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L’Università che ci racconta?
Lo scorso 18 maggio a Zapping (Radio 1) il conduttore Giancarlo Loquenzi ha intervistato Alberto Scuttari, Direttore generale dell’Università di Padova e Presidente del Convegno dei Direttori generali delle Amministrazioni universitarie. Argomento: il PNRR ha stanziato complessivamente 30 miliardi di euro per le Università e le scuole italiane in genere (di cui 10 per le sole Università). Loquenzi si augurava che questi fondi siano spesi bene, per il miglioramento della qualità della ricerca e della didattica: cioè al fine di contribuire a realizzare più adeguatamente gli scopi istituzionali degli enti destinatari.
Uno si potrebbe domandare perché sul punto non si sia intervistato un docente; ma si deve ammettere che, nel contesto in essere, il cosiddetto management ha un ruolo rilevante (o, per lo meno, si ritiene che sia rilevante o che debba esserlo). Sicché Loquenzi si è uniformato al trend: ovviamente se si pensa che un’istituzione di alta cultura – quali sono tutte le nostre Università – debba essere condotta se fosse un’azienda in competizione globale e che a tal fine occorra un apparato burocratico complesso, allora i manager e il personale non docente in genere vengono ad assumere competenze, e responsabilità, non indifferenti.
Scuttari lo ha confermato convintamente; e ha argomentato evocando l’accesso ai finanziamenti UE (assai cospicui, non c’è dubbio) che si acquisiscono concorrendo con gli altri Atenei europei attraverso la presentazione di progetti di ricerca che, naturalmente, debbono essere ben strutturati per vincere. Sul punto Scuttari ha osservato che, per redigere un progetto vincente, non bastano le idee (che dovrebbero mettercele i ricercatori), ma occorrono, e sono determinanti, altre conoscenze ed esperienze, di carattere amministrativo: le forme e i formalismi dei format sono tanti e possono tradursi in trabocchetti di cui lo sprovveduto studioso facilmente potrebbe non accorgersi.
È così? Si. E allora è vero che il management ha una funzione importante in questa gara ad accaparrarsi le risorse messe a disposizione. Qui, però, si pongono due, diversi, interrogativi. C’è da domandarsi innanzi tutto se sia corretto questo sistema: cioè è corretto che le idee debbano essere, diciamo, vestite di così pesanti corredi amministrativi, esteriori, standardizzati ecc.? E, più in generale, è corretto premiare un ricercatore perché elabora un progetto vincente? O sarebbe più corretto premiare un ricercatore per l’originalità e l’utilità di una ricerca compiuta? Ovvio che, in certe realtà, se non hai i fondi, la ricerca nemmeno la puoi cominciare. Ma non è così in tutti i settori scientifico-disciplinari: in ambito umanistico molto spesso (o quasi sempre) sono sufficienti una buona biblioteca, un adeguato corredo scrittorio e, ovviamente, una (buona) testa.
La mia modesta esperienza (ambito umanistico) mi conferma che, dai meccanismi europei (e anche interni, cioè ministeriali), possono arrivare – e arrivano – fondi assai cospicui ai vincitori. Per come è stata presentata da Scuttari sembrerebbe che, oggi, l’attività principale di noi accademici sia quella di gareggiare per portar a casa (nella propria università, pardon) quattrini. Ma non è così: c’è dell’altro e quest’altro è (dovrebbe essere) primario. Allora mi domando se, per caso, lo scopo istituzionale sia, se non smarrito, stato declassato in queste università-aziende iper-burocratizzate: l’impressione è che i vertici accademici ne siano convinti o che il sistema li induca a credere così, pur narrando essi di altre missioni, anche queste talora estranee o ai margini degli scopi istituzionali. Sarebbe anche interessante conoscere (penso specialmente ai finanziamenti interni) come siano condotti i processi di selezione dei progetti.
Comunque sia, il secondo interrogativo è quello rivolto da Loquenzi a Scuttari: un interrogativo che lascia meno spazi interpretativi, diciamo anche di manovra dialettica, rispetto al primo (e agli altri correlati). Perché il Regno Unito ha escluso tutte le Università italiane dall’elenco degli Atenei da cui occorre provenire per ottenere l’High Potential Individual Visa, un visto che consente di restare in UK per cercare lavoro? Scuttari ha cercato di minimizzare; e in sé non ha avuto torto. Ma ha avuto torto, e con lui i Rettori italiani, quando ha cercato di dimostrare che, comunque, il nostro sistema universitario è tra i migliori cinque del mondo (cinque: perché?) asserendo che le nostre Università siano tutte mediamente buone e, dunque, in grado di diplomare ovunque neo-laureati corredati di buone competenze. Però la prima Università italiana, per la QS World University Rankings, è il Politecnico di Milano, che è al centoquarantaseiesimo posto (e per l’Academic Ranking of World Universities tutte le Università italiane sono collocate oltre il centocinquantesimo posto). Queste sono le classifiche; ed è arduo venirne fuori come pur provano i titolari del potere accademico in Italia. Arduo, se non impossibile. Dialetticamente sarebbe più efficace negare radicalmente la validità ai rankings internazionali (scelta, tuttavia, politicamente pericolosa). Comunque, anche durante la pandemia, non mi sembra che le Università italiane, e i loro docenti, abbiano brillato, abbiano dato un contributo particolarmente utile.
E allora? Allora, almeno a mio parere, le Università italiane non stanno per niente bene, come d’altronde tutto il Paese. C’entrano i finanziamenti, ma si ha l’impressione che spesso l’asserita penuria sia un topos, un alibi con cui mascherare le inefficienze. Senz’altro non mancano i laureati ottimamente preparati, ma l’impressione è che siano una minoranza in via di restrizione perché per il sistema (FFO) conta più che altro il numero dei corsi di laurea, degli iscritti e degli addetti alla ricerca a prescindere dalla qualità: si incoraggia così uno stile manovriero (usuale in Italia), ma la conseguenza più preoccupante è che mediamente gli studenti studiano meno. Inserirsi nel mondo del lavoro non è sempre facile; ma anticipare il tirocinio professionalizzante agli anni universitari significa sminuire, e svalutare, la dimensione teoretica imprescindibile in qualunque disciplina. L’esperienza pratica è fondamentale, ma introdurla anche nelle scuole (alternanza scuola-lavoro ora, ridicolmente, PCTO: Percorsi per Competenze Trasversali e per l’Orientamento) è incongruo; e, purtroppo, molto pericoloso per gli studenti (che possono perdere la vita o ferirsi gravemente: il ministro Bianchi se la cava dicendo che in Italia, purtroppo, succede in tutti i lavori …). I giovani, e le loro famiglie, vogliono lavorare prima possibile, ma la via più razionale sarebbe quella di farli entrare all’università un anno prima (e magari valutare la bontà della scelta di allungare gli anni di corso come deciso qualche decennio fa).
Ovvio che questi assetti sono funzionali a certi interessi. Ma vi è da domandarsi se questi interessi siano quelli degli studenti, cioè del Paese. Se, per esempio, il corso di laurea in giurisprudenza tornasse ad essere contenuto in quattro anni, i docenti ne sarebbero contenti? Credo di no perché ciò implicherebbe una riduzione del numero delle cattedre …
La scuola e, soprattutto l’università, postulano letture in solitario, riflessioni, confronti non banali, docenti appassionati, responsabili, non distratti da altro: l’apprendimento è fondante e la prima inclusione è quella rivolta alle conoscenze, la più ampia possibile e oggettivamente presentata e vissuta nei luoghi istituzionalmente deputati all’arricchimento culturale. Ma l’impressione è che i ragazzi siano disabituati alla lettura e al ragionamento articolato, e scuole e università semplicemente si adeguino: è, si intende, la soluzione più comoda.
Last but not least: la politica, e la passionalità politica, dovrebbero restare il più possibile fuori dalle porte universitarie; e non occupare (peraltro con alquanta unilateralità) la comunicazione ufficiale dei nostri Atenei. Scopo istituzionale e congruenza dovrebbero guidare quell’avventura intellettuale che è – dovrebbe essere – un qualunque corso di laurea. Ma non accade sempre così. Qualche giorno fa, proprio a Padova, l’Università ha voluto celebrare i suoi 800 anni. Lo si sarebbe dovuto fare ricordando, insistendo intorno a una storia di primazia internazionale tra Quattro e Cinquecento: invitando gli studenti, e gli stessi docenti, ad acquisire consapevolezza di questo passato. Altrimenti perché celebrare l’ottocentesimo anno? Invece no. Ha prevalso la pompa; e hanno parlato, e fatto parlare, soprattutto i politici (per carità, i vertici della Repubblica) e questa politica del presente (il presentismo come ossessione) ha condizionato anche l’intervento della rappresentante degli studenti, peraltro coraggioso, ma incongruo rispetto all’occasione.
Gli autoelogi, ovviamente, non sono mancati, ma integrano una narrazione non veritiera o poco veritiera. Poi la forza delle cose sarà, come sempre, destinata ad imporsi: una bella prova l’abbiamo avuta in questi ultimi mesi quando è drammaticamente emersa la nostra dipendenza energetica. Non è che non si sapesse; è che si narrava altro o d’altro. La cifra ce l’ha molto ben indicata Giuseppe De Rita ne Il dubbio del 21 maggio: gli Italiani son fatti così, prima debbono emergere drammaticamente i problemi (cioè la verità); poi cominciano, costretti, a pensare come affrontarli. Constatazione amara; ma vale, forse più che altrove, anche per scuola e università. Tutto ciò implica una grave responsabilità etica: siamo sempre là, ambizione e interessi particolari, se non privati, continuano ad orientare gran parte della classe dirigente italiana, a tutti i livelli.
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