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Tangentopoli: perché è necessario unire i puntini


26 Mag , 2022|
| 2022 | Visioni

Riflessioni a partire da Passatopresente di Simona Colarizi

Ci si aspetta, a ogni libro che ripercorra i tumultuosi anni che vanno dalla caduta del Muro di Berlino fino all’ascesa di Silvio Berlusconi, che una qualche chiave di lettura in più venga fornita per analizzare la serie di reazioni e controreazioni a catena che in pochi anni tanto hanno sconvolto la nostra storia e impattato sui decenni a venire. E ci si aspetta che l’epicentro di quel tornado (o, almeno, quello che appare come l’epicentro nell’immaginario e in molta storiografia), Tangentopoli, venga sgravato da letture per lo più “cronachistiche”, che oscillano fra la presunta necessità di “fare pulizia” nel nostro sistema politico e altrettanto presunti complotti a partire dalla strabordante iperattività della magistratura.

Uno degli ultimi tentativi è di Simona Colarizi, storica prestigiosa, studiosa della politica contemporanea italiana, intellettuale vicina a Bettino Craxi negli anni Ottanta, con il suo Passatopresente. Alle origini dell’oggi 1989-1994 (Laterza). Un testo estremamente fedele ai documenti e alle fonti. Forse troppo, pur non sfuggendo a chi scrive la necessità del rigore storico, perché una qualche chiave di lettura ulteriore e necessaria venga alla fine fornita. In altre parole: oggi non tutto sappiamo, ad esempio, sulle stragi o sul delitto Moro, ma riempire i vuoti con ipotesi e ragionamenti non è solo d’aiuto, ma indispensabile.

Sui complotti

Fin dall’introduzione, Colarizi prende le distanze da letture complottistiche che ipotizzerebbero congiure nei confronti del Pentapartito in generale, e del PSI in particolare, con la solida sponda del PCI-PDS e della magistratura. Ora: che possano essersi tenute riunioni “fumettistiche” fra gruppuscoli di loschi figuri che un giorno hanno deciso di porre fine alla Prima Repubblica, nessuno con un minimo di sale in zucca lo immagina. Come fa dire Paolo Sorrentino al suo Andreotti a chiosa dell’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari, “la situazione era un po’ più complessa”.

Senza voler ripercorrere nel dettaglio i pesanti smottamenti nazionali e, soprattutto, internazionali del ventennio precedente Tangentopoli, è ben noto ai lettori de La fionda quale attacco fosse in corso ai sistemi economici di stampo keynesiano forgiati nel Trentennio glorioso, e quale tangibile conseguenza esso aveva nel percorso che avrebbe portato all’Unione monetaria. Altrettanto note sono quindi le spinte e le pressioni perché l’Italia intraprendesse un cammino di riforme dagli effetti pesantissimi sullo Stato sociale, e di prosciugamento del patrimonio pubblico. Un cammino che, per vocazione e per modo di agire e concepire la politica, si rivelava (si rivelò) impraticabile per il Pentapartito, pur senza negare le derive clientelari o addirittura illegali che questi modi di agire potevano assumere. In particolare, era impraticabile per determinate correnti e personalità della DC, ed era impraticabile soprattutto per Bettino Craxi. Soprattutto sul tema dell’industria di Stato e del patrimonio pubblico, è ormai acclarato che non ci fosse da parte di Craxi una disponibilità, se non a vendere, di certo a svendere: ciò che invece avvenne successivamente, in un Paese in piena crisi istituzionale (anche a causa di Tangentopoli) e, addirittura, soggetto a tentativi di destabilizzazione per mano criminale sui quali ancora oggi non è stata fatta luce. Il vuoto politico che ne uscì, come sappiamo, fu immediatamente riempito da “tecnici” dalla mano pesante che, brandendo il vessillo dell’Europa, poterono agire tagliando lo Stato sociale e svendendo tutto ciò che si poteva svendere.

Colarizi – va dato atto – non nega l’avventatezza delle scelte di politica monetaria, soprattutto nei tempi. Cede tuttavia con eccessiva facilità alla narrazione delle “scelte inevitabili” e all’attribuzione di una generica debolezza alla “politica dei partiti” nei tentennamenti a percorrere la strada delle riforme, con pennellate un po’ troppo idilliache e indulgenti su Giuliano Amato. A nostro parere non si può invece prescindere dall’evidenziare che radere al suolo la “politica dei partiti” (e Craxi, per le ragioni dette, era oggettivamente l’ostacolo più ingombrante) aprì la strada alla deriva tecnocratica.

Gli equilibri internazionali

Che l’Italia sia stata, dal Dopoguerra all’implosione dei sistemi socialisti, un Paese guardato con “particolari attenzioni” dagli Stati Uniti, è un fatto. Anche qui, non intendiamo dilungarci su una materia che ben altri spazi meriterebbe, ma è patrimonio acquisito che da un lato la DC e i partiti laici erano, per l’America, un bene da preservare ad argine del PCI, e dall’altro un esercizio di eccessiva indipendenza da parte di singole personalità italiane fu stroncato nei modi più brutali. Che Craxi, oltreoceano, fosse un “sopportato”, è fin troppo banale ricordarlo (Sigonella è l’esempio potente, forse più nell’immaginario che nel peso specifico rispetto ad altri episodi). Altrettanto facile è osservare come con la caduta del Muro di Berlino le necessità di preservare la classe politica italiana da parte degli americani perse di intensità, e perse di intensità soprattutto se messa sul piatto della bilancia con ciò che quella classe rappresentava in termini di ostacolo sul cammino delle liberalizzazioni e delle (contro)riforme economiche.

Anche qui, non fa bene cedere a letture semplicistiche, che pure circolano, secondo le quali il Pool di Mani Pulite avrebbe agito su immediato impulso di presunte forze oscure di marca americana. Tuttavia, che non si guardasse dall’altra sponda dell’Atlantico con antipatia a ciò che stava accadendo in Italia sembra altrettanto inattaccabile. Su questo, Colarizi “sfiora” il tema senza dargli, a nostro avviso, il giusto rilievo.

Sulla magistratura e sul PDS

Ampio spazio viene dato nel libro, come è comprensibile, alle azioni del Pool di Mani Pulite. Giusto dunque, come fa Colarizi, ricordare le non poche storture sul piano giudiziario. Giustissimo ricostruire un clima che consentì ai magistrati di Milano di porsi, anche in innumerevoli sortite mediatiche discutibili e oggi impensabili, come detentori di poteri che andavano ben oltre il tracciato costituzionale, o come autoproclamati agenti di una presunta rivoluzione civile. Storicamente necessario è parlare anche di un ambiente costruito dalla TV e dalla stampa (in particolare dal tridente RepubblicaCorriereL’Unità, in una commistione di appagamento dei sentimenti più estremisti dell’opinione pubblica e di “servizio” nei confronti degli interessi delle rispettive proprietà, in una pagina non certo gloriosa del nostro giornalismo) che in qualche modo favorì certe derive. Merito va dato a Colarizi di aver sottolineato come questi sentimenti che percorsero il Paese impedirono un rinnovamento dall’interno della classe politica, la cui necessità fu sottolineata anche da Craxi nel citatissimo discorso alla Camera – discorso pronunciato fra chi non capì, chi capì e non ebbe la forza di agire e chi, infine, trovò comodo non capire. Fra questi ultimi, in prima fila, il PDS, salvo poche voci rimaste inascoltate.

Era, il PDS, alla ricerca di un futuro e di una complessa identità socialdemocratica da costruire, con la pesante ombra del nemico Craxi accanto. Fin dall’esplosione di Tangentopoli, si registrò uno schiacciamento del partito totale e acritico, salvo poche voci inascoltate, sull’azione del Pool (in imbarazzante compagnia del MSI e della Lega). Né si può negare che alcuni magistrati, smessa la toga, si candidarono nel centrosinistra. Dunque, lo strizzarsi d’occhio fra l’ex PCI e la magistratura di Milano difficilmente può essere discusso. Così come pare difficile discutere che in una direzione si indagò poco e male, a fronte di tanto zelo verso la DC o il PSI.

I punti, però, che il libro non tocca, neanche come interrogativo, sono decisivi. Per esempio che il PDS, dopo Tangentopoli, un’identità la trovò, e la lasciò in eredità anche alle sigle che gli sono succedute: quella che ha fatto degli ex comunisti, nel volgere di poco tempo, i più convinti sostenitori della sostituzione dei politici con i tecnici. Non c’è stato governo tecnico, o in odor di tecnica, vicino o lontano temporalmente a Tangentopoli, che non abbia visto come principale sponsor il PDS, i DS o il PD. È ardito mettere in relazione l’evoluzione delle indagini di Tangentopoli con l’evoluzione successiva del PDS? Crediamo che, al di là della storiografia, si tratti di un interrogativo quantomeno da porsi. Per porselo, tuttavia, è necessario spostare il focus dalla centralità dell’azione dei magistrati (che certo ci fu sul piano mediatico, oltre che su quello giudiziario), e interrogarsi in quali modi, e se in maniera predeterminata o meno, le inchieste furono funzionali al ridimensionamento del peso dei partiti nelle istituzioni e nella società. Questo, riteniamo, è il punto che non può essere in alcun modo aggirato per una corretta lettura.

Unire i puntini

A vent’anni di distanza dall’esplosione della più grande tempesta giudiziaria della storia italiana, alcune certezze le abbiamo. Ad esempio, che Tangentopoli abbia enormemente favorito il restringimento degli spazi della politica e l’allargamento a dismisura di quelli della tecnica. O che abbia impedito una riforma costruttiva del sistema politico, favorendone invece la distruzione. O che abbia diffuso nell’opinione pubblica una violentissima ondata di antipolitica, che si è declinata da un lato nella “carta bianca” concessa ai tecnici nei decenni successivi, e dall’altro nell’enorme consenso allo “straniero” Berlusconi. È oggettivo poi che alcuni partiti, e uno in particolare, e alcune personalità pur ben radicate nella Prima Repubblica, siano stati poco o per nulla toccati dalle inchieste: gli stessi partiti e le stesse personalità che negli anni successivi si sono mostrati più malleabili alle derive tecnocratiche. Né può sfuggire che, nel pieno di Tangentopoli, ci siano stati dei periodi drammatici in cui il vuoto politico ha favorito l’emergere di poteri a dir poco ambigui (non, ovviamente, per volere del Pool di Mani Pulite o dei partiti che per lui simpatizzavano, ma per le condizioni che si erano create).

Il lavoro su cui dovranno concentrarsi gli storici sarà quello di “unire i puntini”: quali furono i nessi causali? Quali i fili intrecciati, o quelli intrecciati solo in apparenza? Quanto Tangentopoli fu un evento realmente “centrale” in quegli anni, quanto fu “autonomo” dagli altri accadimenti del periodo, e quanto invece fu collegato o, addirittura, strumentale? Passatopresente risponde in maniera molto parziale a questi interrogativi. Non era forse questo l’intento del testo, né, come detto, a oggi è possibile dare risposte definitive o certezze, ma delle strade da seguire e da indagare devono essere necessariamente indicate.

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