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Facciamo come in Francia?
Mentre si celebra giustamente l’ottimo risultato conseguito da Mélenchon alle elezioni legislative in Francia, in molti nel nostro Paese si chiedono: qui in Italia ci sono le condizioni per replicare l’operazione politicamente riuscita di Mélenchon, che si è presentato alla guida di una coalizione larga e unitaria di sinistra?
La risposta, a modesto avviso di chi scrive, non può che essere scettica. Innanzitutto per le specificità dei due contesti e per la diversa e originale configurazione che la “sinistra” di Mèlenchon ha assunto nel corso degli anni.
Il quadro politico fra i due Paesi, come è evidente, è assai diverso e minore è lo spazio a disposizione per replicare con successo lo schema lanciato dal leader francese: il Partito democratico non ha subito lo stesso tracollo dei socialisti francesi, ma tiene a livello di consensi.
Quando si tentano facili parallelismi, andrebbero poi ricordate evidenze spesso rimosse: come è noto, negli anni Mélenchon, vero animale da campagna elettorale, ha fatto suoi temi e parole d’ordine estranee al vocabolario tradizionale usato dalle forze di sinistra (dalla valorizzazione del nesso questione nazionale, questione democratica e questione sociale alla critica dell’uso politico-mediatico delle emergenze e della logica da caccia alle streghe alla base dei ben noti green-pass) e non ha mai disprezzato, contro ogni forma di aristocraticismo perbenista, mobilitazioni ben poco “educate” come quelle dei gilet gialli.
Quel che è certo è che assumere oggi un profilo di aperta rottura con la propaganda mainstream di guerra ti consente (se proprio si vuole agire per emulazione di modelli stranieri), qui in Italia come in Francia, di ricompattare un elettorato di sinistra più largo di quello strettamente legato alla sinistra radicale. Ma nell’ambito della sinistra italiana non si vede una leadership con le caratteristiche del capopopolo francese: forza comunicativa, credibilità, carisma e capacità di parlare e unire oltre i recinti più stretti e angusti.
Va infine considerato e analizzato bene il dato clamoroso dell’astensionismo: quasi la metà del popolo francese ieri non si è recato alle urne (al punto che viene da chiedersi: votano ormai solo le ztl e i settori più ideologizzati?).
Un problema che conosciamo bene: anche qui in Italia un elettore su due non va a votare.
Nel frattempo, se guardiamo al dato delle ultime comunali, il M5S non esiste più. Se a livello nazionale quest’ultimo ancora regge è solo, almeno così ci sembra di poter dire, per il consenso, comunque in calo, di cui gode Giuseppe Conte.
Il problema delle prossime politiche diventa allora il seguente: dove finirà l’elettorato grillino con il suo carico crescente di sfiducia radicale, disillusione e rancore?
Come rimotivare politicamente un pezzo assai consistente di società frastornato a colpi di emergenza, che crede sempre meno nella possibilità di cambiare la realtà attraverso i canali tradizionali della partecipazione politica, anche alla luce dei fallimenti e dei tradimenti politici dei presunti homines novi della politica italiana?
Servirebbe tanto, e forse quel tanto non sarebbe nemmeno sufficiente. In quel tanto ci sono nuove parole d’ordine mobilitanti, capaci di condensare una quantità complessa e infinita di singole questioni in poche idee-forza, che però si presentano alla grande maggioranza delle persone come problemi che segnano il destino della loro vita. C’è una nuova classe dirigente capace di navigare in mare aperto, per agganciare la trasversalità, ponendo una sfida, come abbiamo ribadito più volte, anche spirituale, oltre che etico-politica e materiale. C’è infine la necessità di pensare a forme nuove di contestazione dell’ordine costituito e di stabilire un nuovo antagonismo, perché è il dire chiaramente ciò a cui ti contrapponi che crea lo spazio e le condizioni per poter esistere e agire politicamente.
«Vaste programme», avrebbe risposto Charles De Gaulle, tanto per chiudere rimandando alla politica francese.
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