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Per una critica filosofica di Enrico Mentana


17 Giu , 2022|
| 2022 | Visioni

Il tessuto che compone il reale non è qualitativamente diverso da quello che compone la filosofia. Essa non va ridotta alla sua ricomprensione accademica, all’autonomia sociale che sembra acquisire nel momento in cui diviene “disciplina”. Autonomia che è confusa con alterità, con separatezza rispetto al reale. Un errore di prospettiva e di senso comune, che molti autori hanno contraddetto con la propria opera. Non al fine di riportare la filosofia “coi piedi per terra”, ma per ricordarne il perenne senso terreno. Un’unità originaria del reale e della sua concettualizzazione che è ben restituita nel “giornalismo filosofico”, concetto così espressivo da risultare provocatorio. Riconoscere la contiguità dei due ambiti, realizzarne un dialogo critico. Giornalismo e filosofia si compenetrano perché condividono delle domande. Nello specifico, per citare Foucault in Pour une morale de l’inconfort: “Chi siamo noi al momento attuale?”.

Domanda inaggirabile, alla quale si risponde anche senza saperlo, alla quale il giornalismo immancabilmente risponde, in quanto luogo preferenziale di esposizione di quanto riteniamo notable. In questo senso, la filosofia è utile perché, nella celebre formula hegeliana di “rendere conosciuto il noto”, diviene pratica di eviscerazione concettuale di quella risposta già data. Non porre domande ma chiarire le risposte.

Enrico Mentana è riuscito ad imporre una sorta di monopolio soft sull’immagine del giornalista. È divenuto il rappresentante per la voce “giornalista” dell’immaginario nazionalpopolare nostrano. A ciò si aggiunga un’indubbia influenza reale sulle dinamiche dell’informazione, che va dal ruolo a La7 all’esperienza di Open, fino al nuovissimo “Domino” [La nuova rivista mensile di geopolitica diretta da Dario Fabbri edita da Mentana stesso N.d.R.]. Dunque, non è un atto arbitrario quello di usare le sue parole per descriverci. Intenderle come sintesi autobiografica del presente.

Le parole a cui facciamo riferimento sono quelle del post che segue:

“Scrissi qui cinque mesi fa che mi onoravo di non aver mai ospitato nel tg che dirigo nessun esponente dei no vax. Allo stesso modo mi onoro oggi di non invitare chi sostiene o giustifica l’invasione russa in Ucraina. E uso quelle stesse parole per rivendicarlo, senza dover aggiungere nemmeno una virgola:

Chi mi dice che così impongo una dittatura informativa, o una censura alle opinioni scomode, rispondo che adotto la stessa linea rispetto ai negazionisti dell’Olocausto, ai cospirazionisti dell’11 settembre, ai terrapiattisti, a chi non crede allo sbarco sulla luna e a chiunque sostiene posizioni controfattuali, come sono quelle di chi associa i vaccini al 5G o alla sostituzione etnica, al Grande Reset, a Soros e Gates o scempiaggini varie. Per me mettere a confronto uno scienziato e uno stregone, sul Covid come su qualsiasi altra materia che riguardi la salute collettiva, non è informazione, come allestire un faccia a faccia tra chi lotta contro la mafia e chi dice che non esiste, tra chi è per la parità tra uomo e donna e chi è contro, tra chi vuole la democrazia e chi sostiene la dittatura.”

Due dichiarazioni, in verità con la prima che già esprime un senso di pluralità, di elenco. Il punto cruciale non è il contenuto. Non è la notizia. Non è la materia del giornalismo, quanto la sua forma, la sua filosofia. In particolare, una questione di metodo: come rapportarsi con “chiunque sostiene posizioni controfattuali”. A sua volta, il metodo rimanda ad una teoria. La questione di metodo è perfettamente risolta nella sua effettualità pratica: non invitare la persona x in trasmissione. Tuttavia, la questione teorica che la fonda è soltanto accennata. Merita, invece, un approfondimento.

La parola chiave è “controfattuale”. La chiave di violino che apre il contesto di senso necessario a compilare una lista come quella compilata da Mentana. Parola giornalistica e inconfondibilmente concreta; giornalistica perché inconfondibilmente concreta. Rimanda alla dimensione della notizia, il nome giornalistico del dato. L’informazione come trasmissione imparziale di notizie, come vuoto quadro del dato. Mentana non sta fondando nessuna ideologia, sta semplicemente mettendo in comunicazione una parte dell’informazione, legata ai dibattiti televisivi, con una sorta di deontologia perenne dell’informazione nel suo complesso: dipingere il vero. Ecco che emerge, che deve emergere, la parola tra le più alte del nostro vocabolario: la verità. La notizia è una fattispecie del vero; è opportuno porre in relazione le peripezie della notizia con il delineamento della verità, col significato che vi conferiamo. Soprattutto, al modo in cui intendiamo il nostro rapporto con essa.

Nel primo capitolo del suo “Manifesto del nuovo realismo”, Maurizio Ferraris scrive che “il postmoderno ha trovato una piena realizzazione politica e sociale”. La riflessione, schiettamente filosofica, sul postmodernismo, acquisisce quindi una rilevanza sociale immediata. È possibile intendere questo rapporto di immediatezza nei modi più svariati. Si può pensare ad un più o meno ingenuo rapporto causale, cedendo ad una lettura spiritualista della storia che intende la realtà sociale come modellata dall’avvicendarsi delle idee. Si può immaginare, marxisticamente, l’opposto, con la realtà sociale che emana la propria sovrastruttura, le proprie espressioni più alte e raffinate, ora in un rapporto di meccanica spiritualizzazione della realtà storico-sociale, ora nel tentativo di conquistare un’egemonia che ne garantisca la perpetuazione. Ancora: guardando piuttosto ad Hegel, i due livelli diventano altrettante espressioni di un medesimo moto storico consustanziale allo sviluppo del vero. Ad ogni modo, rimanendo su trame hegeliane, la questione resta la stessa: che rapporto c’è tra la civetta e la talpa? Tra il raffinato autocomprendersi di un’epoca tramite i propri figli più brillanti e il suo cieco riprodursi, che trova dimora negli spazi infinitesimali delle interazioni che la compongono? È sufficiente, e compatibile col discorso di Ferraris, immaginare quantomeno un rapporto di affinità. Poter, nel sociale, mappare le traduzioni comportamentali dei concetti più sottili. È tutto quanto è necessario per analizzare i contenuti teorici degli eventi, senza voler necessariamente offrirne una spiegazione storica di portata scientifica.

Ferraris, nel libro già citato, indica nel fenomeno populista, nella de-tematizzazione della verità dal discorso politico, una emblematica concretizzazione della concettualità postmoderna. Dalla radicalizzazione del pensiero kantiano, cui viene attribuita la nascita del postmodernismo, alla riflessione sull’attualità per cui “nei telegiornali e nei talk show si è assistito al regno del «Non ci sono fatti, solo interpretazioni»”. Una saldatura tra questione filosofica e cronaca antropologica che conferisce centralità alla filosofia nel dibattito pubblico, non tanto argomentandone il ruolo d’influenza storica quanto indicando l’identità tra i suoi problemi e quelli dell’attualità e del modo di raccontarla. L’identità tra un pensiero della post-verità e un’epoca della post-verità. In un’analisi che, però, ha del memorialistico: Ferraris parla di un’epoca che è già nel pieno del suo declino, a fianco all’ascesa del Nuovo Realismo. Al punto che, introducendo il tema, il Nuovo Realismo è descritto come “Semplicemente la fotografia (che ritengo, quella sì, realistica) di uno stato di cose”. Un realismus triumphans che non trova tuttavia la propria “vittoria” tanto in un’operazione accademica quanto in una successione storica: “L’esperienza storica dei populismi mediatici, delle guerre post 11 Settembre e della recente crisi economica ha portato una pesantissima smentita di quelli che a mio avviso sono i due dogmi del postmoderno: che tutta la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, e che la verità sia una nozione inutile perché la solidarietà è più importante della oggettività”. A una società postmoderna, dunque, come quella descritta nel testo, è in procinto di seguire una società nuovo-realista. Immaginando un aneddotica esemplare, in grado di esprimere il nuovo Spirito del Tempo , il post di Mentana rappresenta un fulgido esempio.

La crisi della verità ha evocato una corsa alla verità, in una sorta di riarmo concettuale. Il rapporto con la realtà non è lasciato più a sé stesso, implicito di ogni discorso ma è puntualmente tematizzato, messo in chiaro. Un’euristica della verità non è più percepita come una tautologia, ed è perciò rivendicata espressamente. Non è rilevante, in questa sede, capire se il “ritorno della verità” sia motivato o auspicabile. C’è chi ha parlato della “crisi della verità” come di una paranoia collettiva più che di un fenomeno sociologico reale. È rilevante notarne, come appunto aveva detto Ferraris, la veridicità storica, ed interessante osservare in che forme questo ritorno è accolto ed interpretato.

Una tematizzazione forte della verità non porta con sé una forma di rapporto univoca. Pensare la Verità, conferirle nuovamente la centralità che il postmodernismo le aveva sottratto, non è un evento culturale di per sé determinato. Può prendere varie strade. L’intenzione di “abolire il noumeno” (le cose in quanto tali) è un punto d’intersezione tra realisti e idealisti. Pensare l’accesso alla verità significa pensarne il possesso; le più svariate filosofie che condividono il riferimento alla verità differiscono sensibilmente nell’ottimismo epistemologico che le informa. Criticando il postmodernismo, Roberto Mordacci ne “La condizione neomoderna” parla dell’identità di fondo tra relativismo e fanatismo. Pensare una inaccessibilità assoluta della verità occlude preventivamente il dialogo, lasciando spazio solamente alla prevaricazione. Il relativismo è il preludio del trionfo di Trasimaco, che non a caso prova a spezzare la ricerca platonica della verità. La verità come un termine medio, come un punto d’incontro nel quale soltanto è possibile disincarnarsi, abbandonare la propria esclusione, scalzare quell’atomismo che è precondizione dello scontro incessante tra monadi. La Verità disinnesca la violenza, previene l’oppressione. E tuttavia, i postmoderni hanno mosso la medesima accusa alla verità: liberare la prevaricazione, fondare la dittatura. La verità, istituendo strutturalmente asimmetrie tra chi la detiene e chi ne è lontano, contiene in sé il germe della violenza. Per cui la convivenza civile presuppone l’espulsione della verità dall’esistenza pubblica, esattamente come la neutralizzazione delle dispute teologiche tramite il confinamento della verità (religiosa) al “foro interno” dell’individualità ha rappresentato, nel pensiero politico moderno, il tentativo di pacificare un’Europa dilaniata dalle guerre di religione. Gli spiriti che hanno animato gli scetticismi moderni sono i più disparati, specialmente se si vuole intendere “modernità” in senso ampio, procedendo da Cartesio fino a noi. Il pensiero dei drammi della storia è stato, di certo, uno di questi. La diagnosi postmoderna è al tempo stesso una tradizione teorica ma anche (in parte) una progettualità politica, che ha una collocazione storica non casuale, plasmata dal rapporto con i totalitarismi. Il postmodernismo calca la continuità della vicenda storica moderna (forzandola?). Il razionalismo primo-moderno, pioneristico, parafrasando Hegel caratterizzato dal ritorno del pensiero a “pensare a partire da sé stesso”, che più o meno indirettamente metamorfosa nel fenomeno totalitario della tarda modernità. Lo stesso Mordacci riconosce l’utilità di una critica ad uno spirito di sistema che pervade non solo l’esperienza totalitaria ma anche gran parte della produzione filosofica della modernità. Una verità evidente, come pretesa le traduzioni delle filosofie in dottrine e ideologie, espelle la possibilità stessa dell’opposizione in quanto obsoleta, in quanto intralcio alla prassi politica.

Da una parte, quindi, l’indecidibilità dello scetticismo postmoderno che svilisce il dialogo a gioco sterile e che richiama inevitabilmente la decisione, l’arbitrio. Dall’altra, lo spettro di un rapporto con la verità silenzioso e contemplativo, che irrimediabilmente intende la pluralità come perversione del vero. L’evidenza non corrisponde alla Verità: è piuttosto il nome che si può dare al sentimento del suo possesso. È la componente soggettiva del dogmatismo che, pur non combaciando col realismo, ne rappresenta una possibilità implicita di degenerazione. Ogni postura concettuale contiene in sé la propria forma sclerotizzante, come le forme di governo in Platone e Aristotele contenevano il proprio rovesciamento degenerativo. Se è vero che una “società postmoderna” deve procurarsi degli anticorpi per non degenerare in un mondo farsesco e tribale, una società nuovo-realista deve procurarsene per non divenire la propria grottesca caricatura: una collettività insofferente alla critica, pronta a confondere la contestazione con l’irragionevolezza.

L’attenzione al dato di fatto è evidentemente una prassi sana, ed è comprensibile che nell’erompere di emergenze divenga ancor più importante. Tuttavia, abbandonarsi a un certo empirismo pop che acriticamente vede solo un’opposizione tra la fattualità e il suo tradimento è ingenuo. A sorgere è un’opposizione concettuale, che prescinde dalla propria casistica; un’opposizione che resta sempre quella tra vero e falso. Per cui non si tratta di conferire retroattivamente legittimità intellettuale a chi, ad esempio, nega l’Olocausto, suggerendolo come difensore di una libertà che va perdendosi. Siamo piuttosto tenuti a tener conto della possibilità di una istituzionalizzazione teorica di una prassi culturale, e dei rischi che essa comporta. Le dichiarazioni di Mentana, elevandosi rispetto ai casi singoli – anche nel semplice fatto di essere due – sono un suggerimento in questa direzione. Non è un caso pionieristico, certo: il dibattito sulla possibilità di fermare la disinformazione è pluriennale, anche se recente. È però uno spunto particolarmente prezioso proprio perché si sottrae alle logiche della legislazione. È una reazione più vicina alle dinamiche della società civile che a quelle legislative, la cui problematicità è invece più trasparente. Di fatto è già una decisione, ma non è una decisione politica. La disanima di Ferraris: il realismo è già tornato. Mentre la società si vaccina contro la sclerotizzazione del postmodernismo, ecco che le nuove forme già si degradano, ecco che ne emergono le problematicità. Come un serpente che si libera della vecchia pelle solo per trovarsi con un’altra già secca, già inadatta. Le teorie dell’anaciclosi non parlano mai di tempistiche. Subito è il tempo del dubbio, della domanda. La prima, tra tutte: “Quis iudicabit?”  (chi giudicherà?) Chi decide dell’espansione o della restrizione della casistica? Se non si tratta di eventualità ma di applicazioni di una deontologia che va definendosi sempre più, è opportuno chiarire quali sono i criteri di applicazione, e tuttavia ogni principio rimanda ad un principe, ogni legge al suo esercizio, ogni regola ad un arbitro. Nella polverizzazione della decisione, nella sua natura frattale che si sottrae al dibattito eminentemente politico, prendono forma nuove problematiche, nuove aporie che vanno tendendosi. Darsi tregua è già una colpa.

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