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Establishment, populismi o alternativa sistemica: quali prospettive per l’Italia?
È stata fatta notare su questo sito la differenza tra il contesto politico italiano e quello francese, come cioè sia difficilmente replicabile da noi una coalizione tipo NUPES, insieme di sinistra e popolare (o populista?). Successivamente, sempre su questo sito, sono stati espressi dubbi sulla strategia di Mélenchon, proprio perché nell’ultima fase avrebbe privilegiato l’identità tradizionale di campo rispetto a quella populista. Tuttavia, anche in Italia, la sovrapposizione confusiva tra vecchie geografie parlamentari (destra-sinistra) e nuove identità populiste è cosa assodata: il Movimento 5 Stelle fa parte ormai – pur con qualche oscillazione – della compagine del centrosinistra, mentre la Lega – considerata populista in anni recenti – ha sempre fatto parte del centrodestra, dovendo addirittura la sua legittimità (come anche Fratelli d’Italia) alla nascita stessa della seconda repubblica.
Cosa sono allora questi populisti, se anche i partiti di più lunga appartenenza di campo e di più tradizionale ideologia vengono detti tali? Sembrerebbe aver avuto ragione Fukuyama, secondo cui populista è ciò che non piace alle classi dirigenti liberali al governo. Potrebbe allora essere opportuno abbandonare il termine per la sua genericità, ma ormai è diventato di uso troppo comune per ignorarlo e qui di seguito lo utilizzeremo nel senso più ambiguo e diffuso. Difficile infatti dimenticare di quando Giuseppe Conte ne rivendicava l’attribuzione di fronte alle Camera adunata ad ascoltarlo, mentre oggi guida uno dei principali partiti di maggioranza nel governo forse più reazionario della storia repubblicana; un contrasto che proverebbe quanto l’aggettivo – almeno nel discorso pubblico mediatico – sia solo la nomea affibbiata a chi vuole contendere il potere al partito egemone, non quindi necessariamente ai proponitori di alternative sistemiche.
Prima condizione necessaria per proporre un’alternativa sistemica è infatti rappresentare la classe sociale subalterna esclusa dall’esercizio del potere, comunque la si voglia caratterizzare e definire: sconfitti della globalizzazione, lavoratori, quelli del 99%, ceto medio impoverito ecc.; questione non di poco conto certamente, ma da affrontarsi in altra sede. Tale condizione non nasce dal nulla e non può essere indotta, ma si verifica in un momento di crisi economica sistemica, non congiunturale, percepibile oggi dall’inarrestabile impoverimento dei ceti medi che avevano caratterizzato le democrazie industriali del secondo dopoguerra. Seconda condizione necessaria è che vi sia una classe dirigente con un’ideologia elaborata, consapevole della fase storica e pronta a organizzare la classe subalterna verso la sostituzione al potere di quella dominante.
La prima condizione sembrerebbe presente oggi sottoforma di una finestra di lunga durata, iniziata nel 2008 con una ristrutturazione capitalistica che ha visto le banche centrali occidentali sorreggere l’iper-gonfiato settore finanziario con montagne di soldi, i quali sono stati la salvezza delle banche ma non hanno creato occupazione nonostante i tassi di interesse bassi; le politiche di austerità hanno peggiorato i debiti pubblici come anche le condizioni di vita e di consumo; le restrizioni dovute alla pandemia hanno fatto il resto. Adesso l’inflazione da beni importati ha generato il carovita e il rialzo dei tassi peggiorerà la stagnazione. Intellettuali come Michael Hudson vedono in questo il fallimento del sistema capitalistico occidentale basato sulla deindustrializzazione e sulla terziarizzazione, sulla scomparsa dello stato pianificatore e su un settore finanziario spaventosamente sproporzionato rispetto all’economia produttiva. Qualcuno (ad esempio Yannis Varoufakis) ha voluto denominare questa nuova fase post-capitalismo per sottolinearne la diversità.
Le alternative politiche a questi fallimenti sono state chiamate indistintamente populiste senza riguardo alla loro vera natura. In queste troviamo forze politiche più o meno nuove ma collocate in una tradizione ideologica o di campo: SYRIZA, la France Insoumise e la leadership di Corbyn per la sinistra; Donald Trump, Lega, Fratelli d’Italia, Vox e molte altre per la variegata destra (a volte neofascista o neonazista); ma troviamo anche forze non collocate o post-ideologiche come il Movimento 5 Stelle e inizialmente Podemos. Tra tutte queste, quelle che hanno un referente esplicito nella classe sociale subalterna sono ben poche: ciò vuol dire che propongono false alternative. Per i populisti di destra infatti la classe coincide con la nazione. Per i post-ideologici invece la classe non esiste affatto perché non esiste conflitto nella sfera economica, al massimo solo in quella etico-morale: un’alternativa in questo caso impossibile perché non sorretta dalla consapevolezza. Va ricordato infatti che il capitalismo e il libero mercato sono una costante sia dei regimi liberali che di quelli nazi-fascisti: viene da sé possano essere sorretti da istituzioni politiche molto diverse tra loro, con buona pace degli apologeti del liberalismo á la Samuel Huntington o á la Emma Bonino.
Concentriamoci allora sul populismo italiano ed esaminiamo il caso post-ideologico, dopo aver presupposto che Lega e Fd’I hanno una qualche caratterizzazione ideologica o di campo e non rappresentano la classe subalterna, non proponendo quindi una alternativa di sistema ma solo una diversa interpretazione politica interna alla classe dominante. Il M5S invece – che in queste ore subisce l’ennesimo dissanguamento e dalle ultime elezioni risulta ridotto a percentuali minime – ha acquisito nel tempo una qualche identità di campo ma continua a rifiutare l’ideologia e non ha mai avuto un chiaro referente di classe. Al contempo sembrerebbero emergere una serie di forze, già battezzate populiste, che stanno sperimentando una convergenza nelle manifestazioni contro Draghi e contro la guerra nonché attraverso gruppi parlamentari unitari. Tra queste vi sono Alternativa, Partito Comunista, Ancora Italia, Riconquistare l’Italia, Azione Civile, più solitariamente Italexit e forse altre. Sono tutte caratterizzate dal non posizionarsi nei tradizionali campi destra-sinistra come anche inizialmente il M5S, ma a differenza di questo hanno una impostazione ideologica più definita e un riferimento di classe più marcato. Il gruppo dirigente che oggi voglia proporre un’alternativa sistemica deve sicuramente rompere con i tradizionali campi ma non può rinunciare all’ideologia, senza la quale consegna il destino della classe subalterna che a esso si affida al moto dei venti in tempesta. Ciò include avere una lettura condivisa della storia, una corretta analisi della situazione politica concreta e la proposta di un ordine nuovo (un’idea di società); da queste tre cose discendono un programma politico e una strategia per conseguirlo.
La lettura storica dei 5 Stelle era favolistica: in origine era il 1992 e c’era Mani Pulite, rivoluzione tentata dagli onesti magistrati contro i politici corrotti, rivoluzione fallita di cui si proponevano eredi; tutto ciò che veniva prima o dopo perdeva di importanza o era avvolto da una misteriosa coltre. L’analisi della situazione politica era anche peggio: i mali dell’Italia sarebbero risieduti nel conflitto di interessi e nella corruzione dei politici, mali da combattere attraverso un’iniezione di giovani incorrotti nelle stanze del potere. La riflessione su un’idea di società non è mai esistita per esplicita scelta, quindi il programma era un arlecchino di cose di cui molte sono state sconfessate (ad esempio la propagandata abolizione del MES, diventata poi la sua riforma in senso peggiorativo). La strategia non poteva essere migliore: da “mai col PD” al governo giallo-rosso.
Il variegato complesso ideologico delle nuove forze populiste invece è più consistente. Tutte in vario modo valorizzano la costituzione del 1948 e i partiti della prima repubblica, nonché lo sviluppo industriale del secondo dopoguerra con il progresso sociale che portò, anche riconsegnando agli onori dovuti figure quali Enrico Mattei e Aldo Moro, rappresentanti un’interpretazione del destino nazionale più indipendente dalle alleanze militari. La loro analisi della situazione politica potrebbe nel complesso suonare così: l’Occidente post-industriale è dominato da una classe dirigente finanziaria sempre più ristretta che non produce niente; il popolo è escluso dalla vita politica e spesso anche dal lavoro; esso si impoverisce, mentre viene portato sull’orlo di un conflitto globale con il resto del mondo; l’Europa è asservita agli Stati Uniti e al loro imperialismo. Le loro idee di società saranno sicuramente diversificate e a volte non definite, ma in esse c’è la pace, la dignità e l’uguaglianza tra i popoli e tra le persone. Per un possibile programma congiunto bisognerà aspettare le prossime elezioni, ma è certo che l’unica strategia vincente sarà presentarsi in coalizione.
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