraffatti dai maori, che invece sono notoriamente una civiltà di guerrieri. La conquista europea dei territori centro e sudamericani dimostrò la superiorità delle strumentazioni militari degli spagnoli sulle popolazioni native prima ancora dell’avvento e della diffusione dei fucili:
Assai più importanti furono le spade, le lance e i pugnali di acciaio, le cui lame robuste massacrarono i poveri indigeni dalle armature intessute. Le mazze primitive usate dagli inca erano in grado al massimo di ferire.[3]
Secondo Pierre Clastres, è riduttivo ricondurre in maniera unilaterale l’impulso violento della specie umana alla linea del determinismo biologico: in realtà lo studio delle società primitive mette in luce come le dinamiche dell’economia primitiva siano strettamente connesse alla predazione, ovvero allo sviluppo dell’aggressività. Ciò che differenzia la guerra dalla caccia, essendo la prima il “raddoppiamento” della seconda, è infatti proprio l’impulso dell’aggressività: la guerra è infatti un carattere sociale e non meramente biologico, e d’altro canto sarebbe sbagliato tentare di risolvere la violenza ancestrale dei primitivi nella prospettiva marxista, dal momento che non si tratta di una “lotta per la sopravvivenza” dettata dalla scarsità dei beni primari perché l’economia primitiva era un’economia di abbondanza. Guerra e commercio devono essere pensate in rapporto di continuità: al “commercio va ascritta una priorità sociologica in rapporto alla guerra – una priorità in qualche modo ontologica dal momento che si situa proprio nel nucleo dell’essere sociale”[4]. Clastres perciò insiste sulla continuità di guerra e scambio: la prima infatti sarebbe un fenomeno negativo e accidentale rispetto allo scambio, che invece è l’essenza autentica della società primitiva: “La società primitiva vuole lo scambio: è questo il suo discorso sociologico, che di continuo tende a realizzarsi e si realizza in realtà quasi sempre, salvo in caso di incidenti. È allora che emergono la violenza e la guerra”[5]. Di fatti, la società primitiva sarebbe pensabile anche senza la guerra ma non senza lo scambio: “La società primitiva è il luogo dello scambio ed anche il luogo della violenza: la guerra appartiene all’essere sociale primitivo nella misura in cui appartiene allo scambio”[6]. Lo scambio emerge come effetto tattico della guerra, perché è la guerra che determina lo scambio e non viceversa. In altri termini, le origini della violenza della guerra precedono l’economia e l’economia è una forma trasfigurata della violenza originaria, una guerra attraverso altri modi. Questo resta evidente anche ai nostri giorni, se guardiamo ai legami in ambito geopolitico tra guerra ed economia, e a come spesso la “guerra economica” sia un fenomeno preparatorio, conseguente o strettamente connesso alla “guerra effettiva”. Indebolire economicamente il nemico significa ridurre la sua corsa agli armamenti ovviamente, e d’altronde sanzioni del diritto internazionale come quello dell’embargo evidenziano come per colpire l’economia di un paese sia però necessario che ci sia l’avvallo e la prestazione militare – affinché un embargo sia efficace è necessaria l’adozione di una flotta che sorvegli il confine del paese sanzionato[7].
Se la legge è reale, concreta, ciò che avvalora la legge cos’è se non l’immaginario? Ma con l’immaginario esauriamo il processo analitico e decostruttivo della legge stessa? Quando il Re compare nudo, cosa lo difende se non le armi dei propri cavalieri? Se “dietro la Legge, che è ‘reale’, che è un’istituzione sociale effettiva, c’è il Signore immaginario, sua fonte e sanzione ultima”[8], allora si capisce perché il trono dove siede il Re dei Sette Regni nel Trono di spade debba essere composto letteralmente e brutalmente da “spade”: sono le armi che permettono al sovrano di esprimere il proprio potere. Nell’Anello del Nibelungo di Richard Wagner, non è un caso che le rune della Legge, ovvero i principi degli antichi patti stabiliti tra dio e gli uomini, siano non tanto trascritte su una tavola o su una pergamena, ma siano incise sulla lancia di Wotan, ovvero arma e legge si concretizzano nel medesimo oggetto. Spesso, dietro l’apparenza le armi neppure ci sono, ed è tutto per l’appunto “immaginario”, perché l’immaginario radicale precede ogni esplicita razionalità; spesso la realizzazione della libertà passa attraverso lo squarcio nell’immaginario, perché d’altronde cosa è la libertà? Il significato della parola di libertà viene rinnovato e ridefinito dall’immaginario radicale che istituisce il nuovo senso predominante, che viene fondato dalla comunità in maniera più o meno spontanea.
Perciò l’immaginario è solo una parte della complessità sociale; o sarebbe meglio dire, l’immaginario è tutto nel suo movimento di autoistituzione della società fino a quando mantiene la sua efficacia, perché quando il cristallo si incrina, allora la violenza dall’immaginario si trasferisce all’azione concreta. Dalla violenza raccontata, minacciata, ma anche trasfigurata esteticamente, contenuta, persino agita ma “parlata”, si passa alla violenza reale che l’immaginario non sa più contenere.
[1] Cfr. A. Gehlen, L’Uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983.
[2] Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
[3] J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi, Torino 2005, p. 54.
[4] P. Clastres, Archeologia della violenza, Meltemi, Roma 1997, p. 40.
[5] Ivi, p. 42.
[6] Ivi, p. 43.
[7] Cfr. AA.VV., Economic Warfare. Storia dell’arma economica, a cura di V. Ilari e G. Della Torre, Acies, Milano 2017.
[8] Cfr. C. Castoriadis, L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, Dedalo, Bari 2011, p. 48.
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